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Economia sociale: chi guida il processo?

Clean energy won’t save us”, così esordiva un articolo apparso sul quotidiano The Guardian qualche giorno fa, “only a new economy system can” chiudeva il pezzo, riproponendo un tema per certi versi classico, ma che è da declinare in uno scenario mutato sia in termini di opportunità che di rischi. Le opportunità sono legate alla disponibilità di tecnologie che consentono di produrre energia da fonti rinnovabili. I rischi derivano invece alla mancata o parziale affermazione di modelli di consumo autenticamente “equi e sostenibili”.

In parole povere: possiamo riempire i tetti delle nostre case di pannelli solari continuando comunque a consumare come abbiamo sempre fatto, cioè troppo e in modo diseguale. Il ragionamento si potrebbe generalizzare anche ad altre infrastrutture che, in teoria, possono abilitare modelli economici e di sviluppo in grado di affermare un nuovo paradigma, sia perché hanno una chiara connotazione alternativa rispetto al modello dominante, sia perché hanno i numeri per farlo, in termini di diffusione, impatto economico, capacità di influenzare le politiche.

L’articolo e altre prese di posizione similari sono utili perché contribuiscono, tra l’altro, a evidenziare i “nervi scoperti” nell’evoluzione recente dell’economia sociale e solidale. Sì perché è chiaro che da qualche tempo il “sociale” esonda fuori dagli schemi politico-culturali e giuridico organizzativi entro i quali è stato elaborato, diventando un elemento di valore conteso da una pluralità di soggetti: gli enti pubblici per risolvere il deficit (crescente) di partecipazione democratica e soprattutto l’economia capitalista per correggere le esternalità negative (ambientali e sociali) recuperando legittimità presso i propri “portatori di interesse”.

Rimangono invece poco chiare le conseguenze che investono il vasto e articolato campo popolato da attori variamente denominati: terzo settore, nonprofit, impresa sociale, ecc. Un dettaglio non da poco considerando la rilevanza di questi ultimi soggetti e soprattutto la ancor più rilevante crescita della domanda di socialità, relazione, coesione che si manifesta nella nostra società: dal nuovo civismo dei beni comuni che alimenta la rigenerazione di immobili e spazi pubblici, alla “nuova distribuzione organizzata” dei gruppi di acquisto. Una sfida importante che si riscontra anche all’interno di importanti riforme normative in fase di implementazione.

La nuova legge quadro sul terzo settore appena approvata (l. n. 106/2016) definisce anche in termini giuridici un comparto ampio e variegato (associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, fondazioni ecc.) che fino ad oggi era solo un concetto a uso di ricercatori e addetti ai lavori. Ma potremmo aggiungere anche altri dispositivi come la norma sulle “società benefit” inserita nella legge di stabilità 2016 rivolta alle imprese di capitali intenzionate a gestire in modo più stabile e continuativo la loro azione sociale incorporandola nei processi produttivi e non relegandola in iniziative di responsabilità sociale ispirate a una logica filantropica e redistributiva.

Esiste quindi uno spettro, se non ancora reale certamente potenziale, più ampio e variegato di attori impegnati nella produzione e redistribuzione di valore sociale. Per questo può essere utile non tanto delineare lo scenario prossimo venturo, ma piuttosto evidenziare le ambivalenze che caratterizzano una fase ancora molto fluida dove i diversi attori sono chiamati a ridefinire i loro schemi di cooperazione / competizione.

Ora sono la guida di nuove politiche pubbliche e di strumenti finanziari che fanno leva sull’investimento

La prima ambivalenza è generata dalla nuova asset class di strumenti finanziari di tipo “pay for success”, dove l’investimento delle risorse – sia nell’allocazione che nel ritorno – è guidata da indicatori di impatto sociale che, nelle intenzioni dei promotori, misurano non solo gli scostamenti rispetto a obiettivi progettuali e profili organizzativi predefiniti, ma piuttosto catturano elementi di valore multidimensionale e ad ampio raggio: beneficiari (diretti e indiretti) delle attività, contesti socio economici di riferimento e, non da ultimo, sistemi di regolazione e di policy. Una sperimentazione in tal senso è stata avviata dalla Regione Sardegna che ha istituito un fondo di social impact investing a favore di iniziative di inserimento lavorativo di fasce deboli della popolazione.

Otto milioni di euro riconvertiti da risorsa redistributiva (fondi strutturali europei) a investimento sociale, sostituendo i tradizionali contributi in prestiti, capitale di rischio e obbligazioni legati alla performance sociale misurata guardando alla capacità di reinserimento attivo nel mercato del lavoro. Prove tecniche per l’adozione ad ampio raggio di strumenti che remunerano, in forme e modi diversi, l’impatto sociale capace di generare risparmi nella spesa pubblica.

Una trasformazione rilevante, dopo che per anni queste misure erano considerate valori immateriali non catturabili se non da specialisti del settore innamorati del loro lavoro e desiderosi di comunicarli a chi invece rispetto a questi stessi elementi faceva, letteralmente, “orecchie da mercante”. Ora invece sono la guida di nuove politiche pubbliche e di strumenti finanziari che fanno leva non sulla redistribuzione, ma sull’investimento delle risorse e che interessano, per evidenti ragioni, una parte sempre più consistente della finanza mainstream.

La seconda ambivalenza viene invece da quella che è – o dovrebbe essere – una delle principali industrie del Paese cioè il turismo. Sempre più spesso, infatti l’incontro domanda-offerta in questo ambito avviene attraverso siti e portali che, come affermano gli esperti, disintermediano le classiche catene di fornitura, mettendo direttamente in contatto utente e fruitore attraverso il medium della “collaborazione” (sharing), anzi spesso ibridando i ruoli per cui al tempo stesso si è produttori e consumatori trasformando casa propria in una struttura turistica.

L’aspetto più interessante di questo processo ormai più che maturo e quasi totalmente monopolizzato da quelli che Morozov chiama “i signori del silicio”, è la tendenza a ricercare e a “mettere a valore aggiunto” le relazioni. Tripadvisor, Booking e altri big player sono sempre più alla caccia di startup di turismo esperienziale come potrebbe essere Destinazione Umana che nel suo “catalogo” turistico non ha solo mete intese come luoghi ricchi di attrattori turistico-culturali, ma anche e soprattutto persone disposte a re-intermediare il bene più ricercato per fare qualità turistica, ovvero le relazioni tra le persone e le comunità di riferimento. Quel “gusto degli altri”, come si intitolava un film di qualche anno fa, che fa apparire uno stesso luogo – magari in apparenza non così attrattivo – sotto occhi completamente diversi.

