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Periferie giovedì 26 maggio parliamo noi

Periferie: adesso parliamo noi

26 maggio 2016 – ore 16.00 Città dell’Altra Economia

Largo Dino Frisullo-Testaccio

PRESENTAZIONE
I Perché del Parliamo Noi: valutazioni e risposte Pino Galeota

INTRODUZIONE
Riconoscere le Comunità territoriali nella città policentrica Roberta Cipollini
Un Quadro di lavoro condiviso e vocazionale Francesco Truglia
La centralità dell’Animazione sociale e delle Comunità locali Eugenio De Crescenzo
CONTRIBUTI
Prima le Persone Pasquale De Muro
Riorganizzazione della Governance Alfredo Fioritto
Mettere mano all’organizzazione Comunale Luca Lo Bianco
Coesione sociale e comunità territoriale Carlo Cellammare
Le opportunità delle reti Stefano Panunzi & Federico Canoppia
Il verde urbano fattore di sviluppo e di inclusione Roberto Pallottini
Legalità e sicurezza: quale e come Maurizio Fiasco

Coordinamento Periferie: Corviale, Statuario Torbellamonaca, Torpignattara, Torrespaccata

“Le attivita dei diversi settori Istituzionali devono cooperare e promuovere partecipazione e socialità.

La legalità e la sicurezza urbana non si costruisce con l’intervento esclusivo della Magistratura e delle forze dell’ordine ma realizzando opere e progetti che aiutino a ridurre le situazioni di marginalità e disagio sui territori.

Si tratta in sostanza di costruire una migliore qualità della vita,

con migliori relazioni interpersonali e maggiore vivibilità dello spazio urbano.

Agli interventi assistenziali debbono essere affiancate attività sul territorio che riescono a realizzare migliori livelli di socialità, attuando politiche di prevenzione del disagio ed accompagnando i soggetti più deboli verso una piena inclusione della realtà che li circonda.

Per le istituzioni si apre così uno spazio inedito che mette i servizi sociali in relazione alla cultura,

all’urbanistica, alla difesa dell’ambiente, alla sicurezza….e alla legalità.”

Maurizio Bartolucci Roma Sicura 1998

Nel corso di questi anni, salvo rare e positive eccezioni, abbiamo assistito al connubio periferie uguale emergenze. La risposta è sempre stata, nel migliore dei casi, una mera amministrazione del problema. Spesso con interventi che avevano il solo scopo del ripristino di sicurezza e legalità e quindi senza nessuna capacità progettuale di indirizzo e di scelta che avesse l’orizzonte lungo e work in progress per la città del futuro. Le periferie, vecchie e nuove, in questi anni hanno subito mutazioni, cambiamenti, migrazioni che non conosciamo. Un fiato corto che relega il tema da affrontare al come “sedare” conflitti, esplosioni e violenze che di volta in volta si verificano. Una risposta emergenziale che non giunge mai al come intervenire. Programmazione, pianificazione, inchiesta, analisi dei territori sono concetti ormai, da tempo, non frequentati pur essendo essenziali per la rigenerazione urbana di cui tanti parlano. Noi ci siamo conosciuti sul campo nel marzo 2015 quando organizzammo 50 piazze contro le mafie, purtroppo unica e pubblica risposta a mafia capitale. E’ da questo rapporto che abbiamo condiviso la necessità di dire la nostra sul tema periferie. Nella nostra proposta quei concetti li abbiamo usati e declinati avendo ben presente che il cambio di paradigma che riteniamo necessario e urgente richiede disponibilità culturale, conoscenza delle situazioni, condivisioni e assunzioni di responsabilità. Nel nostro dna c’è la consapevolezza della necessità di collaborare insieme istituzioni, società civile e settori produttivi a forte valenza sociale. Concetti che ci hanno consentito di cooperare e di incontrare altre competenze e passioni che esistono e che ci hanno arricchito. Inviteremo i candidati sindaci a venire ad ascoltare perché le valutazioni e il “da fare” spetta a loro. Affermiamo che su questi contenuti c’è la nostra disponibilità alla collaborazione, con chiunque sarà eletto o sarà all’opposizione.

