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Vinta la battaglia ora bisogna vincere la guerra

La guerra che ora la nuova amministrazione deve vincere a Roma è impegnativa e risolutiva.
Lo richiede una città da troppo tempo senza una direzione e un progetto.
La vittoria che tutte le periferie hanno consegnato al nuovo sindaco conferma che la partita da giocare è lì.
Se si apriranno finalmente i cantieri della rigenerazione
se si apriranno davvero i cantieri della mobilità sostenibile
se si apriranno velocemente i cantieri del decoro, della sicurezza e della legalità in tutti i territori
allora a Roma avrà vinto la speranza.




Anche noi ogni giorno, sotto il cielo di Roma

Sotto i cieli di Roma, sotto quella parte di cielo che sta sopra la nostra città, ci sono – unitamente ai promotori di questa iniziativa – altri mondi che, pur non godendo della grande ribalta, vivono/agiscono per il Bene comune e per affermare che democrazia, convivenza e progresso passano per una collettiva, e non elitaria, crescita culturale.

Si tratta di migliaia di operatori culturali, di associazioni, di piccoli teatri, di scrittori, attori, operatori dello spettacolo, musicisti, artisti che anche nelle periferie dimenticate, lavorano a fianco del disagio e dell’abbandono delle regole della civile convivenza. Persone che, ogni giorno, affermano l’esigenza di vivere (come scrivono i promotori di Sotto i cieli di Roma) in “…una città piena di energie creative e di bellezza, pronta a riprendersi il suo prestigio e di rispecchiarsi nella trasparenza dei suoi cieli”.

Da questi mondi – che spesso lavorano ignorati dai più e dalla Pubblica amministrazione – provengono diversi operatori che hanno “messo la faccia” durante la campagna elettorale chiedendo ai candidati sindaci di essere ascoltati e proponendo – in diverse occasioni – la loro visione di Roma come comunità accogliente, aperta, educativa, partecipata, delle opportunità per tutti, del lavoro, delle arti e della cultura. Una città nella quale i primi (e anche i secondi) siano in grado di vedere gli ultimi (e anche i penultimi).

La dignità della Capitale passa attraverso la rigenerazione urbana e un ritrovato senso di appartenenza: civis romanus sum!

Troppe periferie e anche zone semicentrali in degrado.

Teatri, cinema, luoghi dell’espressività musicale e artistica chiusi o abbandonati.

Troppi quartieri senza un luogo culturale ed aggregativo. Spesso rimangono solo i centri commerciali!

Roma deve essere la città delle culture diffuse! Solo per questa via si formano partecipazione e pubblico potenziale. Le grandi istituzioni culturali, i grandi teatri, gli artisti più noti debbono essere interessati allo sviluppo di un tessuto socio-culturale che riconnetta la città disgregata nella quale, sempre più spesso, purtroppo, l’ignoranza diventa status e l’isolamento scelta obbligata.

Questo lo abbiamo detto e scritto durante la campagna elettorale e continueremo ad affermarlo – operativamente – ogni giorno. Non siamo di passaggio.

Occorre riconoscere alle attività culturali i benefici sociali generati in termini di comunità, di prevenzione dei disagi e di ricostruzione del tessuto connettivo tra cittadini e Istituzioni. Questo riconoscimento deve passare non favoritismi clientelari o bandi malscritti e per pochi “fortunati”, ma per la concessione agli operatori culturali (tutti dai primi agli ultimi) di una serie di beni e servizi (comunicazione, Ama, energia, canoni agevolati…).

Sotto questa fetta di cielo romano vogliamo la città dello Star Bene che ha bisogno non di sfratti ma di Presìdi culturali nelle periferie e in tutta la città; dunque – insieme ai grandi teatri e alle Istituzioni culturali che debbono continuare a vivere e a svilupparsi per affermare che Roma è una grande Capitale – occorrono spazi formativi, sociali e culturali aperti ai cittadini, alle associazioni, agli artisti, ai musicisti, agli attori e ai danzatori come volano dello sviluppo economico, delle rigenerazioni urbane e della Ricostruzione del rapporto tra cittadini e Amministrazione.

Per questo aderiamo alla manifestazione con la disponibilità a portare la nostra testimonianza.

Da soli nessuno ce la fa!

Corviale domani per il coordinamento di associazioni aderenti all’appello

ADESIONI

PINO GALEOTA

GINO AURIUSO

TONINO TOSTO

FRANCESCA SERPE

STEFANO MARTINI

ANDREA MASALA

TITTI CERRONE

MARCO IELPO

SUSY SERGIACOMO

FLAVIA DI DOMENICO

FRANCESCA D’ATENA

MARIA ELENA LAZZAROTTO

MONICA MELANI

FILIPPO NANNI

MARIO DE CHIARA

GIANNI PALUMBO

TOMMASO CAPEZZONE

MASSIMO VALLATI

DANILO PACE

RENATO MASTROSANTI

ELEONORA TOSTO

SANDRO ZIONI

AUGUSTO PASCUCCI

MARCO MARINELLI

TONI COSENZA

BRUNO ALLER

MARISA FACCHINETTI

ALESSANDRO FORNACI

NADIA FACCHIELLI

GIANLUCA CASADEI

FRANCESCO MAZZEO

PAOLO INNARELLA

NANDO CITARELLA

EMILIO GENAZZINI

altri cinquanta firmatari in rappresentanza di (Arci, Corviale domani, AGCI, Forum Terzo settore Lazio, UNIAT, Abraxa Teatro, FEDITART, FEDIM, Scuola di musica Najma, Cantieri Rubattino, CESV, Scuola di musica Alessandrino, Palco Comune, Associazione culturale Torpignattara, Centro d’arte Il Mitreo di Corviale, Associazione Strada facendo, Associazioni scrittori Entroterra, Associazione scrittori La città delle stelle, Università Popolare di Roma…)




Geografia commossa della periferia

La pulizia autorganizzata di palazzi e aree verdi, la biblioteca autogestita, il centro sociale El Chè(ntro) e lo spazio culturale Cubolibro (foto). Bisognerebbe ripensare la periferia romana, a cominciare da Tor Bella Monaca – di cui molti si sono “occupati” improvvisamente in questi giorni per “analizzare” i risultati elettorali -, fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
A dir la verità, a me non è mai piaciuta molto la periferia romana, ma penso che sia un dovere civile, soprattutto per chi lavora in un’università romana, occuparsene.

La periferia romana è una città vasta, faticosa, complicata e non propriamente “bella”. A tratti repulsiva. In particolare se confrontata con il centro storico che, come si sa, una sua bellezza ce l’ha, anche se è un luogo non meno complicato e per altri versi problematico. Ho imparato però col tempo a conoscerla e penso anche che sia un importante terreno di lavoro e di coinvolgimento, soprattutto per chi si occupa di ricerca e vive in questa città. L’Università non può essere un luogo autoreferenziale e in sé concluso, ma si deve impegnare nella propria città, nel proprio territorio, a servizio della propria città e degli abitanti che ci vivono. A Roma l’Università si occupa troppo poco di Roma. Ed è spesso una ricerca “dalla distanza”, fatta sui dati statistici, sulle mappe, su informazioni indirette.

Per fare una buona ricerca bisogna invece andare sul campo. Sul campo si capiscono molte più cose. Seguendo la vita quotidiana, parlando con le persone, incontrando chi vi svolge attività e servizi, conoscendo i conflitti, studiando le pratiche urbane, partecipando delle situazioni vissute si può conoscere molto meglio la realtà e si può accedere anche all’invisibile, a quelle dimensioni immateriali e simboliche che non si vedono a occhio nudo, ma solo partecipando della vita quotidiana, e che spesso sono i fatti più rilevanti, anche per un urbanista, anche per fare una buona progettazione o riqualificazione (ormai sempre attenti a non usare termini che diventano mode o slogan, come l’incipiente “rigenerazione urbana” o la “smart city”). Bisogna costruire un rapporto empatico col territorio e con gli abitanti, anche se questo non significa lasciarsi “annebbiare la vista”, ma mantenere sempre uno sguardo attento e critico. E così camminare è un modo per conoscere, per praticare un luogo, per esplorare, per fare esperienza, per entrare nella dimensione dei vissuti. Con una certa soddisfazione ho sentito dire recentemente a un mio tesista: “Effettivamente, ho fatto la mia tesi con i piedi …”.

Per governare una città bisogna conoscerla, ma conoscerla dal di dentro. E questo vale anche per lo studio e la ricerca. Da alcuni anni, sto cercando di conoscere e partecipare la periferia romana, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni.

Ho conosciuto la periferia abusiva, anzi ormai la periferia “ex-abusiva”, anche se della città abusiva ne rimangono tutti i caratteri, così emblematica della realtà romana, una realtà con mille ambiguità e contraddizioni. Ho studiato le “centralità”, i centri commerciali e i nuovi quartieri esplosi a partire dalle amministrazioni di centro-sinistra Rutelli e Veltroni.

Ho conosciuto altre periferie, ma alla fine ho pensato che bisognava conoscere le realtà più problematiche e così sono andato a Tor Bella Monaca. Non ringrazierò mai abbastanza i nostri dottorandi che studiano e ci fanno conoscere dal di dentro tante realtà diverse della città (in questo caso non ringrazierò mai abbastanza Francesco Montillo che ci ha fatto conoscere Tor Bella Monaca e i suoi abitanti).