Terza e ultima ambivalenza ce la racconta, anzi ce la rendiconta, Symbola, una fondazione che lavora ormai da tempo sulle qualità che caratterizzano il nostro famoso “made in Italy”. Nel suo ultimo rapporto emblematicamente intitolato Coesione è competizione emerge non solo che queste qualità sono plurime, legate cioè a fattori intrinseci di prodotti e servizi, ma legate, ad esempio, anche alle competenze del capitale umano e dei sostrati fiduciari che alimentano iniziative sociali ed economiche (ben conosciute e indagate dalla letteratura scientifica e divulgativa sui distretti industriali).

L’aspetto che emerge in modo più rilevate è che tutto questo complesso di risorse che alimenta la coesione soprattutto su scala locale è all’origine della competitività delle imprese in termini economici, occupazionali e di posizionamento nei mercati. Insomma le nostre PMI manifattuiriere, le “multinazionali tascabili” dello sviluppo locale che ci hanno fatto conoscere ricercatori come Aldo Bonomi, Enzo Rullani funzionano meglio se sono più consapevolmente e intenzionalmente “sociali”. Un dato rilevante perché, aggiungiamo, è riferito non a singole esperienze di imprenditori illuminati, ma a performance registrate su campioni rappresentativi e su settori forti della nostra economia: manifattura di qualità, agroalimentare ecc.

Dunque il nuovo sistema economico che avanza è fatto, fra l’altro, di finanza che impatta socialmente, di tecnologia che disintermedia con le relazioni e di economia che ha il suo “core business” negli asset locali? Se è così le organizzazioni sociali come si posizionano in questo quadro? La tendenza immediata può essere quella di segmentare il campo, di tracciare i confini e da additare il “nemico”: il vero sociale, la vera innovazione, ecc. Ma forse è una strategia di corto respiro perché quel che è mutato, nel profondo, è la struttura della società e delle sue articolazioni organizzative.

Una società dove settori sempre più variegati e rilevanti come i giovani millennials, la parte degli esclusi, le nuove forme di socialità sono, come ricorda un interessante articolo apparso su Stanford Social Innovation Review, sempre più “agnostici” rispetto al sociale incorporato esclusivamente nel nonprofit e sono sempre più attratti da un valore che si manifesta e viene rendicontato come impatto (positivo) effettivamente realizzato per i beneficiari di queste iniziative: singoli individui, famiglie, comunità locali.

È importante guardare ai sistemi che governano la distribuzione delle quote di potere e delle risorse generate

Una prospettiva che richiede una maggiore attenzione alla rendicontazione e alla valutazione, facendo in modo che la coesione non sia solo un valore declamato, ma anche reificato in misure ed indicatori come peraltro comincia ad avvenire grazie a modelli come il BES (Benessere Equo e Sostenibile) realizzato in Italia non da un gruppo di attivisti ma, anche questo segno dei tempi, dall’istituto italiano di statistica (Istat).

In secondo luogo è parimenti importante guardare non solo all’architettura formale, ma al concreto funzionamento delle organizzazioni e in particolare dei sistemi che governano la distribuzione delle quote di potere e delle risorse generate. Non è, in parole povere, una questione da diritto societario, ma di management di relazioni complesse e ad ampio raggio che, nel loro insieme, non sono solo da informare e coinvolgere ma da inserire in processi di co-produzione di nuovi modelli di valore.

La vera partita per la nuova imprenditorialità che avanza non sta nel definirsi fuori o dentro il terzo settore, ma nel riuscire ad allargare il perimetro del mercato con nuovi meccanismi di produzione del valore: meccanismi inclusivi e coesivi. L’alba di questa diversità possiamo coglierla nelle 97 start up innovative a vocazione sociale ( di cui 9 cooperative) che segnano, attraverso la tecnologia, una discontinuità nelle attività proposte rispetto alle tradizionali esperienze; una diversità, trainata dalla spinta dei giovani, da assumere come ricchezza e come valore per rigenerare gran parte delle filiere sociali spesso pietrificate dalla rigida cultura della progettazione e delle tariffe.

La partita è aperta e l’economia sociale e solidale ha la possibilità di guidare questo processo e di scegliere il suo ruolo, forte di un’esperienza pluriennale. Un vantaggio non da poco che sarebbe un peccato concentrare nel buco nero di un dibattito autoreferenziale.

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Proposta di legge: Piano nazionale per la rigenerazione delle periferie delle città metropolitane

Secondo le Nazioni Unite entro il 2050 soltanto una persona su otto vivrà nel centro urbano, in quelle che vengono ancora classicamente definite « città », mentre i restanti vivranno nella periferia urbana.

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Proposte e considerazioni della rete «Decide Roma» per il Tavolo tecnico istituito dalla Giunta capitolina

Il Consiglio Comunale di Roma Capitale ha approvato, lo scorso 5 agosto, una mozione ex art. 109, con la quale si dà mandato alla Sindaca e alla Giunta di istituire un «Tavolo tecnico propedeutico alla stesura di una nuova disciplina nell’uso dei beni del patrimonio indisponibile di Roma Capitale, che enuclei nel dettaglio i beni della futura regolamentazione e gestisca medio tempore le urgenze di rientro in possesso dei beni, in presenza di contestazioni che attengano a pretese inadempienze dell’Amministrazione». La rete Decide Roma, come è noto, da molti mesi ha intrapreso un denso percorso di consultazione popolare e di discussione democratica, anche in dialogo con le forze politiche e l’amministrazione, finalizzata ad individuare i principi che dovrebbero sovrintendere alla riscrittura delle regole per un nuovo uso comune dei beni pubblici nella nostra città.
Apprendiamo dai social media che il citato Tavolo tecnico è stato convocato. Crediamo che sia un segnale importante, sintomo (sperabilmente) della effettiva volontà di trovare una soluzione ad una vicenda ormai drammaticamente segnata da un perenne stato di emergenzialità, che costringe tutti i soggetti coinvolti in una detestabile incertezza, che ipoteca la possibilità di affrontare con la giusta serenità una discussione così importante per la città tutta, e che – soprattutto – rende quasi impossibile, nella quotidianità, l’esercizio delle nostre tante attività sociali e culturali, spesso delicate, e che comunque hanno bisogno di progettazione e programmazione di lungo periodo. Con riferimento alla mozione approvata in agosto, riteniamo di centrale importanza la parte in cui ci si riferisce alla «partecipazione dei cittadini alle scelte politiche che determinano la loro vita ed il destino dei loro territori», concetto ripreso laddove si segnala che «anche […] gli immobili relativi alle deliberazioni […] n. 219/2014 (patrimonio pubblico di Roma Capitale “bene comune”) necessitano, per la relativa assegnazione, di un processo che coinvolga cittadini ed organi politici competenti in un’ottica di programmazione più efficace per il territorio e le realtà che lo animano». Questa attenzione alla partecipazione democratica, dei soggetti coinvolti e degli abitanti di Roma in generale, che da sempre costituisce il significato e il metodo della nostra rete Decide Roma, crediamo debba innervare oggi, da subito, la discussione che sta intraprendendo il Tavolo tecnico. In altre parole, non crediamo sia possibile, per l’Amministrazione, procedere alla modifica della normativa sul patrimonio pubblico senza un coinvolgimento protagonistico e una consultazione costante dei soggetti associativi e le realtà sociali che da decenni operano nella città in relazione alla materia. Altrimenti si tratterebbe, in sostanza, di uno schema identico a quello scelto dalla Giunta Marino (e segnatamente dagli assessori Nieri prima e Cattoi dopo), proprio lo schema che ha portato all’attuale, drammatica situazione. Nel richiedere dunque l’immediata apertura pubblica e partecipativa della discussione, crediamo sia utile cominciare ad esporre alcune considerazioni ed alcune proposte in merito, elaborate in questi mesi.