Il racconto delle periferie

Corviale, Statuario, Torbellamonaca, Torpignattara, TorreSpaccata




Sbilanciamo le città

Come cambiare le politiche locali.
Come dare una casa a tutti e opporsi alla rendita immobiliare
Come adattarsi al cambiamento climatico
Come realizzare politiche di inclusione sociale dei migranti
Come ridisegnare il welfare locale
Come realizzare una città pulita
Come cambiare la gestione delle imprese municipalizzate dei servizi pubblici locali
Come promuovere la cultura, la formazione e le arti nelle città
Come praticare il mutualismo e l’economia sociale e solidale
Come mettere le infrastrutture digitali al servizio di città “intelligenti”
Come favorire l’occupazione per il benessere delle comunità locali
Come trasformare la mobilità urbana
Come favorire la partecipazione democratica a livello comunale
Come recuperare e valorizzare gli spazi urbani e le periferie
Come contrastare la privatizzazione dei servizi pubblici locali
Come gestire bilanci, finanza locale e debito dei Comuni
Come combattere la corruzione e l’illegalità

Sbilanciamo le citta




La Cavea di Corviale diventa “L’albergo delle piante”

Arrivano 300 alberi per contrastare il degrado e l’abbandono nella piazza del XI municipio.
Più che un giardino nel cemento o un progetto di riqualificazione – termine spesso abusato quando si parla di arte in periferia – più che la retorica del colore contro il grigio, “l’Albergo delle piante” è prima di tutto un luogo di partecipazione nato dove prima c’era il nulla.

La Cavea di Corviale, meglio nota come piazza del mercato, anfiteatro quadrangolare che nella visione dell’architetto Mario Fiorentino, artefice nel 1972 del controverso progetto architettonico, doveva essere una sorta di agorà, è una spianata di cemento a ridosso del “Serpentone” circondata da scalinate, fredda d’inverno e torrida d’estate. Fino ai primi mesi del 2015 ha ospitato, nello spazio interno sottostante, il mercato ortofrutticolo, poi chiuso. La piazza su cui si affacciano la comunità residenziale e il centro diurno del Dipartimento di Salute Mentale Roma XI era tornata nel degrado, nell’abbandono e nell’isolamento.

Almeno fino ad ottobre dell’anno scorso, quando Mimmo Rubino e Angelo Sabatiello, artisti dalla diversa formazione ma uniti dal comune desiderio di avviare un progetto creativo, partecipato, inclusivo e aperto, hanno portato il primo vaso nella Cavea e dato vita all'”Albergo delle piante”, un vivaio collettivo in cui tutti sono invitati a portare una pianta e contribuire al suo mantenimento. “L’albergo è un progetto orizzontale, aperto alle influenze e a possibili variazioni e variabili, proprio come una pianta spiega Rubino, street artist “stufo di interventi imposti” e desideroso di confrontarsi per un lungo periodo con un luogo e i suoi abitanti.

Ispirati dal pensiero del filosofo Leibniz, secondo cui viviamo nel migliore dei mondi possibili, l’Albergo è il “migliore dei giardini possibili”. Anzi, con un pizzico d’autoironia Rubino e Sabatiello lo definiscono “il giardino più bello di Roma”. E non sono gli unici a crederlo. Nonostante i mesi invernali, l’assenza di fondi e di permessi, e alcuni avventori che, soprattutto nel primo periodo, facevano sparire le piante (“non usiamo il termine rubare – sottolinea Rubino – speriamo che se le siano portate a casa e le stiano curando meglio di come potremo fare noi”), il vivaio sta generando un piccolo miracolo. Sta riattivando il posto.

Ogni mercoledì, alle 5, gli ospiti della comunità aprono la struttura per un tè. Al momento conviviale, un allegro caos, settimana dopo settimana si aggiunge una nuova presenza. Dai ragazzi del centro di aggregazione giovanile (Cag) “Luogo Comune” dell’Arci di Corviale, a residenti del complesso popolare; ma ci sono anche esterni, incuriositi dal progetto che si avvale di una efficace campagna di comunicazione su Facebook. C’è chi porta una pianta, chi porta qualcosa da mangiare, chi, come Dario Guerrentini “er Poeta de Corviale”, porta una poesia.

“Avevamo provato in passato ad aprire la struttura al pubblico – spiega Alessandra Sabbatini, operatrice della comunità residenziale – ma alle nostre feste non partecipava mai nessuno. E’ bello vedere che oggi i pazienti vengono accettati e non stigmatizzati. E’ la dimostrazione che, insieme, si può fare qualcosa di bello. Fino a poco tempo fa i ragazzi venivano qui solo per tirare pietre contro le finestre, mentre oggi quando s’incontrano si salutano e scherzano insieme”, conclude.