Tor Bella Monaca è un quartiere di circa 30-35.000 abitanti e, per il suo carattere di edilizia economica e popolare, costituisce quindi una concentrazione quasi massiva del disagio sociale e del disagio abitativo: mancanza di lavoro, bassi redditi, economia illegale, spaccio della droga, alta concentrazione di persone agli arresti domiciliari, la più alta concentrazione di persone con disabilità a Roma, elevato abbandono scolastico, degrado fisico degli edifici, carenza di aree verdi attrezzate a fronte di una grande disponibilità di spazi verdi , ecc. Alla ghettizzazione corrisponde anche un’immagine stereotipata, molto diffusa in tutta la città, ma a cui fa da contraltare, come è ovvio che sia, una realtà molto più complessa, articolata e ricca, che si rilegge nella quotidianità della vita ordinaria e che gli stessi abitanti tentano di restituire a se stessi e alla città. D’altra parte, oltre agli innegabili problemi, è anche un luogo molto vitale, ricco di iniziative, di protagonismo sociale, di potenzialità e risorse, di produzione culturale (in particolare nel campo della musica) che in genere dall’esterno non vengono minimamente percepite.

Per evidenziare la complessità della situazione e la problematicità dei vissuti quotidiani, basti pensare alla difficoltà di vivere gli spazi pubblici, sebbene presenti all’interno del quartiere. Lo spazio pubblico è il luogo conteso dagli abitanti allo spaccio, rappresenta il luogo della lotta quotidiana con la droga. Per questo è spesso un luogo non piacevole, da evitare; e contemporaneamente il luogo da riconquistare.

Tor Bella Monaca è il quartiere “pubblico” meno “pubblico” che abbia mai conosciuto. La percezione della distanza delle istituzioni e dell’amministrazione pubblica non è così forte altrove come qui. La percentuale di occupazioni, la mancanza di manutenzione, la pulizia autogestita (e non “pubblica”), le morosità e la deregulation a tratti totale, la mancanza di presidi, la mancanza di interlocutori a cui rivolgersi o che ti rispondano, la mancata riassegnazione delle case lasciate libere fanno di questo posto l’emblema dell’assenza del “pubblico”. Se non ci fossero gli edifici a testimoniare che il “pubblico” c’è, o ci sarebbe, o una volta c’è stato.

Tanto più sono luoghi disertati dalla politica, che ha lasciato il campo delle periferie ormai da molti anni ed è venuta meno alla sua funzione fondamentale di mediazione tra i territori e i luoghi della decisione, del governo.

In questa situazione emergono con forza, purtroppo, la rabbia, il senso di abbandono, la necessità di autorganizzarsi. Si struttura, come d’altronde in tanti altre parti di Roma, la città fai-da-te, con tutti i pro e contro che questo comporta, perché questo significa conflitti, fatica di vivere, messa in crisi della solidarietà. Se, da una parte, vediamo processi di riappropriazione, dall’altra la legge del più forte rischia di essere sempre sull’orizzonte di vita delle persone.

Allo stesso tempo, frequentando questi quartieri ed in particolare Tor Bella Monaca, ho conosciuto alcune realtà che io ritengo eccezionali, smentendo radicalmente quell’immagine così negativa ed omologante che spesso se ne ha o che i giornali o altri mass media o molti politici hanno convenienza a mostrare.

A Tor Bella Monaca, nonostante la maggior parte degli abitanti (eccetto i morosi, ovviamente) pagano con l’affitto una quota destinata alla pulizia delle scale e alla manutenzione degli spazi comuni, la manutenzione e la pulizia delle scale non viene fatta. Ed è già questo un fatto grave. Gli abitanti si sono quindi organizzati per provvedere in autonomia (nonostante se ne parli male, si tenti di trasmettere l’immagine generalizzata di persone violente e “degradate”). Generalmente le famiglie si organizzano per scale, si autotassano (per quello che possono), raccolgono i soldi e li utilizzano per pagare una persona (possibilmente della stessa scala; almeno è un’economia che va a vantaggio degli abitanti) che provveda alla pulizia della scala. Ancor più complicato è autorganizzarsi per provvedere alla manutenzione degli spazi comuni ed in particolare delle aree verdi. Però, nonostante tutte le difficoltà, ci riescono. E così scopri che una torre con 75-77 appartamenti (ben 75-77!) si riesce ad organizzare e tiene in condizioni esemplari la propria area verde. Uno sforzo non indifferente e un’impresa eccezionale.

Non meno eccezionale è l’impegno dell’associazione Tor Più Bella nella zona di via Santa Rita da Cascia o di un gruppo di abitanti particolarmente agguerriti nella zona di via San Biagio Platani. In entrambi i casi (ma non sono gli unici) gli abitanti fanno una battaglia quotidiana per mantenere la qualità e curare e rendere fruibile a tutti alcuni spazi condominiali, gli spazi pertinenziali, alcune aree verdi e persino i parchetti vicini, abbandonati dal Comune, dal servizio giardini e dagli altri soggetti istituzionali che dovrebbero occuparsene. Si tratta di una battaglia quotidiana perché significa fronteggiare quotidianamente lo spaccio della droga che tende a colonizzare e a degradare lo spazio comune (distruggere i lampioni, eliminare le luci, rovinare i portoni per lasciare passanti gli accessi, ecc.) per poter svolgere liberamente i propri traffici illeciti. È una battaglia quotidiana (e gli abitanti utilizzano espressioni proprie di uno stato di guerra) e spesso assume forme molto violente, dove in gioco è l’incolumità delle persone.

Se l’espressione non suonasse troppo romantica, apologetica o altisonante, non esiterei a considerare queste persone “eroi della vita quotidiana”, e a cui varrebbe la pena consegnare “medaglie al valor civile”, per l’enorme lavoro di ricostruzione di condizioni di socialità e di spazi di servizio per il territorio e le comunità locali. Mentre spesso si tratta di persone considerate “fastidiose” e “pericolose” per le istituzioni, per la loro capacità critica e per la denuncia delle disfunzioni, e per questo paradossalmente poste sotto controllo dalla Polizia. Chi dovrebbe essere aiutato è controllato.

Così scopriamo che a Tor Bella Monaca c’è una dei licei scientifici migliori di Roma, con un enorme bacino di utenza nella periferia orientale, con una dotazione di laboratori e attrezzature da fare invidia a un liceo della “città borghese”, con un preside, uno staff e un gruppo di professori molto impegnati e di qualità. La scuola, nella periferia romana, è il primo vero (se non l’unico) presidio di “pubblico”.

Analogamente c’è un grande lavoro del locale sindacato Asia, con Maria Vittoria e molte altre persone molto impegnate, con una presenza fondamentale sul territorio, rispetto alla quale le istituzioni pubbliche non reggono minimamente il confronto. Si occupano del problema della casa, delle assegnazioni, di scoraggiare occupazioni abusive fatte solo per interesse e per traffici a favore del mercato nero e di sostenere invece chi ne ha effettivamente bisogno (segnalando anche all’Ater e al Comune quando le case risultano vuote o inutilizzate, ma non vengono riassegnate). Un lavoro quotidiano molto oneroso.

Così come bisogna segnalare il lavoro del centro sociale El Chè(ntro), ma soprattutto di Claudia e del Cubolibro (leggi anche Il cubo magico di Tor bella Monaca). In tutto il quartiere di Tor Bella Monaca (30-35.00 abitanti, con la presenza del Municipio e di altre strutture pubbliche), un quartiere appunto tutto “pubblico”, non esiste la biblioteca comunale. Un gruppo di persone, soprattutto giovani, ha pensato bene quindi di mettere in piedi una biblioteca “pubblica”, anche se fatta da “privati”, raccogliendo donazioni, anche dagli stessi abitanti. Fornisce libri e sostiene i bambini nelle attività extrascolastiche. Ovviamente potrebbe essere considerato “irregolare”, ma è l’unico servizio “pubblico” di questo tipo. E così si scopre che a Roma esiste una rete di biblioteche autorganizzate (con proprio sito, ecc.), e che addirittura svolgono il prestito interbibliotecario. Si tratta di prospettive eccezionali, soprattutto se confrontate con l’assenza del “pubblico”.

Eppure, poiché si tratta di realtà un po’ “irregolari”, vengono perseguiti o controllate o tenute sotto pressione (sull’onda delle recenti disposizioni del Commissario al Comune). È veramente una situazione paradossale. Piuttosto che sostenute per il servizio che svolgono, spesso sostitutivo delle assenze pubbliche, vengono perseguite.

Tutte queste realtà sono spesso invece presidio di civiltà e di solidarietà.

Forse bisognerebbe ripensare totalmente la periferia romana, il cuore della città, fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni, da una conoscenza generica e preconcetta. Forse bisognerebbe guardare con occhi diversi a questo mondo della periferia romana, così articolato e complesso, soprattutto dal suo interno. E scoprire una quantità di risorse, impegno e progettualità che è la sua potenzialità di riscatto e la reale prospettiva di cambiamento.

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I piedi sulla periferia d’Italia

Quasi adatti a garantire il giusto risultato

Quasi adatti a star seduti dentro un’auto accessoriata standard

Quasi adatti a scuole con i crocefissi ai muri

Quasi adatti a discoteche come gabbie

Quasi adatti a innamorarsi di un’animale a pelo corto

Quasi adatti a rinunciare alle proprie fantasie

Tre allegri ragazzi morti(1)

Otto romanzi non sono poca cosa, penso, quasi a giustificare ogni storia narrata, “storie (di periferia) che non andavano scritte”, dissero più volte da queste parti, anche un paio di avvocati mentre mi volevano querelare, anni fa.