• Il quadro normativo
Il quadro normativo entro il quale va collocata la riforma della regolamentazione per l’uso dei beni di natura indisponibile di proprietà di Roma Capitale è piuttosto complesso e articolato. È possibile individuare almeno tre nuclei normativi, che permangono ancora nella vigenza: il primo e più risalente nucleo è il vecchio Regolamento sulle concessioni del 1983; il secondo nucleo è quello composto dalla delibera n. 26/1995 e dalla delibera n. 202/1996; il terzo nucleo, più recente, è quello costituito da alcune norme della delibera n. 6/2014, dalla delibera n. 219/2014 e dalla famigerata delibera n. 140/2016.
Su ciascuno di questi nuclei normativi, sulla sua storia, sulla concreta applicazione e sugli esiti sociali, ci sarebbe molto da dire. Valgano però intanto alcune considerazioni, certamente utili al lavoro da svolgere nelle prossime settimane.
La delibera n. 26/1995 costituisce effettivamente il più importante atto di riconoscimento formale dell’importanza della vivace scena associativa e culturale romana. Si trattava, in buona sostanza, del riconoscimento politico di spazi di autonomia e di autorganizzazione, in assenza dei quali non sarebbe stata possibile la moltiplicazione di esperienze e attività che – da un lato – hanno oggettivamente contribuito per anni a tracciare uno dei profili culturali più moderni e avanzati della città, e che – dall’altro lato – hanno organizzato dal basso servizi propriamente welfaristici (addirittura, sovente, in ambito sanitario), sostituendo “sussidiariamente” il settore pubblico laddove la sua assenza si avvertiva più duramente in termini di mancata garanzia di diritti fondamentali (diritto ala salute, diritto allo sport, diritto alla cultura, diritto allo studio, diritto al lavoro degno, diritto alla socialità, eccetera). Questo riconoscimento politico (nel senso più nobile del termine) si traduceva, tra le altre cose, nella decurtazione dell’80% del canone concessorio degli immobili: una scelta lungimirante, che non solo rendeva possibile il concreto svilupparsi di realtà davvero “indipendenti”, ma che contribuiva alla sottrazione di importanti porzioni di patrimonio immobiliare capitolino alla mercificazione selvaggia dei territori, agendo per questa via come vero e proprio strumento di politica urbanistica, oltre che sociale e culturale. Pur prendendo atto della necessità storica di immaginare nuove e più moderne forme di regolamentazione, che non guardino solo al passato ma al futuro, crediamo che questo senso profondo di quell’esperienza vada ricordato e mantenuto: la gestione del patrimonio pubblico, infatti, non può essere una mera gestione contabile o amministrativa, improntata soltanto a ciechi criteri di efficienza, efficacia ed economicità, ma può e deve essere strumento di politica sociale e culturale, per mezzo del quale promuovere e favorire le iniziative cooperative e solidali della cittadinanza, differenziando regole e procedure a seconda della finalità oggettiva dei soggetti coinvolti.
La seconda considerazione relativa al secondo nucleo normativo è, per così dire, l’altra faccia della medaglia. Se infatti quella stagione amministrativa aveva dimostrato la capacità di riconoscere e favorire il meglio dell’attivazione dal basso del tessuto sociale, dall’altro lato, tuttavia, specialmente con la delibera n. 202/1996, venivano a ciò predisposte attività amministrative eccessivamente procedimentalizzate, poco chiare sia per i cittadini che per l’Amministrazione stessa, spesso inutilmente cavillose, più attente alle forme amministrative che alla sostanza dei processi in atto. Questa procedimentalizzazione, tra l’altro, non ha soltanto – sul lungo periodo, cioè oggi – generato i mostri amministrativi che saranno successivamente esposti e ai quali urge trovare rimedio, ma non ha neppure impedito che l’Amministrazione stessa ne rimanesse vittima, in termini di responsabilità personale dei funzionari e dei dirigenti preposti. Crediamo che questa vicenda debba necessariamente insegnare qualcosa, relativamente a come e a quanto si deciderà di normare la materia in oggetto.
Il terzo nucleo normativo, quello più recente, ha provato – in maniera assolutamente scomposta – a riordinare la disciplina in materia. Una prima decisione, assolutamente rilevante e rispetto alla quale non è opportuno arretrare, è quella contenuta nella delibera n. 6/2014, laddove essa – nel disporre il piano di alienazioni di una parte del patrimonio pubblico capitolino – esplicita che gli immobili interessati dalle assegnazioni ex delibera n. 26/1995 sono escluse dal suddetto programma di (s)vendita immobiliare. Gli altri due provvedimenti, invece, sono quelli che hanno creato l’attuale «emergenza sgomberi», ossia quelli che hanno nei fatti predisposto la totale tabula rasa dell’intero tessuto sociale, culturale e associativo romano.
In primo luogo, c’è da segnalare come la delibera n. 219/2014 sia una delibera menzognera. Essa, infatti, è intitolata «Patrimonio pubblico bene comune», eppure la disciplina in essa contenuta non ha nulla a che vedere con i beni comuni, con la loro teoria giuridica e con la loro prassi amministrativa ormai consolidatasi in quasi 100 Comuni in tutta Italia.

• Delibera 140: cancellazione

• I beni comuni urbani
• Che cosa sono i beni comuni urbani (in generale, brevemente)
• Dettaglio della prassi amministrativa sui beni comuni + Napoli (cfr. Piscopo)
• La delibera presentata dalla Raggi nella scorsa consiliatura (importante!)
• Soluzioni intermedie, soluzioni a geometria variabile (non soluzione erga omnes)

• Urgenze, soggetti in campo, metodo
• Questione della Corte dei Conti e dei debiti (nel dettaglio)
• Metodo politico (brevemente, no missili)




La scuola al Centro

Duecentoquaranta milioni di euro per consentire le aperture pomeridiane e in orari extra scolastici in 6.000 scuole di tutto il Paese. “La Scuola al Centro”, l’iniziativa di contrasto alla dispersione scolastica e di inclusione sociale fortemente voluta dal Ministro Stefania Giannini, torna con un nuovo bando finanziato dal Fondo sociale europeo nell’ambito del PON 2014-2020. Questa estate sono state quattro le città coinvolte: Milano, Roma, Napoli e Palermo. Dieci i milioni stanziati nei mesi scorsi per le aperture estive. Ora sarà possibile ampliare l’esperienza in tutta Italia con una maggiore apertura delle scuole in orari diversi da quelli delle lezioni e quindi di pomeriggio e nei week end.