Sono proprio i dieci pazienti ospiti nella struttura i principali soggetti impegnati nella manutenzione del vivaio. “Non è facile, le piante sono tante ed è un grosso lavoro, abbiamo solo un tubo per l’acqua, quindi dobbiamo riempire i secchi e farci il giro di tutta la Cavea”, racconta Enrico, da due anni ospite del centro, che confessa di essere un po’ preoccupato per l’arrivo della calura estiva. Ai ragazzi del centro di aggregazione invece è affidato “l’incubatore”. Nel loro cortile, non distante dalla Cavea, si prendono cura delle piantine prima che siano forti abbastanza da essere portate nella destinazione finale.

L’obiettivo finale è quello di riempire la piazza di piante. Oggi sono 80, ma il progetto, per definirsi concluso, ne dovrebbe ospitare 300. “Non abbiamo imposto regole, ma ci atteniamo ad un ‘manuale di stile”, spiega Sabatiello, già artefice di altri interventi di arte pubblica “verde”. “Non compriamo piante, devono essere tutte in vaso e non devono superare l’altezza di un uomo, in modo da non interferire con l’architettura del luogo e poter essere spostate facilmente in base alla stagione”.

“Il sogno è che chiunque possa venire qui a coltivare il proprio giardino, magari stimolare anche un po’ di competizione per chi ha la pianta più bella – aggiunge Rubino – e soprattutto che continui a vivere senza la nostra presenza quotidiana. Siamo consapevoli delle alte possibilità di fallimento del progetto, ma non ci importa. La vera opera d’arte è la partecipazione. E se
un giorno qualcuno del posto ci verrà a dire di interrompere il progetto perché la Cavea serve per altri scopi, anche quello sarà un successo. Vorrà dire che avremo creato un luogo di vita in cui il quartiere possa incontrarsi e identificarsi”. Intanto la prima conquista in questo senso è stata raggiunta. Digitando “Albergo delle piante” su Google Maps si viene dirottati proprio alla Cavea di Corviale, tra via Poggio Verde e via Mazzacurati 23.

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Come l’architettura urbana influenza lo stato d’animo

Alcune ricerche confermano che vivere in un quartiere monotono aumenti lo stress e peggiori la qualità della vita.
Nella nostra vita quotidiana non ci capita spesso di pensare molto su come lo spazio in cui ci muoviamo e interagiamo influenzi i nostri stati mentali, ma diversi studi dimostrano in che modo l’architettura e l’ambiente siano in grado di condizionarci emotivamente.

Una ricerca condotta da Justin Hollander – professore di urbanistica presso la Tufts University, Massachusetts – ha dimostrato come il design architettonico influisca sulla salute delle persone, dimostrando che un ambiente ben disegnato, variegato e non monotono migliorerebbe la qualità della vita.

GLI STIMOLI DEGLI EDIFICI COMPLESSI. Anche la psicologia cognitiva ha studiato l’impatto dell’architettura sulla vita quotidiana conducendo una serie di esperimenti sul campo. Una ricerca condotta da Colin Ellard – neuroscienziato presso l’Università di Waterloo – ha monitorato le diverse reazione di alcuni volontari, utilizzando dei sensori cutanei mentre passeggiavano in un quartiere di New York. I risultati dell’esperimento hanno evidenziato che l’attività cerebrale aumentava davanti a negozi, ristoranti ed edifici complessi e vivaci, mentre si abbassava drasticamente quando i volontari incontravano sul loro cammino architetture prive di movimento.

I RISCHI DI UN AMBIENTE MONOTONO. Altri studi hanno messo in relazione la maggiore incidenza di alcuni disturbi, come il deficit dell’attenzione, con luoghi poco attraenti e monotoni. Un edificio che non produce stimoli, non attiva la nostra mente e aumenta anche il livello di stress; di più, un ambiente disordinato e caotico provoca effetti deleteri sulla nostra salute mentale. Il segreto sta quindi nel trovare il giusto equilibrio tra ordine e movimento.

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Alla scoperta del piccolo Bangladesh nelle periferie di Roma

Al parco dell’Aniene, la domenica mattina, le squadre di cricket si ritrovano per giocare partite che durano ore, in un’area attrezzata e gratuita. Arrivano da molti quartieri di Roma, dalla provincia, dall’Umbria. Come il primo ragazzo che incontriamo, che ha la maglia della Ternana e che non è, come davo per scontato, bangladese, ma indiano.

A cricket, infatti, giocano tutti assieme: bangladesi, indiani, pachistani e afgani. Popoli dalle storie intrecciate, spesso segnate da guerre, che parlano lingue diverse ma vicine.