Fuori piove. L’acqua sul vetro della finestra crea miriadi di gocce, le une uguali alle altre, le une sulle altre, a formare una marea, come i volti degli operai, identici tra mille e mille e mille altri volti, oggi tutti cassintegrati. Osservo dalla finestra i tetti dei palazzi rossi: in verità si chiamano Case Rosse, questo il nome dato loro dagli architetti che le hanno prima pensate, poi studiate e infine sollevate su questa terra ex-contadina, di nome Friuli, oggi del tutto cementificata. E così è avvenuto in ogni zona contadina del Nord della nazione.(2)

Sto scrivendo da Pordenone, una delle città che ha vissuto sulla pelle la vasta trasformazione industriale degli anni Sessanta e Settanta, passando da paese arretrato di poco più di diecimila agricoltori a zona ultra-industriale da sessantamila operai.

Quegli otto romanzi tengono dentro anche tale sviluppo (che non è progresso, come ribadirebbe un certo Poeta di nome PPP); quindi lo sviluppo della “periferia dell’anima”, dove oggi voglio tornare. Dopo molto.

Piove. Indosso il giubbotto scuro, leggero, alzo il cappuccio. Esco. Sotto il cielo color dei denti.

Cammino lungo la via delle Case Rosse.

È uno stradone che pare arrivare ai confini della città, del mondo, di questo mondo grigio cemento. Ai lati due file di palazzoni popolari dal colore scuro della terra bruciata, scrostato, con infinite piccole finestre tutte esattamente allineate. Da alcune spuntano occhi, volti, qualche mezzo busto di donna intenta a osservare questo pomeriggio piovoso che va a finire. Il cielo è sempre più basso, sembra impegnato a divorare il mondo, una punizione di un Dio troppo alto e lontano per farsi vedere: per esistere. Mi chiedo cosa avevano in testa gli architetti quando hanno concepito una galera così perfetta, così lineare, così ripetitiva. Per centinaia di metri identica. Le Case Rosse di Pordenone, e a maggior ragione le Vele a Scampia, il Corviale a Roma, Quarto Oggiaro a Milano, le zone limitrofe al Lingotto a Torino, tali vastissimi mostri di cemento, se li guardi dal basso sembrano mangiarti, la loro voce ti chiama e dice: «Vieni, entra, dormi, esci, lavora, spaccia, vivi, sopravvivi, poi torna, entra, dormi, oggi, domani, per sempre».

Dai palazzoni al capannone industriale dove costruire metallo, dai palazzoni alla piazza dove spacciare eroina, dai palazzoni alla strada dove perdersi, dall’alba al tramonto, andata e ritorno, andata e ritorno, andata e ritorno. Giorno e notte. Per una vita intera. Ecco la vita del Non-Più-Popolo-Italiano.(3)

Mi siedo sulla panchina di legno al centro del piccolo parco giochi. Due altalene. Diciotto alberi che puntano il cielo basso coi loro rami spogli. Una casetta colorata di giallo e rosso per i bambini, e una bicicletta rosa senza il copertone appoggiata alla parete, immobile da settimane.

La periferia del Nordest ha una sua Voce, una sua Storia. Ex “locomotiva d’Italia”(4) ha visto oltre all’ingovernabile sviluppo economico, industriale e urbanistico anche l’esplosione di un malessere sociale, generazionale, altrettanto ingovernabile, e raramente narrato, ancora tutto da comprendere. Due intere generazioni di figli di operai, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state abbandonate a loro stesse, colpevoli i repentini cambiamenti di stili di vita nelle famiglie e nella società, le nuove velocità richieste dal lavoro seriale, i nuovi bisogni economici, colpevole quello stravolgimento sociale che ha portato un mondo contadino e arcaico a diventare industriale e iper-produttivo in un quinquennio (dal 1960 al 1965), e così i figli di quel sistema, persi nelle inedite e profonde periferie, hanno trovato nella diffusione dell’eroina il baratro dove crollare, dove scomparire, dove dichiarare guerra a un universo mai accettato. Questa voce, che ha i tratti di un vero Urlo salito dalle viscere della “mia periferia”, prende vigore proprio nella disperazione portata dalla Ricchezza del lavoro(5); a differenza delle enormi periferie metropolitane, governate da regole del tutto opposte. Tra Friuli e Veneto, bisogna cominciare a dirlo, a scriverlo, una certa ricchezza operaia ha portato degrado, lo sviluppo industriale ha portato degrado, il benessere dell’omologazione ha portato degrado, un degrado figlio della solitudine, dell’abbandono. Come altro potevano crescere decine di migliaia di adolescenti rimasti Orfani di padri e madri ancora vivi, ma scomparsi dentro gli innumerevoli stomaci delle fabbriche. Donne e uomini spariti in vita, donne e uomini consumati a trent’anni, donne e uomini senza tempo per altro che non fosse produzione di ferro, legno, plastica, vetro, asfalto, cemento: lavatrici, automobili, televisori, frigoriferi, strade, palazzi, etc. Dove tre intere classi dirigenti di Democristiani (con la complicità del Partico Comunista Italiano e dei Sindacati) pensavano di aver risolto col Lavoro seriale secoli di povertà contadina. E invece quello stesso Lavoro ha creato nuove povertà, nuove emarginazioni, all’interno delle famiglie stesse, nella rottura prima intima e poi sociale del rapporto tra padri e figli, appunto esplosa negli anni Settanta e Ottanta, e non ancora sanata.(6)

Esco dal piccolo parco. Torno sotto le migliaia di finestre popolari e mi chiedo perché la periferia, ogni Periferia Occidentale, è stata pensata in questo modo. Perché a un certo punto gli architetti hanno dimenticato il senso della vita, il senso stesso dell’essere umano, i bisogni di chi abita quegli appartamenti di pochi metri quadrati. Perché avete costruito tutto questo? Vorrei chiedere a uno qualsiasi di quegli architetti, ingegneri, industriali, dopo averli costretti a vivere per tre, quattro decenni dentro quelle gabbie per animali umani. Esseri ammaestrati, abituati, schiacciati, perché è stato sacrificato tutto al cemento, al ferro, alla ruggine, alle fauci dello Sviluppo? E perché nessuno ha mai reagito? Tutto pare essersi realizzato in virtù della metafora del canarino: vivo in gabbia, morto al vento. Gli italiani: un popolo di piccoli animali fragili.

Dopo diverse centinaia di metri i palazzoni popolari si interrompono. Lasciano spazio a qualche campo sopravvissuto e a seguire ecco una delle migliaia di zone industriali che hanno invaso l’intera pianura padana, da est a ovest, da Trieste a Torino.

Mi perdo con lo sguardo tra i primi capannoni che incontro. Sotto la pioggia sembrano ancora più violenti, ancora più grandi. Potrei contarli, uno per uno, servirebbero ore. Camminare aiuta a vedere, ma anche a immaginare e sentire: le voci di migliaia di operai che qui hanno consumato i propri corpi, tutti i giorni, nei decenni trascorsi. Ogni dieci capannoni grigi ce n’è uno colorato. Non so perché, non ne comprendo il motivo. Forse in giro c’è qualche architetto ancora più sciocco dei suoi colleghi, che vuole lasciare la propria traccia, come i cani quando pisciano per segnare il territorio. Uno è identico a una scatola da regalo, colorato di rosa con enormi pois bianchi. L’insegna indica lavasecco industriale. Più avanti ce n’è uno giallo a strisce orizzontali viola. Sarà a duecento metri, ma quel colore è così potente che pure da qui sembra pronto a inglobarti. Non vedo l’insegna, ma appeso sopra c’è un elicottero. Forse vende testate nucleari. Sulla mia destra, giusto in fondo a una strada, se ne staglia uno super tecnologico, tutto blu elettrico, con lunghi finestroni neri e una scritta enorme, bianca, che corre tutto intorno al capannone e urla: arti grafiche. Si vede che sono attenti al particolare. Dall’altra parte della strada, in mezzo a cinque mostri quadrati, si innalza il più bello di tutti. Il più sontuoso. È lunghissimo, per metà di cemento levigato, grigio chiaro, e per metà di mattonelle lucide viola, verdi, gialle, nere, blu scure che sembrano cambiare colore a seconda della luce. Il padrone deve avere speso un capitale per quei colori. L’entrata è di legno, e ci sono alberi altissimi. Si capisce bene che pure il giardino è curatissimo, quasi fosse quello di una villa. Anche i parcheggi sono “di design”: pensiline nere opache, lineari, parto del solito architetto piscione. Produzione Arredi, dice l’insegna sopra la torre triangolare che sovrasta il tetto. Il padrone sarà un discendente dei faraoni, mi dico, senza nemmeno sorridere più.

Oltre la prima via se ne aprono altre, grigie, più grigie, desolate, più desolate. Sono le parallele periferiche dei centri industriali, quelle delle innumerevoli fabbriche fallite, chiuse, delocalizzate.(7) Le strade di un’Italia che al momento non conosce alcun Futuro, perché il domani sta in quell’abbandono lì, che è lo stesso abbandono di Dio. Non erano tutti devoti gli industriali alla Chiesa, alla Religione, a Dio? Ecco: ne hanno imitato la scomparsa.

E i poveri diavoli se ne restano qui, a terra, su questo fango geografico chiamato Italia.

Note

(1). Tre allegri ragazzi morti, rock band pordenonese, oggi la più importante del panorama indie, testi e musiche di Davide Toffolo, tra i migliori fumettisti italiani. Il loro immaginario artistico per anni ha narrato la città di questo racconto: Pordenone.