Sono 240 i milioni (fondi europei) che vengono messi a disposizione con il bando pubblicato oggi sul sito del Miur. Un finanziamento che consentirà a

circa 6.000 istituzioni scolastiche (il 72,4% delle 8.281 presenti sul nostro territorio) di prolungare il loro orario di apertura, offrendo in tutta Italia ai ragazzi coinvolti un arricchimento del percorso formativo e garantendo alle famiglie e al territorio un presidio di contrasto alla dispersione scolastica e di recupero delle sacche di disagio sociale.

“Partendo dal progetto ‘La Scuola al Centro’ stiamo proponendo al Paese un nuovo modello di scuola. Una scuola che è un punto di riferimento non solo quando c’è lezione. Un centro civico dove, anche grazie alla collaborazione con il territorio, i ragazzi possano stare di pomeriggio o nei week end, d’estate come d’inverno, trovando stimoli e iniziative alternative alla strada. La Scuola al Centro è il cuore del nostro piano contro la dispersione scolastica. I dati ci dicono che la situazione sta migliorando, il tasso di dispersione medio nazionale passa dal 20,8% del 2006 al 14,7% del 2015. Ma dobbiamo ancora lavorare molto. Soprattutto nelle aree dove c’è maggiore disagio sociale. Questa è la nostra risposta: un piano nazionale per una iniziativa organica, senza più fondi distribuiti a pioggia su micro-progetti non monitorabili come avveniva in passato – sottolinea il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini – 400 istituti hanno tenuto le porte aperte nei mesi di luglio e agosto in quattro città, garantendo a ragazzi e famiglie un servizio gratuito e molto apprezzato. Ora puntiamo a raggiungere 6.000 scuole, per un impatto di scala e un salto di qualità grazie anche a più ore di musica, sport, teatro”.

Il bando
Il bando prende il via oggi e scadrà il 31 ottobre. Le scuole che accederanno ai finanziamenti dovranno garantire almeno 60 ore extra di potenziamento delle competenze di base (tra cui la lingua italiana) e almeno 60 ore extra di sport ed educazione motoria. A queste, si aggiungeranno quattro moduli (da 30 ore ciascuno) che dovranno essere coerenti con il Piano dell’offerta formativa e potranno riguardare il rafforzamento della lingua straniera, le competenze digitali, l’orientamento post-scolastico, la musica e il canto, l’arte, la scrittura creativa, il teatro, i laboratori creativi e/o artigianali per la valorizzazione delle vocazioni territoriali, l’educazione alla legalità e la cura dei beni comuni, la cittadinanza italiana ed europea, i percorsi formativi di inclusione che prevedano il coinvolgimento dei genitori. Complessivamente, ogni scuola potrà ricevere 40.000 euro per realizzare le attività extra.

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Promuovere la sharing city

La città come piattaforma di abilitazione dello scambio di beni, servizi e conoscenze tra pari. Valorizzare, prototipare e regolare nuove forme di reciprocità, in un’ottica di ibridazione con le logiche di scambio e di redistribuzione

Già nel 1987 Tom Malone, Joanne Yates e Robert Benjamin nell’articolo “Electronic Markets and Electronic Hierarchies” avevano previsto il passaggio dalla gerarchia al mercato attraverso la diffusione di tecnologie di rete. Yochai Benkler (2004), che per primo analizza in modo sistematico l’impatto delle tecnologie digitali sui rapporti tra economia e società, vede un superamento anche della logica di mercato: “queste tecnologie hanno permesso di affrontare vari problemi di approvvigionamento secondo forme di produzione decentrata basate su relazioni sociali, piuttosto che attraverso i mercati e le gerarchie”.

Benkler definisce questo modello come “common-based peer production” e i relativi beni come “shareable good”: una forma di produzione basata sulla collaborazione tra pari che mettono in comune il risultato del loro impegno. Un modello che nasce dall’esperienza dei software liberi e open source ma che grazie alle tecnologie digitali può essere esteso dai beni immateriali e non-rivali nel consumo anche a quelli materiali e rivali ma con capacità in eccesso (es. seconde case temporaneamente non abitate, auto parcheggiate ecc.). Benkler enfatizza una dimensione relazionale dello scambio fondata su fiducia, reciprocità di impegno dei soggetti coinvolti e motivazioni non solo strumentali nella condivisione del bene. Un’accezione che è rimasta solo nell’utilizzo più stretto del termine “sharing economy”, inteso come forma di “risocializzazione dell’economia” (Pais, Provasi, 2015), dove il consumo implica nuove forme di relazione, spesso con persone sconosciute, abilitate proprio attraverso meccanismi reputazionali e che Juliet Schor (2015) chiama “stranger sharing”.

Nella letteratura più recente si registra invece una maggiore attenzione all’efficacia distributiva di questi modelli. Arun Sundararajan (2016), pur titolando il suo recente libro “sharing economy”, nella sua analisi ricorre più spesso all’espressione “crowd-capitalism”, per porre l’attenzione su scambi organizzati attraverso “reti decentralizzate di individui anziché aggregati privati o pubblici”.

In questo modello, la “piattaforma” permette lo scambio di beni e servizi tra pari, riducendo le asimmetrie informative, abbattendo i costi di transazione e ottimizzando l’utilizzo delle risorse disponibili. Gli esempi più noti sono Airbnb nell’ambito dell’accoglienza, Blablacar per la mobilità, Upwork per l’incontro domanda-offerta di lavoro digitale, Gnammo nella ristorazione ecc.

La letteratura divulgativa associa la diffusione del modello-piattaforma a una logica di disintermediazione. Un’interpretazione solo parzialmente corretta: se da un lato c’è sicuramente una forma di abilitazione degli attori, dall’altra le norme costitutive sono determinate dalle piattaforme stesse, che introducono forme di re-intermediazione di cui dobbiamo ancora comprendere pienamente le logiche. Per limitarsi a un esempio, il costo del bene/servizio scambiato attraverso le piattaforme non è stabilito da un centro amministrativo, come nelle aziende tradizionali, ma dal singolo operatore; la determinazione del prezzo è però legata a un ranking reputazionale, di cui l’attore generalmente ignora l’algoritmo.