Nel parco, a godere del sole di aprile, famiglie che fanno il barbecue, bambini che giocano a pallone, un altro gruppetto di ragazzini e ragazzine che si allenano anche loro a cricket.

La squadra dei ragazzi bangladesi si allena prima dell’inizio della partita, senza fretta, fra scherzi e risate. Abitano tutti a Tor Pignattara, come la maggior parte dei loro connazionali che vivono a Roma. Uno dei quartieri del VI municipio, che, assieme a Pigneto, Casilino, Quadraro e Gordiani, è il più popolato a livello cittadino in relazione alle sue dimensioni.

Pigneto-Banglatown

Sono i quartieri compresi tra la Prenestina e la Tuscolana, con la Casilina in mezzo, tra i tram 5, 14 e 19, che arrivano a Centocelle, e il trenino delle ferrovie laziali, quello che ha preso il posto dello storico tranvetto. Quartieri nati nei primi decenni del novecento, a togliere spazio alla campagna, in forma di borgate e di case più o meno abusive. Quartieri nati per essere abitati da immigrati, genti arrivate da lontano, con abitudini e tradizioni diverse, che spesso non sapevano parlare l’italiano: erano abruzzesi, pugliesi, veneti, sardi, marchigiani. Sono le piazze e le vie in cui si è combattuta la Resistenza, spesso le stesse case nelle cui cantine sono stati nascosti i gappisti, i renitenti alla leva, gli antifascisti. Quartieri in cui è stato vivo sempre, e molto poi negli anni sessanta e settanta, l’associazionismo, la politica dal basso, spesso legata ai problemi abitativi che ancora gravano sui residenti.

Quartieri legati anche alla malavita, che negli anni ottanta hanno conosciuto da vicino l’eroina e i suoi effetti, che sono invecchiati, in cui i negozi hanno chiuso uno dopo l’altro per la concorrenza dei grandi centri commerciali più in periferia. Dalla fine degli anni ottanta hanno cominciato a ripopolarsi, ringiovanire, hanno riaperto i negozi. Le scuole sono tornate ad avere le classi piene, hanno aperto altre sezioni. Grazie ad altri immigrati: primi fra tutti i bangladesi, seguiti da cinesi, filippini, egiziani, peruviani e marocchini (Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, a cura di Francesco Pompeo, Meti Edizioni 2011-2013).

Una delle cose che si sente ripetere più spesso nei bar della città è che la comunità bangladese è molto chiusa. Che comunque sono troppi e le moschee pericolose.

Io e Simona, la fotografa, tra la comunità bangladese troviamo sorrisi e disponibilità, porte aperte e storie e parole. Conosciamo Shobin, che è stato promotore di una delle prime associazioni Italia-Bangladesh, che oggi si chiama Villaggio Esquilino e si è aperta alle altre collettività di migranti. Parla un italiano chiaro e ricco, grazie anche al fatto che quando è arrivato qui, a vent’anni, con una laurea, si è iscritto di nuovo alle superiori, e poi all’università. Conosciamo Bachcu, presidente di un’altra associazione, la Dhuumcatu, molto attiva nella richiesta di diritti fin dagli anni novanta.

Conosciamo Opu, che ha ventotto anni e abita al Pigneto insieme a uno dei suoi fratelli. Ha vissuto i suoi primi sette anni in Italia in un paese tra Firenze e Pisa, lavorando in un’industria tessile, così quando parla usa spesso “sicché”. Con lui andiamo a cena in un ristorante di suoi connazionali a piazza Vittorio, dove lavora un suo amico che lui chiama, romanamente, “zio”. L’insegna dice “Ristorante indiano”, ma le scritte sono in bangladese. Opu ci spiega che la cucina è più o meno la stessa, ma loro usano meno spezie, sua sorella non le usa per niente, ma a lui piace quel mangiare piccante.

Parlo, domando e ascolto le storie delle persone con cui, da anni, condivido strade, negozi e mezzi pubblici. Il barista e il fruttivendolo, la vicina e i suoi bambini che, come i loro coetanei figli di genitori bangladesi crescono confrontandosi quotidianamente con culture diverse, fra un lessico incapace di definirli, discorsi e sguardi dell’altro su di loro, di loro sull’altro. Parlano in italiano con tutti tranne che con i loro genitori e gli altri adulti della comunità che conoscono e frequentano.