(2). L’Italia del Nord, soprattutto nelle regioni Friuli, Veneto, Lombardia, Piemonte, dagli anni Sessanta a oggi, ha subìto la più vasta e incontrollata e delinquenziale cementificazione in Europa, tanto da superare il 12% di suolo distrutto, irrecuperabile. Ancora oggi oltre 500 chilometri quadrati all’anno vengono consumati per l’espansione edilizia (dati riscontrabili nelle indagini dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).

(3). Gli italiani non sono mai diventati “popolo”, come l’Italia non è mai diventata “nazione”. Tuttavia tra gli anni Sessanta e Settanta l’ondata di industrializzazione diffusa ha avuto come risultato la creazione di un mondo operaio composto da venti milioni di persone, guidate dalle stesse abitudini e dai medesimi interessi, divenendo il primo e unico “popolo” del Paese. Con il crollo della produzione e la perdita delle grandi industrie parrebbe oggi la povertà la nuova omologatrice delle masse e dei consumi (oltre la televisione e i social network: discorso altro e non centrale in questa sede).

(4). Locomotiva d’Italia, definizione coniata per tre regioni (Friuli-Veneto-Trentino) dove negli anni Novanta e principio del Duemila la disoccupazione si attestava attorno al 2% e una provincia come quella di Treviso vantava un export in miliardi equivalente a quello dell’intera Grecia. Il Nordest, per un decennio, è stata la zona col capitale privato più alto d’Europa.

(5). Si consiglia in merito la lettura del “romanzo industriale” Works di Vitaliano Trevisan, Einaudi 2016. Uno dei più lucidi ritratti del Nordest dagli anni Settanta al Duemila e di cosa è stato il lavoro in queste regioni.

(6). Per approfondire la “questione industriale italiana” e i suoi effetti si legga la prestigiosa Antologia “Fabbrica di Carta”, curatori Giuseppe Bigatti e Giuseppe Lupo, Laterza, 2013. Per un approfondimento ulteriore, soprattutto rispetto alla mutazione antropologica dell’Italia degli anni Sessanta, si consiglia “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini, Mondadori, 1992, e “La ricchezza della povertà” di David Maria Turoldo, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2010.

(7). Il fenomeno delle delocalizzazioni aziendali, in Italia, dal 2007 a oggi, anni della crisi economica, ha comportato la perdita occupazionale per 1.800.000 lavoratori. Ciò che colpisce è che oltre il 70% delle industrie che hanno delocalizzato le proprie produzioni, dal colosso Fiat alla piccola Omsa (tanto per citare due casi estremi per dimensioni) erano in attivo, guadagnavano e avevano i conti economici a posto. La delocalizzazione in Italia è stata il maggior fattore di crollo del sistema industriale e della conseguente esplosione della crisi economica e sociale. Le responsabilità della classe industriale sono ancora tutte da narrare.

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Young Market Lab: ecco l’innovazione sociale che rigenera le periferie

Se nel 1869, nell’opera L’Idiota, Dostoevskij scriveva che “la bellezza salverà il mondo”, oggi il positivo auspicio del grande interprete della letteratura russa potrebbe essere trasformato in un propositivo incoraggiamento: “le donne salveranno il mondo”. E non si potrebbe pensarla diversamente quando a Bari (ma potrebbe valere ovunque), per la rinascita sociale e culturale di “Carbonara” – una delle tante periferie del Sud nelle quali, spesso, le relazioni sono definite più dall’uso delle pistole che delle parole – ad attivarsi è una giovane ragazza. Determinata e appassionata, competente e intelligente. Lucia Abbinante, innovatrice sociale e project manager dell’Aps Kreattiva, con altre associazioni come Pop-Hub e ActionAid, ha deciso che il mercato coperto del suo territorio natio non poteva continuare ad essere parzialmente inutilizzato e sottratto ai giovani del quartiere disponibili a mettersi in discussione. Per questo ha ideato il progetto “Young Market Lab” e per conoscere meglio questa esperienza di innovazione sociale, perciò, abbiamo rivolto a Lucia alcune domande.

Come e con quali finalità nasce questa iniziativa che vede il coinvolgimento di una rete di associazioni? Come si sono sviluppate fino ad oggi le diverse fasi dell’iniziativa?

“Young Market Lab” (Yml) è un progetto di “place-making” nato con l’intento di portare la comunità giovanile ad occuparsi dello sviluppo del municipio IV di Bari catalizzando, in un posto sottoutilizzato come il Mercato Coperto di Carbonara, le energie urbane (quelle rimaste!) della città e del territorio di riferimento. L’idea ha previsto il coinvolgimento iniziale di cinque associazioni baresi, nazionali ed internazionali, come gestori di un processo di consultazione e co-costruzione del percorso di riattivazione. E, infatti, la prima azione intrapresa è stata quella di aprire lo spazio e di chiedere ai giovani cosa volessero farne per trasformarlo in un luogo strategico per il municipio e per la città. Nasce così YML: qualche pallet recuperato dall’AMIU e trasformato in salotto, cartoncini a colorare il grigiore dei muri mercatali e teste piene di buoni propositi. Successivamente alla fase consultiva, che con molto orgoglio ha tenuto anche conto dei bisogni espressi dai minori del Municipio, si è aperta una fase di empowerment attraverso lo scambio di pratiche con alcune realtà nazionali ed internazionali, attive anche in altre città nella riattivazione e costruzione di comunità attorno ad uno spazio pubblico. Dopo aver studiato i modelli applicati altrove, con la collaborazione del Comune di Bari – capofila istituzionale del progetto – è stata lanciata la fase della “Call for solution”: una chiamata ai giovani baresi per intraprendere attività nel mercato che soddisfacessero i bisogni espressi e creassero valore economico e sociale. Oggi siamo nell’ultima fase: esistono 5 team composti da under 35 baresi che si sono aggiudicati un premio di 10000 euro e che stanno muovendo i primi passi con noi nel mercato per intraprendere le loro attività e trasformare lo spazio.

Cosa vuol dire oggi agire per il “cambiamento”? Quali sono le sfide contemporanee, anche culturali, dell’innovazione sociale e come possono essere vinte in una città del sud e in una delle sue periferie?

Attraverso l’innovazione sociale, rendere equo l’accesso alle opportunità materiali, culturali e relazionali, perché tutti possano prendere parte ad una vita bella: questa credo sia la sfida contemporanea più importante da perseguire per poter parlare di un reale cambiamento o di azioni che mirino davvero ad una trasformazione impattante nella vita di ognuno. La povertà, per esempio, è un fenomeno reale al quale bisogna dare, collettivamente e corresponsabilmente, risposte sinergiche. Credo che il Sud sia un’officina naturale dell’innovazione pura: possiede risorse notevoli che stanno solo aspettando di essere utilizzate nel modo migliore, con tanti altri giovani pronti con tenacia a mettere in atto le procedure (lunghe!) per il cambiamento sociale. Una criticità, invece, soprattutto per le periferie, è l’accesso alle pratiche dell’innovazione sociale, ossia quella che io definisco “traduzione dell’innovazione”, per renderla alla portata di tutti e a tutti i livelli. L’innovazione, tuttavia, per essere davvero rilevante deve agire sui sistemi complessi e sovvertirli o migliorarli. E questo è un processo che richiede impegno, partecipazione, competenze e risorse finanziarie, oltre alla presenza di amministrazioni abilitanti e soggetti in grado di partecipare alle sfide.

Dopo circa otto mesi, quali sono le positività e le criticità di questo percorso collaborativo orientato a creare prima di tutto un nuovo senso di comunità e una nuova opportunità per i più giovani?

Tradurre l’innovazione, appunto. Raccontare ai mercatali, o a chi non ha mai sentito parlare di partecipazione, che insieme si può co-progettare una nuova visione strategica dello spazio pur non essendo operazione semplice, ma anzi essa richiede linguaggi adeguati e strategie diversificate. Quando si tratta di dover intraprendere un percorso di cambiamento di destinazione d’uso di uno spazio pubblico, coinvolgendo la comunità, occorre il tempo per consultare, comprendere, mediare, trovare soluzioni. Mettere le mani sulla cosa pubblica, del resto, è sempre una storia seria e complessa. Come difficile e articolo è stato il processo di innovazione del regolamento mercatale cui erano soggetti i box che abbiamo in affidamento. Oggi, però, possiamo raccontare una bella storia, con molti giovani che hanno scommesso su questo territorio e su questo spazio. Ed ora i residenti non vedono l’ora di vedere le serrande alzate e gli spazi rivitalizzati!

Quale dovrebbe essere o sarà il futuro di Yml?

Young Market Lab vuole diventare uno spazio collaborativo della comunità, nel quale le persone possano incontrarsi, scambiare idee-oggetti-saperi, apprendere cose nuove, interfacciarsi con i servizi pubblici (anagrafe, municipio, servizi di gratuità) e fruire di uno spazio bello e utile.

Su quali altri progetti stai lavorando? Quali sogni e speranze per il futuro?

Lavoro per un progetto di Associazione Kreattiva in collaborazione con l’Autorità Garante Infanzia e Adolescenza che si chiama SARAI ed è un network di radio gestite dagli adolescenti che si occupano di sviscerare temi attuali in chiave children. In generale mi batto perché tutti possano scoprire quanto la vita ha da darci e tutti possano trarre beneficio dalla cultura, dal potere di alcuni incontri, dalle scoperte di alcuni posti. Se vogliamo, possiamo abbattere le disuguaglianze e abilitare tutti al diritto di sognare, a scoprire e immaginare nuovi orizzonti.