Il passaggio da organizzazioni (grandi e verticalizzate o piccole e a rete) a piattaforme è più evidente nella dimensione dello scambio di mercato, dove stanno cambiando anche le abitudini di consumo: generazioni abituate al possesso, anche come status-symbol, oggi prediligono l’accesso a breve termine.

Le pubbliche amministrazioni possono giocare un ruolo importante nella promozione e regolazione di questi mercati. I punti più delicati riguardano gli aspetti giuslavoristici e di tutela del consumatore. Le piattaforme possono facilitare la democratizzazione delle opportunità economiche e professionali, dal momento che non filtrano i candidati in base alle loro credenziali formali, ma questo richiede la costruzione di nuove forme di verifica della qualità del servizio, per esempio in termini di trattamento antidiscriminatorio. Inoltre il lavoro veicolato attraverso queste piattaforme è parcellizzato e “on demand”. Il vantaggio è che consente una completa flessibilità anche dal lato di chi eroga il servizio, che può decidere “istantaneamente” quando rendersi disponibile; una possibilità apprezzata soprattutto da persone per cui l’attività lavorativa non è esclusiva, come studenti o persone con compiti di cura. D’altro canto, questo comporta la necessità di ripensare la costruzione di profili di tutela del lavoro, ancora oggi costruiti su un modello di lavoratore full time e con datore di lavoro prevalente.

E’ poi importante riflettere sul ruolo delle amministrazioni locali, soprattutto nelle grandi città dove la densità abitativa favorisce la diffusione di queste pratiche. Il modello piattaforma generalizza a tutti i settori quello che nel consumo di prodotti agricoli viene definito “locavorism” e che in Italia traduciamo con il concetto di consumo “a km zero”, ma lo reinterpreta in un’ottica di “localismo cosmopolita”: le dinamiche di prossimità fisica sono rilevanti ma non sono vincolate a residenti stanziali o comunità chiuse perché la tecnologia facilita l’incontro anche occasionale tra domanda e offerta.

Questa dinamica pone nuove sfide alla città intesa come unità di analisi e come attore economicamente rilevante, posta al centro di una duplice tensione dialettica tra dimensione globale e locale e tra cooperazione e competizione (Le Galès 2002). Per spiegare la diffusione della sharing economy in un determinato contesto locale non si può prescindere dall’analisi del sistema socio-economico e istituzionale in cui questa va ad innestarsi: le tradizioni storiche che hanno contribuito alla creazione di competenze, capacità tecniche e know-how in una particolare area; la presenza di imprese che facilitano la crescita economica; l’architettura istituzionale che fornisce beni collettivi locali per la competitività come la formazione o l’accesso alla finanza; ma anche la forza del capitale sociale e delle relazioni comunitarie presenti a livello locale, con particolare attenzione alle ricadute in termini di diffusione dell’economia informale.

A questo si aggiunge un ulteriore livello di progettualità, più strettamente politica, a cui si fa riferimento con l’espressione “shareable city” o “sharing city” (McLaren, Agyeman 2015): molte città in tutto il mondo hanno promosso schemi orientati alla sharing economy in alcuni settori specifici e alcune stanno sperimentando politiche integrate. Tra queste, oltre ai casi internazionali di Seoul e Amsterdam, si segnala quello di Milano.

Oltre alla regolazione delle implicazioni del modello piattaforma nella dimensione di mercato, queste esperienze si caratterizzano per la costruzione di nuovi prototipi direttamente in ambito pubblico. Si tratta di un movimento speculare rispetto a quello visto finora: le logiche e le pratiche più interessanti sono quelle che espandono la reciprocità in direzione dello scambio di mercato, anche in un’ottica di “ibridi organizzativi” (Venturi, Zandonai 2016); allo stesso modo, il modello piattaforma può essere adottato espandere la reciprocità in direzione della redistribuzione (Pais, Provasi 2015).

Secondo il modello proposto da Polanyi (1944 in Pais, Provasi 2015), nella redistribuzione le risorse vengono allocate da un centro dotato di autorità e in funzione di fini che lo stesso definisce come corrispondenti al bene collettivo. (…) I beni e le risorse allocate per via d’autorità possono essere i più vari ma in quanto sottoposti al regime redistributivo assumono per ciò stesso la caratteristica di beni pubblici: beni che rispondono a bisogni ritenuti degni di tutela pubblica e che sono perciò allocati in forza di diritti di cittadinanza definiti dalla legge. I beni così redistribuiti prescindono dall’identità personale di chi li riceve e sono rigorosamente standardizzati sulla base di routine professionali burocratiche.

La reciprocità si distingue dalla redistribuzione, innanzitutto, in quanto presuppone una sostanziale simmetria tra i soggetti coinvolti. Polanyi per caratterizzarla sembra ispirarsi principalmente alle forme non economiche di scambio caratterizzanti le società premoderne e le relazioni primarie (amicali, familiari, di prossimità) di quelle moderne. Si sostanzia di scambi asincroni e non equivalenti, tali da generare un “indebitamento reciproco positivo” mediato dalla riconoscenza o gratitudine personale. (…) Si tratta di una forma di reciprocità elettiva, che presuppone cioè un rapporto diretto tra soggetti che si conoscono e riconoscono reciprocamente. Ciò che qualifica i beni scambiati sotto questo regime di reciprocità è il valore di legame che contribuiscono a creare; sono pertanto a tutti gli effetti beni relazionali, il cui valore cresce nella misura in cui sono in grado di modificare l’identità stessa dei soggetti coinvolti e la loro relazione (Becchetti 2009).

Rispetto alle possibilità di contaminazione tra questi due modelli, un esempio interessante è dato dal crowdfunding civico. Il crowdfunding è la mobilitazione, grazie a internet e ai social network, di piccoli investimenti su singoli progetti (imprenditoriali, creativi, sociali o civici) da parte di un gran numero di individui (la “folla”), a cui generalmente corrisponde un sistema di ricompense simboliche, materiali o economiche (Pais, Peretti, Spinelli 2014). Viene abilitato attraverso piattaforme peer-to-peer e la è relazione simmetrica, con parziale venir meno dei confini tra progettista/produttore e consumatore. L’equivalenza è incompleta perché si finanzia un prodotto o servizio che non è stato ancora realizzato, di cui non è possibile accertare a priori il valore. Oltre a valutare il prodotto, è quindi importante raccogliere informazioni circa l’affidabilità del progettista. Il meccanismo che abilita questo processo, quando non c’è conoscenza diretta tra progettista e finanziatore, è di tipo reputazionale (Pais, Provasi 2015).