A casa imparano la lingua materna, la ascoltano e la parlano, più o meno bene. Non imparano, nella maggioranza dei casi, a leggerla e a scriverla, la lingua bengali, per questo una ventina di loro vanno il sabato pomeriggio a studiare con Mary, una ragazza che ha più di vent’anni e quando parla sembra sussurrare. Si ritrovano alla casa del popolo, in via Bordoni, in quella parte di quartiere che molti conoscono come la Marranella. Sede di Rifondazione comunista, ospita nei suoi spazi numerose attività organizzate dai nuovi cittadini: lezioni di manguera per le ragazzine peruviane, messe cristiano evangeliche per i filippini, corsi di italiano per stranieri. Fino al 2008 la scuola si chiamava Bangla Academy e contava più di cinquecento iscritti.

È felice di quest’occasione: fare nel paese di arrivo lo stesso lavoro che faceva in quello di partenza

Il gruppo che, la domenica mattina, impara invece musiche e canti tradizionali è composto da una cinquantina di ragazzine e ragazzini fra gli otto e i tredici anni. I maschi hanno i jeans e il cappelletto con la visiera un po’ di lato, le femmine vestiti colorati se sono piccole e camicie a scacchi se sono più grandi, i capelli lunghi neri e molti raccolti in una coda bassa, o alta. Quando una di loro, una delle grandi, va alla lavagna a scrivere il testo della canzone, lo fa con l’alfabeto latino. Compie un’operazione di traslitterazione che le viene automatica, non conoscendo l’alfabeto bengali.

La lezione si tiene nel centro Asinitas, in una strada che da via dell’Acqua Bullicante sale verso Centocelle, in uno spazio di verde, con case a un piano, qualche animale, tra i palazzi dei due quartieri. L’insegnante si chiama Sushmita, è venuta ad Asinitas per seguire il corso di italiano e poi le hanno offerto l’aula per le sue lezioni domenicali. Suona un armonium indiano, con una mano batte il mantice per far passare l’aria e con l’altra suona la tastiera. Mi dà l’impressione, da quello che vedo, che sia una di quelle insegnanti che riescono ad avere gli occhi su tutti gli alunni, senza che nessuno resti escluso dal loro campo visivo, dalle loro intenzioni. Faceva l’insegnante anche nel suo paese, prima di sposarsi e di raggiungere suo marito a Roma, sette anni fa. Per questo, nonostante le difficoltà, è grata e felice di quest’occasione, di questa cosa preziosa e rara in cui è riuscita: fare nel paese di arrivo lo stesso lavoro che faceva in quello di partenza.

La grande menzogna

L’italiano, Sushmita, lo parla a fatica, come la maggior parte delle sue connazionali, che qui non lavorano e non hanno quindi occasione di parlarlo quasi mai. Cominciano a farlo quando i figli crescono e iniziano ad andare alla scuola materna e poi a quella elementare: si confrontano con le insegnanti, con gli altri genitori, gli altri bambini. E con i loro stessi figli, che imparano in fretta e che rischiano altrimenti di perdere nel loro percorso scolastico italiano.

Come Mary, l’insegnante, o come Toma, che ci offre un caffè e il payesh, un dolce di latte, zucchero e riso, quando andiamo a casa sua, un pomeriggio, mentre sua figlia Tasnia che ha cinque anni gioca con uno smartphone.

Le donne bangladesi a Roma sono solo il 29,6 per cento della comunità, perché non partono quasi mai da sole ma al seguito dei mariti. Arrivano qui dopo essersi sposate, spesso con matrimoni organizzati, nel senso che i loro coetanei emigrati, quando decidono di sposarsi, tornano a casa per qualche mese, si rivolgono alla famiglia o a una persona fidata per trovare una moglie che li segua in Europa. Sposarsi con un probashi, così si chiamano gli emigrati, è considerata cosa prestigiosa, anche perché di solito in patria non sanno come realmente vivono gli uomini quando arrivano da noi. Gli antropologi la chiamano “la grande menzogna”. Così le donne il più delle volte sono convinte di migliorare il loro stile di vita e invece lo peggiorano. Anche perché la società fortemente patriarcale e centrata sull’uomo, che non caratterizza solo i musulmani ma anche gli indù, minoranza in Bangladesh, limita le loro libertà di movimento, impedisce quell’esperienza di riscoperta di sé che spesso fa chi lascia la sua terra.

Così le si vede in giro per il quartiere quasi sempre accompagnate da qualcuno, o con i figli, con i loro sari colorati, che alcune usano anche come velo, mentre altre non si coprono i capelli.