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Sprawl. L’urbanizzazione e il problema delle periferie

Il fenomeno dell’urbanizzazione costituisce uno dei motivi di studio della storia contemporanea, ma anche uno dei problemi di più difficile soluzione; al contrario delle città del passato, che si sono sempre estese con andamento concentrico, oggi, quelle contemporanee, con la rivoluzione dei trasporti e delle tecnologie digitali, hanno preso a svilupparsi casualmente e disordinatamente (sprawl), generando l’urbanizzazione di vaste aree, dove zone agricole sono state riconvertite in insediamenti civili e produttivi, e dando origine al problema delle periferie.

A livello globale, un numero sempre più alto di persone preferisce vivere nelle aree urbane, piuttosto che in quelle rurali. Nel 2014, la popolazione mondiale residente nei centri urbani è stata pari al 54%, rispetto al 30% del 1950. Si calcola che per il 2050, la percentuale salirà fino al 66%. Oggi, le regioni più urbanizzate sono l’America Latina, in particolare i Caraibi (80%) e l’Europa (73%). Al contrario, Africa e Asia restano prevalentemente rurali, con l’urbanizzazione delle loro popolazioni compresa fra il 40 e il 48%.

Mentre la popolazione rurale del mondo, dal 1950 ad oggi, è cresciuta lentamente, la popolazione urbana, per contro, è aumentata rapidamente, passando da 746 milioni nel 1950, a 3.900 milioni nel 2014. Con la continua crescita demografica, l’urbanizzazione dovrebbe raggiungere, entro il 2050, 2,5 miliardi di persone. Quasi la metà degli abitanti delle città di tutto il mondo risiede in piccoli insediamenti, con meno di 500.000 abitanti, mentre solo uno su otto vive in 28 mega-città con più di 10 milioni di abitanti ciascuna.
Tokyo è la città più grande del mondo, con 38 milioni di abitanti, seguita da Delhi con 25 milioni, Shanghai con 23 milioni, Città del Messico, Mumbai e San Paolo, con circa 21 milioni di abitanti ciascuna. Entro il prossimo quindicennio, il mondo dovrebbe avere 41 mega-città; si prevede che nel 2030 Tokyo diventi la città più grande del mondo, con 37 milioni di abitanti, seguita “a ruota” da Delhi, dove la popolazione è destinata a salire fino a 36 milioni di abitanti. Considerando che diversi decenni fa la maggior parte dei grandi agglomerati urbani si trovava nelle regioni più sviluppate, oggi, invece, esse si concentrano nel Sud del mondo, con numerosi agglomerati a più rapida crescita (quelli di medie dimensioni, con 500.000 e fino a 1 milione di abitanti) situati in Asia e in Africa.

Le città sono importanti fattori di sviluppo, di miglioramento del livello di benessere e di riduzione della povertà, perché favoriscono livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, migliori condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e maggiori opportunità di accesso al mercato del lavoro, di inclusione sociale e di partecipazione culturale e politica. Tuttavia, la crescita urbana, rapida e non pianificata, minaccia ora la sostenibilità dei migliorati livelli di vita conseguiti, se non saranno potenziate le infrastrutture necessarie o se non verranno attuate politiche che garantiscano vantaggi equamente condivisi della vita cittadina siano equamente condivisi. Oggi, infatti, nonostante questi vantaggi offerti dalle città siano indubbiamente maggiori rispetto al passato, le aree urbane sono caratterizzate da forti disuguaglianze, in quanto sono cresciuti i poveri “urbanizzati”, che vivono in condizioni molto al di sotto degli standard di una vita degna di essere vissuta. Nella stragrande maggioranza delle città, la rapida espansione urbana non regolata ha portato con sé il fenomeno della “periferia”, divenuto sinonimo di esclusione e devianza sociale, inquinamento, degrado ambientale e livelli di spesa pubblica insostenibili.

I governi dovranno impegnarsi ad attuare politiche idonee a garantire che il fenomeno della crescita continua dell’urbanizzazione diventi sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale, secondo le direttive emerse dalla Conferenza di Rio del 2012 (”Il futuro che vogliamo”); la Conferenza ha infatti riconosciuto che le città possono “aprire la strada” verso società sostenibili, sia socialmente ed economicamente, che ecologicamente, a patto che i problemi della loro espansione siano risolti secondo un approccio olistico, che abbracci cioè tutti contemporaneamente le criticità, in modo da tener conto degli esiti di tutte le loro reciproche relazioni; tutto ciò, in considerazione del fatto che un’urbanizzazione sostenibile richiede innanzitutto che, con l’espansione delle città, si potenzino di continuo le infrastrutture necessarie per i servizi igienico-sanitari, energia, trasporti, informazione e comunicazione; occorre, inoltre, che siano garantite pari opportunità di accesso ai servizi, che sia ridotto il numero di persone che vivono in condizioni degradate negli slum, che siano preservate le risorse naturali all’interno della città e delle zone circostanti e che siano realizzate politiche diversificate di pianificazione e gestione della distribuzione spaziale delle popolazioni residenti.

Per l’attuazione di queste politiche,lo scoglio maggiore da rimuovere è costituito dal fenomeno delle “periferie”. Come si è detto, esse sono nate con l’espansione casuale e disordinata delle città, originando, come viene osservato nell’”Editoriale” del n. 4/2016 di “Limes”, totalmente dedicato al problema, “pezzi di non città e di non campagna, nei quali si celebra l’impotenza dell’architettura nel forgiare l’abitato”. Battezzare, perciò, in senso urbano la nostra epoca è limitativo; più appropriato forse sarebbe definirla periferia, o suburban, “con il polisemico vocabolo inglese che nella sua sfera semantica include tanto i sobborghi di linde villette a schiera che punteggiano il paesaggio nordamericano quanto le favelas brasiliane, le villas miseria bonaerensi, gli slums terzomondiali, i casermoni nostrani”.

Tra l’altro, le difficoltà che si incontrano già nella definizione del fenomeno problema è dovuto al fatto che il sostantivo periferia “è lemma passpartout, di cui in un recente convegno del Massachusetts Institute of Technology sono state censite almeno duecento diverse, talvolta contraddittorie accezioni”. Le polemiche fra gli addetti ai lavori per la soluzione del problema della periferia sono perciò inevitabili, col risultato di portare solo all’elaborazione di progetti che “si pretendono scientifici, di scarsa pregnanza euristica. Rivelatori di un complesso di inferiorità nei confronti delle ‘scienze dure’, che induce a scimmiottarle”. A fronte dell’inconcludenza delle progettazioni che di continuo vengono formulate, di maggiore interesse sarebbe, invece, la riflessione sull’approccio politico da riservare alla soluzione del problema della “grande suburbanizzazione”, che sta investendo il mondo intero; un approccio, cioè, che sia meno interessato alle definizioni formali e alle soluzioni tecniche e più alla natura del metodo col quale tentare di definire quale dovrebbe essere la formula di governo più appropriata delle “sconfinate megalopoli in crescita incontrollata”.

Da quest’ultimo punto di vista, almeno con riferimento all’esperienza delle dinamica urbana sperimentata in Italia, si dovrebbe tener conto che nelle megalopoli la distinzione tra centro e periferia tende a svanire, perché, secondo Luca Molinari, docente di architettura contemporanea (“La periferia dopo la periferia”, in “Limes”, n. 4/2016), negli stessi luoghi urbanizzati, negli stessi quartieri e negli stessi caseggiati possono essere vissute entrambe le condizioni, proprie sia del centro che della periferia. La distinzione tra centro e periferia ha perso di significato anche per via delle modalità con cui sinora gli interventi pubblici sono stati effettuati, senza una metodologia che consentisse di rilevare la vera natura del problema da risolvere; è prevalsa una pianificazione dell’attività d’intervento che ha privilegiato talvolta il punto di vista del centro e talaltra quello della periferia, sulla base di una improbabile apertura democratica alle istanze provenienti dagli insediamenti periferici; il risultato, in mancanza di una precisa strategia d’intervento complessiva (olistica) è stato quello di determinare una perdita di identità del centro e la creazione di una moltitudine di insediamenti periferici alla ricerca di un’identità urbana.

Inoltre, il metodo privilegiato, sempre parziale, ha determinato il fallimento dello sforzo di ridurre il fenomeno della suburbanizzazione attraverso le numerose “politiche di welfare, attivate nel secondo dopoguerra da entrambi gli schieramenti ideologici”, con le quali è stato plasmato lo stile di vita urbano degli ultimi decenni. La causa del fallimento è da ricondursi principalmente, oltre che ai limiti del modello d’intervento, alla “crisi gestionale che ha colpito le amministrazioni pubbliche e la quasi impossibilità di elaborare modelli urbani capaci di competere con un idea stratificata di centro storico”; fatti, questi, che hanno decretato l’insuccesso sul piano culturale e su quello politico della strategia adottata.

Ciò che, in particolare, non è stato colto come causa del fenomeno della periferia urbana è stata la sua natura di esito della dinamica casuale e disordinata delle città, senza che si sia tenuto conto del fatto, a parere di Molinari, che i luoghi oggi considerati periferia sono diventati “la città vera, per dimensioni, consumo di suolo e presenza di una popolazione che da almeno tre generazioni ha colonizzato e trasformato questi luoghi dotandoli di storie, toponomastica e centralità”, che spesso si manca di riconoscere. Che fare allora? Come affrontare il fenomeno dello “sprawl”, cioè dell’espansione disordinata dei centri urbani?
Secondo molti urbanisti, l’assenza di una pianificazione strategica che avesse colto tutte le criticità dell’espansione urbana, in termini di un’area tanto vasta da comprendere tutte le localizzazioni insediative gemmate disordinatamente dal centro storico originario, è stata la causa principale del fallimento degli interventi riparatori. Conferire potere e centralità a un governo d’area vasta sulla dinamica del sistema insediativo urbano doveva costituire la condizione essenziale per ridurre gli sprechi e l’inefficacia degli interventi realizzati e la via maestra per acquisire il disegno futuro complessivo che si intendeva assicurare alla città, tenuto conto delle specifiche condizioni che concorrevano a caratterizzarla.