Il crowdfunding è civico quando il progetto vede il coinvolgimento diretto o indiretto dell’amministrazione pubblica, nel fornire contributi in termini economici, progettuali o di visibilità (Davies 2015). Generalmente è orientato alla produzione di beni comuni (commons), definiti come quelle risorse sfruttate da più utilizzatori i cui processi di esclusione sono difficili, costosi o non opportuni data la loro essenzialità per la vita della comunità. A differenza dei beni pubblici, quelli comuni possono anche essere rivali: il consumo del bene da parte di un soggetto può ridurre la possibilità di consumo da parte degli altri, come nel caso delle risorse naturali oggetto delle prime analisi di Elinor Ostrom (1990;2015).
In Italia le campagne di civic crowdfunding sono state il 6% del totale fino al 2015 ma il dato è in forte crescita (Pais 2015).

Tra le esperienze più interessanti, si segnala la campagna “Un passo per San Luca” promossa dal Comitato per il restauro del portico di San Luca, che ha visto la donazione iniziale di 100mila euro da parte del Comune di Bologna, a cui si sono poi aggiunti altri 239.743 euro da parte di 7111 donatori.

Il Comune di Milano – nell’ambito delle politiche Milano Sharing City approvate con delibera del 19 dicembre 2014 – ha da poco avviato la sperimentazione di un canale di finanziamento basato sul crowdfunding civico: tra i progetti di innovazione e imprenditoria sociale pubblicati sulla piattaforma selezionata dal Comune, quelli che riusciranno a raggiungere la metà dell’importo previsto otterranno un cofinanziamento per la restante parte, fino a un massimo di 50.000 euro a progetto, per uno stanziamento complessivo 400.000 euro.

Una forma di integrazione che presenta, appunto, tratti di ibridazione tra logiche di reciprocità e di redistribuzione e che, per distinguerla da queste, si potrebbe definire di “condivisione” (Pais, Provasi 2015): si basa su una forma particolare di reciprocità, quella che lega ciascun individuo alla comunità cui si sente di appartenere (reciprocità generalizzata, ma non universale) ma – come nella redistribuzione – i beni prodotti attraverso questo processo vanno a beneficio anche di chi non ha partecipato allo sforzo progettuale e finanziario.

In questa e altre esperienze, anche la pubblica amministrazione sta iniziando ad adottare il “modello piattaforma”: una evoluzione del passaggio da strategie di government, caratterizzate da autoritatività, verticalità e autoreferenzialità dei meccanismi decisionali pubblici e da dinamiche di comando e controllo, a strategie governance, caratterizzate da paritarietà, orizzontalità e apertura verso la cooperazione con la comunità e la società civile (March e Olsen 1989; 2015).

L’elemento di novità sta nel passaggio da un coinvolgimento del cittadino organizzato attraverso associazioni nelle politiche proposte dall’amministrazione a uno «Stato relazionale» o «Stato-regia» (Iaione 2015) che abilita l’iniziativa autonoma dei cittadini. La sfida è quella di riuscire a veicolare e valorizzare il singolo “contributo”, anche in forma sporadica e non organizzata. L’esperienza delle piattaforme di mercato dimostra che è possibile, sia dal punto di vista tecnico che da quello organizzativo, nell’ambito dei processi redistributivi questo passaggio deve però essere accompagnato da una riflessione sulle relative implicazioni sociali in termini di potenziale rafforzamento della partecipazione civica, riduzione delle diseguaglianze sociali e ripensamento del ruolo dell’amministrazione locale.

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La «questione urbana» al centro della crisi

“Le città nella crisi”: è il titolo del nuovo numero de “La Rivista delle Politiche Sociali”. Tre gli argomenti affrontati nel fascicolo: le politiche urbane nella parte monografica, il welfare contrattuale nella sezione attualità, la crisi (“spiegata ai nipoti”) nello spazio riservato al dibattito e dedicato al libro testamento di Luciano Gallino.

In un tempo in cui la maggior parte della popolazione mondiale vive nelle città e in cui mutamenti strutturali e recessione economica hanno impatti significativi sulle condizioni di vita delle persone, la “questione urbana” si impone con urgenza. La sezione monografica del fascicolo indaga le politiche urbane messe in campo per far fronte alla crisi, con uno sguardo anche alle soluzioni innovative sperimentate in alcune realtà locali. Soluzioni che segnalano quanto sia importante l’iniziativa degli attori sociali ed economici (il sindacato, fra questi), come questa azione sia destinata a fallire – o comunque abbia scarsi effetti – senza una forte assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni pubbliche, a partire dalle amministrazioni comunali.

L’analisi dei diversi casi-studio di città straniere (Barcellona, Chicago, Parigi) e italiane (Milano, Torino, Livorno, Cosenza) ha evidenziato come le risposte “dal basso” alla crisi economica siano state fondamentali, pur nascondendo a volte insidie e punti oscuri e, comunque, sempre esigendo un ruolo forte delle istituzioni pubbliche, chiamate a coordinare, orientare, promuovere e sostenere i processi di riorganizzazione e riconversione urbana. A fare politica urbana, appunto. Così come, ricordano Paolo De Nardis e Luca Alteri, curatori della sezione, l’analisi “consiglia di rifiutare un approccio apodittico che consideri ogni politica urbana volta unicamente a creare un attivo di bilancio per l’amministrazione locale o per lo Stato”.

Un focus specifico per comprendere l’attualità delle profonde trasformazioni urbane che segnano il contesto italiano ed europeo è riservato alle periferie, luoghi stigmatizzati, dove vivono soggetti e gruppi maggiormente colpiti dai mutamenti degli assetti socio-economici: le dinamiche di espulsione dal processo produttivo, la precarizzazione lavorativa, la riduzione delle risorse di welfare state, l’erosione dei diritti di cittadinanza sono i caratteri preminenti che incidono sulle traiettorie di vita degli abitanti delle zone periferiche. A ciò si aggiunga la progressiva residualità del welfare abitativo, che ha contribuito a determinare la concentrazione spaziale di soggettività economicamente deprivate e socialmente marginalizzate.

Gli effetti prodotti dall’azione pubblica attraverso le cosiddette “area-based policies” risultano deboli, poiché non affrontano le cause strutturali della segregazione socio-spaziale e, soprattutto, non riducono la distanza tra la periferia e il centro. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche. La questione urbana e le conseguenti politiche richiamano con forza il ruolo egli attori sociali ed economici. Più volte i casi trattati dai diversi autori evocano il potenziale (e necessario) ruolo del sindacato.