Una società attraversata da forti contraddizioni, quella bangladese, sia in patria sia qui.

Trovo su Youtube un documentario sulle donne, sui loro corpi, le mode e i modelli di bellezza che mi ricorda l’italiano Il corpo delle donne. A parlare sono scrittrici, docenti universitarie, studentesse, cantanti, attrici e modelle, alcune di loro esprimono un discorso femminista ricco e complesso.

Il film Television, uscito nel 2014, di Mostofa Sarwar Farooki, racconta con i toni della commedia la storia di una giovane coppia di innamorati in lotta con il padre di lui, imam del villaggio, per ottenere il permesso di guardare la televisione. L’imam, le sue regole e le sue chiusure, sono visti come parte di un mondo in declino, assurdo e illogico.

Al parco dell’Aniene chiedo a Micha, che mi ha spiegato un po’ come funziona il cricket, se non ci sono delle squadre femminili e mi risponde che no, che in Bangladesh le ragazze non possono giocare, quindi non sanno giocare. Mi spiega che quelle ragazzine che si stanno allenando là in fondo sono nate qui, dice: “Se a mia figlia, che nascerà qui, piacerà il cricket potrà giocare, lei sì che potrà farlo”.

La nuova generazione

Nel film 2 francos, 40 pesetas, del regista spagnolo Carlos Iglesias, un gruppo di amici emigrati in Svizzera agli inizi degli anni settanta si confronta sul tema dell’identità, dell’integrazione. Uno di loro afferma di essere integrato. L’altro gli fa notare che, nonostante vivano in Svizzera da sette anni, sua moglie non parla una parola di tedesco e frequentano solo altri spagnoli. Allora il primo ammette che in effetti è così, ma che è disposto a sopportare tutto questo perché ha fiducia nel fatto che per suo figlio non sarà così, che lui avrà, anzi, le occasioni raddoppiate, e una vita più felice.

Si “salta” una generazione, si confida nel fatto che quella successiva sarà più libera, avrà più diritti e soffrirà di meno.

La nuova generazione di bambine e bambini bangladesi romani, intanto, sotto la guida attenta di Sushmita, prepara uno spettacolo per il capodanno, che è stato lo scorso 14 aprile ma i cui festeggiamenti vanno avanti fino al 25. Indosseranno gli abiti tradizionali, colorati e festosi, e canteranno le bellezze del Bangladesh davanti alla loro comunità. Magari sperano che a vederli vengano anche i loro compagni di scuola, i loro insegnanti, gli abitanti del quartiere, italiani egiziani o peruviani, che saranno curiosi di conoscere un po’ più da vicino quelle persone che incrociamo ogni giorno per strada, sul tram, al bar sotto casa o al banco del mercato.

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Scuole di periferie aperte d’estate e nei giorni di festa

Per fare sport, musica e laboratorio.
“Stanzieremo fondi specifici per l’apertura prolungata nelle scuole. Dieci milioni che utilizzeremo per le periferie delle grandi città”.

Ad annunciarlo, in un’intervista al Mattino di Napoli, è stato il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini in un’intervista al mattino del 25 aprile, nella quale sottolinea: “ogni ragazzo che conquistiamo noi è un ragazzo che perdono i clan”.

Riferendosi alle zone dove si concentra la malavita organizzata, Giannini ha tenuto a dire che i fondi sono stati stanziati per essere destinati “non solo a Napoli ma anche a Roma, Palermo, Bari, Milano e Torino, perché le periferie hanno vita complicata anche al Nord, sia pure per problemi diversi. Servono azioni mirate”.

Il responsabile del Miur ha poi spiegato che i 10 milioni di euro stanziati sono “immediatamente disponibili. Si tratta di utilizzarli per le attività extracurricolari che le scuole possono organizzare nell’ambito dell’autonomia”. I primi istituti scolastici ad essere coinvolti sarebbero quelli del secondo ciclo.
Poi, sempre il ministro ha aggiunto che le risorse umane a sostegno del progetto vanno integrate. “Gli insegnanti, grazie al piano della Buona Scuola, in questo momento ci sono. Ma naturalmente non basteranno. Qui non si tratta di prolungare nella giornata l’apprendimento delle materie tradizionali. Si deve puntare sullo sport, sulla musica, che è l’altra grande passione dei giovani, sulle attività di laboratorio per avvicinarli a un mestiere”.