L’ostacolo all’adozione di una visione di area vasta per la soluzioni dei problemi delle conurbazioni è stato il prevalere dell’“egoismo localistico”; per contrastarlo efficacemente occorreva adottare un piano insediativo in grado di recepire le domande emergenti dalle criticità sociali, economiche e ambientali vissute da chi abitava/operava nelle singole aree vaste; in altri termini, doveva trattarsi di un piano insediativo conforme ad una visione condivisa del futuro delle singole città, desiderabile dai residenti. E’ questo un limite che occorrerà superare, se si vuole che, almeno in Italia, il riordino degli enti locali possa consentire ai responsabili del governo delle città di valersi delle capacità collettive dei territori urbani, attraverso il coordinamento dell’azione delle istituzioni, delle imprese e dei cittadini; mentre è destinata a sicuro insuccesso qualsiasi azione attuata senza una visione che integri, in termini unitari, le risposte, sul piano istituzionale, politico, sociale, economico e ambientale, alle domande dei territori investiti dallo sprawl urbano.

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Giannini: vi spiego la rivoluzione delle Scuole Aperte

Per la prima volta quest’estate 700 istituti non chiuderanno i battenti. A settembre poi 5mila scuole di periferia distribuite in tutta Italia diventeranno delle vere e proprie Scuole Aperte. Il ministro: «Il concetto di scuola aperta non ha a che fare solo con aree problematiche. Con la riforma abbiamo immaginato una scuola connessa con il territorio che la circonda, capace di intercettare le energie di enti locali, imprese, Terzo settore».

“Le periferie sono la “città del futuro”, non in senso estetico ma in quanto “ricche di umanità e quindi di energie”. Spetta proprio alla scuola raccogliere queste energie e farle emergere.”

L’intervista:

«La scuola finisce ma la scuola non chiude, anzi apre. Il primo lunedì della prima settimana senza lezioni, Vita e Miur lanciano una convocazione al mondo della scuola, per raccontare le tante esperienze di Scuola Aperta e promuoverne una rete»: era il giugno 2014 e così noi di Vita insieme al Ministero e al Comune di Milano presentavamo il Forum Scuole Aperte. Due anni dopo, per la prima volta nella storia, in Italia ci saranno 700 scuole che resteranno aperte e accoglieranno i ragazzi anche durante il periodo estivo non grazie a iniziative individuali e autofinanziate ma attraverso un piano da 10 milioni di euro. Gli istituti saranno a Napoli, Milano, Roma e Palermo (le scuole selezionate riceveranno 15mila euro a testa, per un budget complessivo che va dai 4,1 milioni a 1,2 milioni di euro) e sono “l’anticipo” di un progetto ancora più ambizioso e sistematico, che da settembre coinvolgerà ben 5mila scuole, con oltre 100 milioni di euro in campo.
Il ministro Stefania Giannini ha accettato di rileggere il cammino fatto in questi due anni, che ha portato l’idea di Scuola Aperta a entrare nella normalità del pensiero delle scuole e del Ministero stesso. Non più una catalogo di belle esperienze che rischiavano di rimanere eccezioni, ma un nuovo paradigma per la scuola, sic et simpliciter.

Ministro, qual è il valore di aprire le scuole in estate, oltre ovviamente ad essere una risposta concreta al bisogno di conciliazione famiglia/lavoro di tanti genitori?
Scuola al Centro è un progetto che risponde a esigenze emerse da territori in cui la scuola rappresenta l’unica alternativa alla strada e al disagio. Nasce da una richiesta che ci è arrivata dal basso. Non si tratta di un dopo scuola ma di una iniziativa educativa che guarda ai bisogni di ragazzi che vivono in contesti difficili o comunque più complessi, offrendo loro non altre ore di lezione ma spazi in cui fare sport, musica, teatro, partecipare a laboratori di cittadinanza attiva. Le scuole aperte saranno almeno 700. Da parte delle famiglie stiamo ricevendo moltissimo sostegno. C’è entusiasmo. Era un’iniziativa attesa da tempo. Le scuole aperte di questa estate a Roma, Milano, Palermo e Napoli saranno un primo passo. Abbiamo pronti oltre 100 milioni di fondi Pon per allargare il progetto, a partire da settembre, a tutto il Paese. Ci sono stati esperimenti simili in passato, attivati autonomamente dalle scuole, ma senza risorse e interventi da parte dello Stato. Ora si cambia passo.

Le scuole ora hanno tempo fino al 20 giugno per presentare i progetti: ci può anticipare qualcosa in relazione a come stanno rispondendo? Quanti progetti sono stati presentati ad oggi, che tipo di attività vengono proposte…
Non posso anticipare numeri, gli uffici stanno lavorando. Posso dire che lo sport è fra le attività che vanno per la maggiore, ma tutti i progetti saranno la prova che si può credere in una scuola forte, centrale nella vita dei cittadini. Una scuola iscritta all’interno di una comunità, un’infrastruttura sociale che appartiene a famiglie e studenti come una seconda casa, non solo quando ci sono le lezioni e quando il tempo è scandito da una campanella.

I giornali nel presentare l’iniziativa hanno messo l’accento sull’apertura delle scuole in tempi non usuali: l’estate, il pomeriggio, qualcuno ha chiesto della domenica… Nessuno lo ha sottolineato, ma in realtà questa è la prima azione di un neonato “Piano Nazionale per la prevenzione della dispersione scolastica nelle periferie”, con una cabina di regia che coordinerà le azioni e gli interventi.

Significa che in questi progetti la scuola sarà aperta solo agli studenti “problematici”? È vero che la Scuola Aperta rappresenta un modello di intervento efficace per le azioni contro la dispersione, però la novità del pensare la scuola come civic center non si esaurisce al contrasto alla dispersione scolastica…
Il concetto di scuola aperta non ha a che fare solo con aree problematiche. Con la riforma abbiamo immaginato una scuola connessa con il territorio che la circonda, capace di intercettare le energie di enti locali, imprese, Terzo settore. Ha molto senso e un significato preciso il fatto che si parta dalle periferie. Il mondo non ha più centri e confini definiti, economie e società emergenti stanno riformulando il cleavage centro-periferia e dobbiamo preparare questo cambiamento anche all’interno delle nostre città, con un impegno educativo senza precedenti. È nelle periferie che risiedono i nuovi centri cittadini. Le periferie sono cuori pulsanti di una vitalità che va incentivata e che deve trovare la possibilità di esprimersi. Per i più giovani questo incentivo deve venire dalla scuola.

Tuttavia il fatto che sia nato per la prima volta un Piano Nazionale per la prevenzione della dispersione scolastica è una novità importante, dal momento che uno dei problemi delle azioni di contrasto alla dispersione scolastica infatti è la dispersione delle esperienze e dei fondi stessi (cfr il recente “Rapporto di monitoraggio e analisi dei prototipi di intervento territoriale”, presentato da Indire). Cosa cambia quindi nell’azione del Ministero per il contrasto della dispersione? Quando arriverà il primo piano biennale? Come verranno monitorati gli interventi? Verrà fatta finalmente un’analisi di impatto?
La dispersione è un tema che il Paese ha cominciato ad affrontare, i dati sono in miglioramento. Abbiamo raggiunto l’obiettivo nazionale e siamo sotto il 16%, ma rimaniamo distanti dall’obiettivo europeo (10% entro il 2020). Uscirà a breve un nostro report che confermerà questo trend. Oltre ai numeri e alle percentuali ci sono però persone, storie singole di abbandoni precoci frutto di situazioni familiari, condizioni personali, contesti sociali. Dobbiamo essere consapevoli che ogni azione che mettiamo in campo deve saper interagire con questi fattori. È un lavoro di cura che La Buona Scuola considera come prioritario perché la scuola “aperta a tutti” sancita dall’art. 34 della Costituzione non sia solo una precondizione, ma una realtà di fatto attraverso anche una scuola vicina. In questa fase abbiamo una straordinaria occasione per rendere più efficace la lotta alla dispersione in modo trasversale, inserendola fra le finalità di molti progetti in modo da avere più tipologie di intervento e più linee di finanziamento. In questo senso, guardando ai fondi, strategico è l’avvio del nuovo Pon che prevede oltre 500 milioni di fondi utilizzabili per questo tema.

Secondo alcune anticipazioni a settembre, attraverso finanziamenti del Pon Scuola, saranno aperte altre 5.000 scuole di tutto il Paese. Sempre solo nelle periferie?
Sì, stiamo già predisponendo il bando, usciremo durante l’estate. Le periferie saranno la priorità, ma parliamo di periferie largamente intese. Le periferie sono là dove ci sono quartieri che pur non essendo particolarmente decentrati fanno comunque registrare situazioni di disagio o bisogni didattici ed educativi speciali legati, ad esempio, alla presenza di un alto tasso di migranti. L’investimento nelle infrastrutture scolastiche, dalla manutenzione all’abbellimento fino alla costruzione di nuovi edifici, è la pietra angolare della sicurezza e dell’innovazione sociale che la scuola deve alimentare e garantire.