In particolare l’esperienza della Camera del lavoro di Milano, descritta da Massimo Bonini e Ivan Lembo, rappresenta un caso emblematico di quale possa essere il ruolo della contrattazione sociale per aprire a soluzioni innovative di fronte ai bisogni inediti che la crisi e i mutamenti sociali hanno prodotto; e per ridefinire i confini della stessa rappresentanza sindacale a soggetti – uomini e donne italiani e stranieri – altrimenti senza voce. Non solo. Un altro punto essenziale che si evince dai contributi pubblicati nel numero e che è rimarcato nel saggio introduttivo, è: di quale Europa delle città stiamo parlando, se non sono neanche certi i confini dell’Europa politica e se, all’interno di questa, le politiche urbane sono così differenziate? Di quale Europa si tratta se importanti distinzioni, all’interno dello stesso Stato, in termini di reddito, di occupazione e di condizioni di vita, costringono tanti giovani – come ricorda Gaetano Sateriale nel suo contributo – a stabilirsi all’estero? Si tratta degli stessi giovani che si sono inurbati nelle città europee nel vano tentativo di sfuggire alla crisi. A loro si sono aggiunte migliaia di energie maghrebine, asiatiche e sub-sahariane, più forti e più fortunate delle traversie del viaggio della disperazione. Un quadro che modifica profondamente le richieste di welfare e la stessa offerta di lavoro.

La sezione attualità è invece dedicata al welfare aziendale e contrattuale, tema divenuto ormai centrale nel dibattito nazionale, tanto nelle azioni del governo, quanto nelle posizioni e nelle proposte dei soggetti di rappresentanza, innanzitutto di parte datoriale. In particolare, la recente legge di stabilità ha previsto ulteriori misure di sostegno e agevolazioni di natura fiscale in grado di generare anche effetti diretti sulla crescita del welfare aziendale e contrattuale, di cui si evidenziano rischi e opportunità. Si avanzano sull’argomento anche delle proposte – è il caso dei contributi del segretario confederale Cgil Franco Martini e di Maria Concetta Ambra – per la crescita di un welfare aziendale e contrattuale più inclusivo, avendo a riferimento che solo un solido sistema di welfare pubblico e universale consente di sviluppare esperienze di welfare integrativo sostenibili, anche in termini di costi e convenienze contrattuali.

Chiude il fascicolo una riflessione sull’ultimo libro di Luciano Gallino, “Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nipoti”, ponendo attenzione al messaggio speciale che ci lascia un grande maestro: guardare ciò che è, ma soprattutto a ciò che potrebbe essere, con un indirizzamento dello sguardo verso nuovi orizzonti raggiungibili.

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Fare trasparenza sui progetti per le periferie

Gentile Sindaca Raggi, dopo le Sue dichiarazioni su Facebook dove ha messo al primo posto in questo primo report sulla Sua attività istituzionale la partecipazione al bando delle periferie, come Coordinamento Periferie Roma Le chiediamo trasparenza sul recente bando della Presidenza del Consiglio che ha attribuito 40 milioni di euro a Roma per progetti da realizzare nelle periferie e segnatamente su motivazioni e criteri con cui sono stati chiesti i finanziamenti.
Con una lettera (allegata) inviata qualche giorno fa abbiamo chiesto all’Amministrazione Comunale la pubblicazione dei progetti approvati con le delibere n. 29 e n. 30 del 25 agosto 2016. E’ per noi precondizione indispensabile per fare una valutazione ponderata cosi da poter analizzare compiutamente i contenuti delle scelte della nuova Amministrazione che ha fatto della trasparenza la sua bandiera.
Siamo dell’idea che avere la visione generale con cui sono state elaborate le richieste di finanziamento ci permetterà di capire meglio il filo logico dei progetti inviati alla Presidenza del Consiglio sia come Comune di Roma che come Area Metropolitana. Un’attenzione, la nostra, di chi ha nel DNA la collaborazione e il “bene di Roma” sul tema centrale delle Periferie su cui stiamo lavorando da anni. Tema tanto evocato e richiamato da chi spesso non vi ha mai messo i famosi “scarponi per terra”.

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Il tram a Marconi: le proposte del M5s per la mobilità del Municipio XI

La settimana europea della mobilità sostenibile è stata aperta annunciando suggestive corsie preferenziali. Da Corviale a Marconi, le proposte sono state analizzate dalle opposizioni municipali
Il tram a Marconi: le proposte del M5s per la mobilità del Municipio XI
La settimana europea per la mobilità sostenibile è iniziata. E dal Campidoglio sono arrivate già le prime proposte. Alcune hanno il gusto del dejà vù, altre sono del tutto nuove. E’ il caso, ad esempio, della nuova corsia preferenziale che l’Assessore Linda Meleo ha annunciato e che consentirebbe di collegare Corviale con il centro storico passando per Portuense. Ci sono poi corsie preferenziali di cui si parla da molti anni. Ce n’è una, su viale Marconi che “sarà prolungata dalla stazione della metro B fino a piazzale della Radio”. Ed un’altra, sul lato opposto del viale, che sarà realizzata ex novo.

LA SOLUZIONE PIU’ ECONOMICA – Il tema delle corsie preferenziali, in un quadrante congestionato come Marconi, tiene necessariamente banco. E da anni. “Ci sono due possibilità che possono essere prese in considerazione – ragiona Maurizio Veloccia, già Presidente del Municipio XI – una comporta una spesa di qualche centinaia di migliaia d’euro. E’ meno impattante e prevede che la preferenziale stessa sia realizzata addossandola al marciapiede. In quel caso però quest’ultimi vanno rifatti, e così’ anche i posti auto per i disabili e le fermate dell’Atac. Per rispettare il codice della strada, è però necessario eliminare anche la carreggiata centrale, dove attualmente viene tollerata la sosta di circa 250 auto. C’è poi un secondo intervento, più impattante e tutto sommato preferibile”.

IL TRAM – Il secondo intervento, cui Veloccia fa riferimento “prevede corsie preferenziali al centro della carreggiata, cosa che eliminerebbe la sosta irregolare nello square, ma che lascerebbe la possibilità di parcheggiare lungo i marciapiedi. Questa soluzione – conclude l’ex Minisindaco – permette di tornare a ragionare su un corridoio della mobilità che, con lo sfioccamento dell’8, potrebbe in tempi comunque non brevi portare il tram anche a Marconi”. L’idea, è anche sul tavolo dell’Assessore capitolino Meleo, che infatti ha dichiarato di “valutare anche l’ipotesi di una linea tram che arrivi fino a Trastevere connettendosi sulle rotaie delle linee 8 e 3 sua viale Trastevere”.

LA PORTUENSE – Per quanto attiene invece l’idea di collegare Corviale con il centro, si registrano le osservazioni del Vicepresidente del Consiglio Municipale Marco Palma. “Suggerisco vivamente di rendersi conto della realtà e della viabilità. Da via delle Vigne fino a piazza della Radio, la strada assume forme diverse con molti colli di bottiglia. Parliamo infatti di un tratto che già oggi è sofferente. Realizzare una preferenziale, non mi sembra quindi semplice senza rinunciare a molti posti auto”. Non c’è soltanto il problema dei parcheggi a destare preoccupazione. ” Se verrà fatta una preferenziale, quando aprirà il sottopasso ferroviario la carreggiata tornerà nuovamente ad una corsia, creando un altro collo di bottiglia”. Le soluzioni, dunque, vanno analizzate con attenzione. “Una città moderna – valuta Palma – avrebbe costruito un sottopasso che avrebbe consentito di superare l’area di via Oderisi da Gubbio, decongestionando viale Marconi e piazza Fermi e riconsegnando alcune strade al traffico locale piuttosto che alla pedonalizzazione”. Le proposte per migliorare la viabilità della zona, come Palma dimostra, non mancano.