Si tratta di attività, del resto, già oggi utilizzate nelle scuole per formare e cementare valori positivi nei giovani, in particolare nei cosiddetti Bes, i ragazzi con Bisogni educativi speciali, conseguenza spesso conseguente del degrado sociale e familiare in cui vivono.

“L’autonomia nella scuola resta la parola chiave ma perché funzioni davvero – sottolinea il ministro – va orientata e guidata: per esempio, se si vuole puntare sulle attività sportive occorrerà ricorrere a figure specifiche di educatori e allenatori esterne all’istituto. E questo lo si potrà fare grazie all’accordo firmato a suo tempo dal ministero con il Coni, che ci mette appunto a disposizione le sue professionalità”.

Secondo il ministro dell’Istruzione, dunque, “bisogna fare in modo che le scuole restino aperte anche d’estate, anche nei giorni festivi. Il rapporto fra insegnanti e ragazzi non può conoscere discontinuità. Ai ragazzi dobbiamo dare un orizzonte. Devono capire che non esistono storie già scritte. In questo senso la scuola non è il problema, è parte della soluzione”, ha concluso Giannini.

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Nasce ‘Bruchi’ l’asilo familiare nel verde

Nasce un nuovo asilo nel quartiere Pisana, municipio XII. Si chiama ‘Bruchi, l’arte di crescere‘ ed è un asilo familiare, nel verde, a ispirazione steineriana, per bambini da 3 a 6 anni. L’idea è di due maestre, Chiara D’Errico e Bruna Costantini, che hanno trovato ospitalità all’interno dello storico casale di Colle Massimo (in via Mario de Renzi 44), ristrutturato e riportato in vita dalla cooperativa il Carosello, che da 10 anni organizza nel cuore della Pisana corsi, laboratori, centri estivi per bambini. Oltre a un nido, una ludoteca e un centro clinico. Ora la cooperativa, presieduta da Mariarosaria Danza, si arricchisce di un nuovo asilo a ispirazione steineriana, che aprirà le porte a settembre. “Qui i bambini troveranno una casa calda e accogliente– spiega la maestra Chiara D’Errico- dove si sentiranno a loro agio da subito. Accogliamo bambini da 3 a 6 anni con una pedagogia steineriana“.
Pedagogia che sarà arricchita dal vissuto personale delle maestre: “Crediamo molto nell’importanza della natura come vera maestra di ogni bambino: abbiamo uno spazio verde molto grande dove i bambini possono giocare, sperimentare l’orto, osservare il passaggio delle stagioni”. Ci sarà anche “tanto spazio per l’arte: Steiner dice che dita abili producono abilità di pensiero e questo noi lo abbiamo già sperimentato con i bambini”. Ma che cos’è un asilo familiare? “E’ un asilo dove i bambini si sentono a casa propria, dove vengono praticate attività semplici e domestiche, come fare il pane, fare il telaio, la pittura o sgranare i piselli all’aria aperta. L’importante è che il bambino si senta a proprio agio, a casa sua. Le classi sono piccole, al massimo 15 bambini”. Questo, sottolinea, fa sì che “il bambino venga accudito e coccolato dalla maestra in modo molto individuale. E’ importante che la maestra si accorga del passare delle emozioni nella giornata del bambino e possa così lavorare, insieme al bambino e alla famiglia, alla crescita sana del bambino”.

Il Carosello, spiega la presidente Danza (una “psicodrammatista che utilizza il gioco di ruolo per raggiungere una migliore comprensione di se stessi”), è “un centro polifunzionale per la famiglia e l’infanzia: abbiamo servizi dedicati a tutte le generazioni, dai nonni ai nipoti, secondo l’impostazione della casa verde di Francoise Dalto”: uno spazio rilassante e accogliente dove grandi e bambini possono incontrarsi, giocare, favorendo così la vita sociale di qualsiasi età. “Accogliamo i bambini in un ambiente naturale– spiega ancora Danza- in particolare la nostra idea è di considerare il bambino un soggetto: attraverso la parola, il contatto e la natura stimoliamo quelle che sono le potenzialità dei bambini”. Nel centro clinico, inoltre, si affrontano “i disagi dei bambini che riguardano la fanciullezza come il linguaggio, le relazioni, il comportamento”. Per Danza “il Carosello oggi è una potenzialità, una risorsa del territorio, speriamo che ci possano utilizzare al meglio”. Cristina Maltese, presidente del municipio XII, sottolinea: “Il Carosello dimostra come si possano utilizzare al meglio luoghi di proprietà pubblica: qui si è creata una sinergia importante tra pubblico e privato che ha dato vita a servizi molto importanti per questa zona. Questo era un vecchissimo casolare diroccato, una collina in abbandono, un luogo in degrado che è stato recuperato e aperto al quartiere”. Oggi, dice, è “un luogo dove accogliere le famiglie, dove poter lavorare con i bambini. E’ diventato il cuore pulsante del Colle Massimo. Qui è stato fatto un miracolo”. Per Maltese “il quartiere è come una famiglia: le istituzioni hanno bisogno di collaborazioni forti con soggetti come questi. Qui c’è un’ottima energia, ci sono persone brave, professionali, con un cuore grande. E’ un esempio di come i luoghi pubblici devono essere utilizzati: il municipio- assicura- sarà al loro fianco”. L’asilo ‘Bruchi, l’arte di crescere’ ha una pagina facebook: https://m.facebook.com/Bruchi-Larte-di-crescere-1219579878054454/ e la cooperativa il Carosello è alla pagina: http://www.ilcarosello.it/ssv/home.coop