Possiamo dire che l’idea di Scuola Aperta è entrata nel pensiero quotidiano del Ministero e delle scuole? Come questo rientra nella progettazione di nuove scuole, ad esempio rispetto al concorso di idee scuole innovative?
La Scuola Aperta è un concetto culturale che sta alla base della nostra Buona Scuola e che portiamo avanti in ogni aspetto dell’attuazione. Nel bando per le Scuole Innovative ad esempio chiediamo a architetti e ingegneri di progettare strutture pensate per essere vissute da tutta la cittadinanza. Si tratta di una piccola rivoluzione culturale che stiamo avviando e che darà i suoi frutti fra qualche anno probabilmente. Ma di cui siamo molto orgogliosi.

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Le nuove frontiere della politica

Le recenti elezioni amministrative lasciano sgomenti i rappresentanti politici. I commentatori, cercano iperbole più o meno raffinate per raccontare le slavine culturali e politiche che si rappresentano nella modificazione dei gruppi sociali, nei partiti politici, nelle élite che sentono traballante il loro piedistallo. Eppure i segnali di avviso si sono moltiplicati in tutta Europa e non solo, da tempo e con pervicacia. I nuovi proletariati, acquisendo nel proprio interno i cedi medi, sfaldano i sistemi di rappresentanza e rendono inutili strumenti le analisi e gli articolati del novecento, mostrando così nudo il re della democrazia rappresentativa.

Il contesto e le modalità con cui il cambiamento si espande ne fanno un caso nel caso. Il contesto è quello di un cambiamento industriale/produttivo sussultorio raffrontabile all’idea di un terremoto, intere filiere spariscono e con loro competenze e professioni ed altre ne appaiono con qualità e forma inusitata. Le modalità riguardano la velocità con cui tutto ciò avviene, una velocità mai provata probabilmente nella storia umana, senza pause di assestamento. La produzione messa a confronto con i limiti del compatibile (ambiente, risorse prime, consumo, distribuzione) arretra spaventata dalle conseguenze sociali che una inversione rapida potrebbe produrre: la sparizione del consumatore.

I nuovi proletari hanno qualità e definizioni: per esempio sono radicali, sono mediamente colti, connessi, portatori di un diritto estremo e non soppremibile – il consumo ora, adesso e subito, e rivolto a se stessi. Nulla a che vedere con le masse proletarie che emergevano dalle campagne oscure e si collocavano nelle nuove città produttive ed illuminate e posizionandosi nelle periferie, aspettando di costruire uno spazio sociale per le generazioni che sarebbero venute, accumulando duramente tramite il risparmio, un vantaggio e una possibilità, alcuni in proprio, alcuni tramite le organizzazioni sociali di massa che diventavano proposta e potere politico conteso.

Pensare a forme di rappresentanza per comparti in una vaga architettura socialdemocratica è inutile e fuorviante, i soggetti sociali, mischiati, sovrapposti e liquidi non hanno tempo, devono rispondere con immediatezza al loro istinto sociale e trovare spazi in cui rappresentarsi. Sono allenati sulla rapidità e pensare in grande vuol dire uscire fuori dai pixel attraverso cui filtrano la realtà. Non si viene percepiti.

Sfatiamo anche la scusa dietro cui molti si nascondono, cioè che la tecnologia brucia il lavoro. Questo assunto è falso, è vero invece che lo trasforma e lo rende una materia di per se instabile, andrebbero quindi cercate qualità nuove invece di attardarsi in difese impossibili, la qualità del semplice accesso e della diffusività: poche regole chiare e chi non le rispetta ( questa parentesi riguarda prevalentemente l’Italia) fuori dal sistema.

Quindi le nuove frontiere riguardano il lavoro e la cultura. Le due cose non sono più scindibili, ma lo sapevamo già dalle ricerche sulla storia materiale negli anni 80.
Il compimento delle due azioni che si intrecciano, possono essere lasciate alle tensioni o alle casualità del mercato o, essere indirizzate dagli Stati. La differenza tra queste scelte produce la visione delle élite e nei paesi a prevalenza democratica l’elemento partecipativo diffuso unico e vero produttore di cittadinanza.

E’ il lavoro e la cultura che asciugano la paura della indifferenza e della inutilità che grava e pesa sugli individui molecolari urbani. E’ tramite di loro che è possibile scommettere sulle comunità educanti asciugando l’angoscia che trasuda dalle periferie e con la violenza dei dati virali tracima nei buoni quartieri borghesi ormai privi di sicurezze.

Se la politica vuole tornare il motore del paese può sperimentare fino in fondo queste esigenze senza avere tabù accettabili trenta anni fa, venendo da una storia statalista disastrosa, e avviando una ripartenza di piani nazionali d’investimento sulla riqualificazione ambientale, premiando con vantaggio fiscale le imprese compatibili, inclinando il piano potentemente sulle rinnovabili, attraverso una digitalizzazione che saturi il territorio, scegliendo l’agricoltura di qualità e i prodotti di nicchia, sviluppando servizi dignitosi e paritetici in tutto il Paese, cercando il miglior design e innovazione manufatturiera. Lo può fare tramite Agenzie Nazionali leggere ad alto tasso di qualità, con programmi e pianificazioni certe e trasparenti, ci sono uomini e donne capaci e pronti per queste scelte, è la nostra migliore gioventù.




Le periferie diventano centro con l’animazione sociale

Occorre ripensare le comunità, in un’epoca in cui il 69% della popolazione vive nelle città.
Il sommovimento a cui abbiamo assistito nel concetto di CENTRO/PERIFERIE, cioè di quel segno tracciato quale confine del dato territoriale, una sembianza di avviso, un avvicinamento al limite e la certezza di una differenza in un omogeneo normato, si è trasformato in un filo d’arianna nel labirinto delle relazioni tra:
– Prodotto e consumo
– Conoscenza ed esclusione
– Connessione e sconnessione.
Davanti a questo gomitolo è forte la tentazione di tirare un filo, un filo qualsiasi a caso: non ci troviamo a confrontarci quindi con aree vocate negli spazi urbani ma, al contrario, con sovrapposizioni di senso e di funzioni: non centralità carismatiche, ma policentrismi dinamici.
La città industriale con attorno il proprio agro prevedeva gerarchie territoriali certe, tramite l’identificazione di quartieri che di fatto rappresentavano la demarcazione sia delle funzioni, sia delle classi sociali. La successiva pressione demografica, che in seguito si è sviluppata, ha provocato lo scardinamento delle scansioni. Dai dati rileviamo che i territori urbani sembrano destinati a triplicarsi, infatti rappresentano: nella UE il 75%, in Giappone il 93%, negli USA l’81%, in Cina il 54%, in Italia il 69%, in Francia il 79%.
È lecito quindi chiedersi: stiamo entrando in una era periferica?
Affinare gli strumenti di analisi
Se ciò fosse vero, avremmo bisogno di una analisi dei conflitti di potere che si addensano in una area così rappresentativa a crescita spesso incontrollata.
Quindi l’affinamento degli strumenti di analisi per analizzare e capire il contesto in svolgimento è la premessa per poter capire e affrontare un fenomeno complesso nei luoghi ove si stringono e vivono la maggior parte degli umani, forse ancora non convintamente o consapevolmente cittadini. In particolare tra gli altri sicuramente:
– Un censimento umano fisico e catastale
– La inviduazione degli elementi maggiormente contraddittori
– Le disuguaglianze critiche
– La composizione dei poteri materiali e immateriali
– I livelli di bassa pressione istituzionale
– La quantità e la qualità delle azioni informali
– La contrazione degli spazi collettivi.
A significare un cambiamento strategico nella gestione degli spazi metropolitani va segnalato un nuovo modello d’ invasione, e gli agenti sono i Fondi Sovrani che tramite la finaziarizzazione delle ricchezze scavalcano i confini e si impossessano di parti delle città caratterizzandone qualità e uso (Londra e in parte Parigi).

Riscoprire la Civitas
La ricerca che quindi auspichiamo è il ritrovamento della Civitas intesa come Comunità Consapevole.
Anche una delle organizzazioni geopolitiche più strutturate, coma la Chiesa, con una storia fortemente accentrante, ha attuato recentemente un ribaltamento della propria centralità, intanto scegliendo un Papa che che si è definito come «proveniente dalla fine del mondo…» ed in seguito affermando nella enciclica Evangelii Gaudium l’urgenza di «uscire dalle proprie comodità e raggiungere tutte le periferie»… Periferie geografiche ed esistenziali. Viene ripreso il concetto che lì dove tutto iniziò, la Giudea, era periferia del mondo, facendo nascere l’idea che forse la “realtà” si vede meglio guardandola dalla periferia.
È evidente che gli spazi che controlliamo, quelli assimilati, non ci trasmettono dubbi, sono le nuove emergenze o stratificazioni che provocano dubbi, che aprono a nuove realtà. Quindi la chiave delle conoscenza e della scoperta può produrre la parola appartenenza, un’appartenenza conquistata, un’intelligenza collettiva che si sprigiona creando personalità, quello che i latini chiamavano deus loci.
Anche la segregazione o la specializzazione provocano la creazione di una personalità, ma il loro contrasto può essere organizzato con una scelta dal centro? La disuguaglianze fisiche e psicologiche possono essere affrontate senza scendere sul terreno?
Valorizzare le identità nel decentramento
Noi crediamo di no! Crediamo che non sia possibile. Ad esempio l’ipotesi avanzata in Francia della Metropole du Grand Paris, macroregione da 7 milioni di abitanti, ci appare una azione di un razionalismo sconfortante e non per la vastità della progettazione ma per la governace direttiva.
Invece, la faticosa definizione delle identità agite nel decentramento, nell’autonomia, in un equilibrio in continuo aggiornamento tra le comunità abitanti, intercalati da interventi macro e micro di riqualificazione (trasporti/mobilità, rifiuti/ambiente, cultura/partecipazione), rappresentano quel complesso di scelte che possono produrre una identità attiva.
È probabile che in Italia ci sia una finestra specifica per sperimentare queste mutazioni territoriali, attraverso scelte a vantaggio, possibili solo per delle nostre specificità : non siamo mai stati un vero impero, non ci siamo mai sentiti una vera nazione. In questo spazio di mancanze trovano possibilità i grandi interventi informali che si sono realizzati nelle città. L’obbiettivo dei prossimi anni potrebbe essere quello di digerire e integrare l’informale.

Così si vince l’anticittà
L’architetto Boeri parla di città-anticittà, attraverso la creazione di una dinamica bipolare ove per anticittà si identifica il degrado delle infrastrutture, dei servizi, degli edifici, la perdita degli scambi sociali e culturali, la sicurezza, «l’appartenenza allo spazio urbano come bene pubblico».
Nel trattare quindi la trasformazione che il concetto di periferia ha avuto dal novecento possiamo immaginare che sia utile rilevare:
– La densità degli spazi.
– La varietà dei comportamenti culturali presenti nelle comunità.
Di fatto nelle città italiane le periferie si insinuano nel tessuto stabilizzato sovrapponendosi e intrecciandosi (Roma, Napoli, Genova, Milano).
L’attenzione principale va portata verso la qualità della condizione urbana, quindi intensità degli scambi tra comunità, gruppi e popolazioni in una cornice “certa”, attraverso alcuni principi che permetto lo svolgimento della rigenerazione:
– Il contenimento della separatezza
– La modalità e il metodo di esprimersi attraverso la partecipazione
– La credibilità dell’ organismo istituzione nel coagulare la concentrazione delle esigenze in proposte e progetti.
Ad esempio sul piano operativo è della massima importanza valutare gli spazi vuoti presenti nel tessuto urbano, e dei locali o delle infrastrutture inutilizzate per la qualità urbana.
La difesa delle iniziative informali nate, anche attraverso le valutazioni collettive di vantaggio.
Le iniziative di conoscenza e contaminazione culturale con altri territori urbani – ad esempio esiste a Roma una ricchezza incredibile luoghi e di circuiti – presidi sociali, culturali, ambientali, teatri, biblioteche.
La centralizzazione delle organizzazioni di livello superiore e generale devono diventare la premessa per la conoscenza culturale dei territori attraverso gli strumenti principali della socializzazione come lo sport, la scuola, la mobilità.

La rigenerazione chiede animazione sociale
Il senso di appartenenza, punto cruciale della civitas, non si costruisce dall’oggi al domani, ma con piccoli passi che permettano di far percepire, che il proprio destino personale è legato a quello collettivo. È questo il motivo per cui è inutile pensare di lasciare in mano la rigenerazione urbana ai tecnici, ma solo a scelte politiche mirate, in un orizzonte medio periodo (10 anni) in cui potranno avere effetti di sostanziale cambiamento che favoriscano la trasformazione compartecipata dello spazio, insomma un effetto murales.
La conformazione ad arcipelago di Roma è una eredità di caos che può favorire la rigenerazione, se partiamo dall’idea che la spinta primaria della rigenerazione urbana è “l’animazione sociale”.
Noto che, nell’intervista rilasciata dal Ministro Franceschini a “Limes” sul numero dedicato alle periferie, la rigenerazione urbana viene identificata come una «grande occasione architettonica e urbanistica», non una grande opportunità sociale.
Per questo sposiamo l’idea degli operatori culturali, di un Assessorato all’Ascolto, per attuare un’azione professionale, articolata, diffusa, che si prefigga di dar voce agli aggregati territoriali, che con modalità codificate sappiano interloquire ed ispirare scelte di comune accordo con le comunità attive dei cittadini, oltre alla proposta dell’Auditorium di Municipio in cui possa essere veicolata la programmazione dei grandi attrattori cittadini dando vita ad una distribuzione culturale decentrata e quale riferimento delle iniziative delle comunità territoriali.
Il progetto presentato per il Giubileo per i Romani della creazione dei Presidi sociali, culturali e ambientali sui territori quali spazi aperti di partecipazione e di proposta.
Concludo con una nota positiva per l’argomento periferie, che sembra aver raggiunto una centralità nella comunicazione: la Biennale di architettura di Venezia di Alejandro Aravena, un cileno, anche lui uomo di periferia, che ha organizzato la rassegna partendo da una domanda: come si misura l’architettura che contribuisce con i propri mezzi a ridurre le disuguaglianze, a mitigare le sofferenze è i disagi?
Ci sembra una buona domanda.

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Una Radio al Corviale, di notte, contro la paura

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Nata nella periferia romana dopo un incendio doloso va in onda in diretta. Gabrielli: un messaggio di legalità che non si può ignorare.
Tre, due, uno: in onda! «Buonanotte e benvenuti su Radio Impegno. Era notte fonda quel 13 Novembre dello scorso anno, quando qualcuno tentò di incendiare il “Campo dei miracoli” dell’associazione Calcio Sociale. Questa radio al Corviale è la risposta alla bassezza del fango egoista di chi ha scelto di interporre la propria individualità alla libertà degli altri e al bene comune». Con queste parole è iniziata la messa in onda di Radio Impegno, un nuovo modello di informazione dal basso, che ogni notte, dalle 24.00 alle 07.00 trasmetterà dal quartiere Corviale le storie, gli ostacoli e i progetti di oltre quaranta associazioni di volontariato che operano nel comune di Roma. Per ribadire che di notte c’è chi distrugge e chi, invece, costruisce.
Una radio al Corviale può fare la rivoluzione

Massimo Vallati, presidente di Calcio Sociale e ideatore del progetto, lo avevamo intervistato a Gennaio quando, con fermezza, ci disse: «Se volevano tenerci la bocca chiusa distruggendo un progetto educativo messo in piedi con tanta fatica, hanno ottenuto l’effetto contrario. Non solo ci riprenderemo il quartiere di notte, ma saremo in tanti a denunciare». Le risposte di solidarietà non hanno tardato a farsi sentire e, in soli cinque mesi, la rete di associazioni che ha costruito il palinsesto di Radio Impegno si è sempre più ingrandita. La diretta si apre con un messaggio dei volontari rivolto proprio agli attentatori del campo: «Questa notte vogliamo perdonarvi. Se si perdona si può rivoluzionare, e questa Radio è nata per essere una rivoluzione per il quartiere e per Roma».
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Franco Gabrielli con Massimo Vallati a Radio Impegno, la notte della prima diretta

Primo ospite in studio di questa radio al Corviale è stato l’ex-prefetto di Roma Franco Gabrielli, che più volte ha coordinato le operazioni di polizia all’interno del quartiere. «Se al Corviale – con tutte le sue ingiuste negatività – è possibile lanciare un messaggio di legalità come questo, allora è possibile anche estenderlo a tutta la città. Stasera intraprendete un cammino che non sarà semplice: troverete scetticismo, vi guarderanno con sufficienza, soprattutto in un clima di campagna elettorale come quello che stiamo vivendo. Ma credo che chi è affezionato al proprio territorio, che vuole vivere secondo regole, non potrà non guardare a voi sperando in un cambiamento. La vera scommessa non è iniziare ma continuare».
Il giornalismo come strumento di antimafia

Fuori dallo studio di messa in onda, pronti ad entrare, incontro Salvatore, Youssef e Giuseppe, tre universitari romani dell’associazione Generazione Zero. «È la prima volta che veniamo qui a Corviale», dicono, «ma quando è stata presentata l’iniziativa ci è sembrato opportuno aderire. Pratichiamo il giornalismo come strumento di antimafia sociale e, dopo l’attentato di novembre, volevamo dare anche noi un segnale: all’interno dei nostri dieci minuti di diretta racconteremo quello che facciamo. Convertire questo quartiere alla legalità è una grande sfida ma siamo certi che la radio non è altro che il primo passo per questo cambiamento».
Al non profit vengono chiesti miracoli

È l’una di notte, e mentre una volante della Polizia scorta il Campo, la prima ora di diretta è trascorsa. «È bello vedere gente da tutta Roma stare qui per contribuire ciascuno con la propria esperienza», dice Massimo. «Di parole ne abbiamo sentite molte, ma in un momento di emergenza sociale come questo dobbiamo dare ai cittadini risposte concrete. Il rischio di questo progetto era che ognuno ostentasse la propria bandiera associativa, ecco perché abbiamo deciso di chiamare questa radio con un nome che accomunasse tutti, ovvero l’impegno. Mi auguro che la riforma del terzo settore varata qualche giorno fa, porti buoni frutti per tutte queste realtà sociali che troppo spesso si sostituiscono allo Stato. Al non-profit molte volte vengono chiesti miracoli. Ecco, oggi noi qui, vogliamo sostenerne uno!».
Mentre i volontari accolgono e coordinano i diversi speaker che si alterneranno durante la maratona notturna, il Corviale, insieme ai suoi “mostri” edilizi, resta in ascolto.
Come partecipare

Radio Impegno va in onda ogni notte con una diretta web (audio e video) dedicata. Le associazioni che vogliono partecipare all’iniziativa possono prenotare il proprio spazio all’interno del palinsesto della radio al Corviale inviando una mail a segreteria@calciosociale.it o telefonando ai numeri 3402627939 – 0665198597.

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