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La Presidente Boldrini a Corviale

INSIEME PER CAMBIARE IL QUADRANTE CORVIALE

Un riconoscimento al lavoro svolto da oltre otto anni per realizzare una idea di comunità e sviluppo territoriale che migliori la qualità della vita delle persone, riqualificando il nostro territorio in cui crescono e vivono i nostri giovani.

Una presenza ed interessamento importante che ci incoraggia a quel passare finalmente dalle parole ai fatti per:

  • riportare in legalità e sicurezza il nostro “Serpentone”
  • avviare i lavori del 4º piano
  • far aprire per il prossimo anno scolastico la scuola di Via Mazzacurati
  • spendere i fondi stanziati per il Centro Campanella (Biblioteca, Centro Formazione, Arci Giovani, Banca del tempo) e per le strutture sportive a vocazione olimpica per i disabili

Verrà presentato il campionato di Calciosociale 2016, patrocinato dalla Camera dei Deputati.

La visita della presidente Boldrini si concluderà con l’incontro, alle 18.30, della Comunità del Quadrante Corviale al Campo dei Miracoli Via Poggio Verde 455, sede del Calciosociale, uno dei luoghi simbolo della legalità e del cambiamento.

Vi aspettiamo!

Calciosociale 06.65198597
Corviale Domani 06.65678224 335.6790027
C.I.C. Comitato Inquilini Corviale 06.60650995




Il Mitreo presenta tre Bandi per artisti, street artist, gruppi e singoli cittadini

Il Mitreo in collaborazione con il Municipio XI presenta:

Tre Bandi aperti e gratuiti destinati ad artisti, street artist, gruppi e singoli cittadini
con PREMI PER I VINCITORI e visibilità durante un evento dedicato per tutti i selezionati!!!

-Bando per artisti: nato con l’intento di documentare e amplificare la percezione del Municipio XI con l’aiuto di osservatori originali, mai omologati e spesso anticipatori di nuove strade e percorsi inimmaginabili ai più: gli artisti!

SCADENZA 15 MAGGIO 2016

– Bando per gruppi (famiglie, classi di studenti, scuole, associazioni, amici, ecc.) e singoli cittadini: che si prefigge di raccontare il territorio del Municipio XI e le sue ricchezze, attraverso piccoli filmati autoprodotti anche con smartphone (di durata dai 30” ad un max di 5’)

SCADENZA 16 MAGGIO 2016

– Bando per street artist: con la finalità di dare spazio alla creatività e valorizzare l’opera degli street artist nei processi di rigenerazione urbana, ed in particolare nelle aree e strutture architettoniche maggiormente degradate, riconoscendo nella loro forma comunicativa, un privilegiato canale verso le nuove generazioni ed una funzione di crescita culturale dei cittadini, attraverso il recupero della funzione più alta del valore estetico degli ambienti in cui vivere.

SCADENZA 17 MAGGIO 2016

BANDO x ARTISTI – ARVALIA IN MOSTRA

BANDO x CITTADINI E GRUPPI – ARVALIA IN MOSTRA

BANDO x STREET ART- ARVALIA IN MOSTRA




Resoconto incontro in Prefettura sui lavori a Corviale

La Prefettura con questo report mette un punto fermo ufficiale sugli impegni che le Istituzioni (Ater, Regione e Comune) si sono assunte.
Un dato importante che impegna tutti a dare seguito alle dichiarazioni riportate passando quindi dalle parole ai fatti.

PREFETTURA RESOCONTO 8 APRILE 2016