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Emergenza abitativa, al via a Milano il progetto ‘Zero case vuote’

I lavori di recupero e manutenzione straordinaria degli alloggi sfitti di edilizia residenziale pubblica suddivisi in sei appalti per un costo complessivo di 30 milioni di euro.
Risanare e recuperare il patrimonio abitativo comunale in modo da poterlo restituire ai cittadini che ne abbiano bisogno. Con questo obiettivo è partito a Milano il progetto ‘Zero case vuote’ voluto dalla nuova amministrazione e realizzato con MM Spa.

La Giunta ha approvato il 9 settembre la delibera per la definizione degli interventi prioritari volti a ridurre il numero degli alloggi sfitti del patrimonio abitativo pubblico. Il progetto si inserisce in un’impostazione programmatica più ampia denominata ‘Piano periferie’, che l’amministrazione milanese considera cruciale in tema di rigenerazione urbana, qualità dello spazio pubblico e vivibilità dei quartieri.

I lavori di recupero e manutenzione straordinaria degli alloggi sfitti di edilizia residenziale pubblica saranno suddivisi in sei diversi appalti, per un costo complessivo di 30 milioni di euro, derivanti perlopiù da residui di precedenti mutui accesi dal Comune e in parte da finanziamenti statali destinati al progetto tramite Regione Lombardia. Si sta lavorando ora ai primi due appalti per un totale di oltre 11 milioni di euro (8 milioni e 589mila euro di fondi statali cui vanno aggiunti 3 milioni di risorse comunali). Con questo lotto i cantieri saranno concentrati all’interno del Municipio 7, tra San Siro e Baggio, e i fondi consentiranno il recupero complessivo di 276 alloggi. Molti di questi tra le vie San Romanello, San Bernardo, Palmanova, Tarabella, Mar Nero, Nikolajevka e Statuto, dove si trova uno stabile interamente destinato a persone con disabilità.

Seguiranno altri interventi per 18 milioni e 900mila euro (4 appalti ciascuno da 4 milioni e 725mila euro): già individuato l’elenco di 562 sfitti che verranno ristrutturati nei vari quartieri. L’elenco potrebbe prevedere l’aggiunta di ulteriori unità in corso d’opera, in ragione di possibili economie di spesa.

Il costo medio dei lavori sarà di 16mila euro per unità abitativa; in alcuni casi ne basteranno 10mila, in altri, quelli che presentano situazioni di degrado più pesanti, si potrebbe arrivare fino a 40mila euro. Perlopiù si tratta di adeguamenti impiantistici (elettrico e gas), del ripristino dei servizi igienici con la sostituzione di sanitari e apparecchiature, e di opere atte a rendere gli alloggi fruibili, in alcuni casi anche da soggetti con disabilità.

Nell’individuare le unità sfitte su cui intervenire, si è pensato innanzitutto di rendere i cantieri più efficienti ed efficaci, prendendo in considerazione gli interi stabili e ristrutturando tutte le unità sfitte all’interno. Priorità alle case più grandi (dai 60 metri quadrati in su) che sono quelle maggiormente richieste in graduatoria. Altro criterio seguito, quello di diffondere gli interventi in modo il più possibile omogeneo sull’intero territorio. MM Spa ha suddiviso i cantieri in modo equilibrato intorno alle proprie sedi territoriali: nell’area della sede A (che corrisponde ai Municipi 2,3,9) verrà eseguito il 20% dei lavori, nella sede B (Municipio 8) il 20%, nella sede C (Municipi 1, 4, 5) il 25% e nella sede D (Municipi 6 e 7) il 35%.

Dopo l’approvazione di questa prima delibera di indirizzo, verranno perfezionati i provvedimenti di approvazione e finanziamento dei progetti in modo da procedere con i bandi di gara e le aggiudicazioni ad inizio 2017 e far partire i cantieri – che avranno la durata di circa un anno – subito dopo. Per arrivare così nel 2018 al recupero degli alloggi e alla loro assegnazione ai nuclei familiari che ne abbiano diritto.

Stiamo avviando un vero e proprio intervento di welfare territoriale – spiega l’assessore alla Casa Gabriele Rabaiotti –, partendo da un piano straordinario di recupero del patrimonio pubblico non utilizzato e assegnandolo a canone sociale secondo le graduatorie comunali. Ci rivolgeremo quindi alle famiglie che si trovano in situazioni di particolare difficoltà economica, rispondendo alla forte domanda abitativa espressa dalle fasce più disagiate della popolazione. Un obiettivo cruciale per questa Giunta. Questa operazione avrà un altro fine, altrettanto importante: ridare fiato all’affitto anche per la fascia intermedia. Per questa seconda sfida chiederemo ai proprietari di case sfitte di riportarle sul mercato della locazione, con incentivi ed agevolazioni che consentano di rendere i canoni più accessibili per i redditi medio-bassi senza però mortificare le aspettative del proprietario. Questo il compito che abbiamo affidato all’Agenzia sociale Milano Abitare voluta dalla precedente Giunta che nei prossimi anni ci auguriamo di potenziare. Perché senza affitto la città rischia di rallentare, invecchiare e perdere in dinamismo.

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Emergenza casa, pubblico e privato Così rinasce l’edilizia popolare

Il Comune apre un dossier sullo stabile di via Pianell 15, alla Bicocca. E studia un bando che, attraverso il co-finanziamento con il privato, lo traghetti fuori dal degrado. L’obiettivo: realizzare appartamenti da destinare a quella fascia di popolazione che non può permettersi di comprare casa ma neppure di accedere agli elenchi per le case popolari. L’assessore alla Casa, Gabriele Rabaiotti, lo ha spiegato ai consiglieri: «Soldi per realizzare nuove case Erp non ne abbiamo. Una strada per affrontare l’emergenza abitativa è intervenire sull’esistente, riqualificandolo, come stiamo facendo con il piano di investimenti da 30 milioni di euro. E poi avviare sperimentazioni come quella allo studio per via Pianell». Il Comune cioè investe una quota (2 milioni di euro), e il vincitore del bando mette la parte mancante, di cui rientrerà attraverso la gestione. Il dossier su via Pianell fa comprendere come l’intervento dell’amministrazione sulla città sia «chirurgico». La storia di via Pianell, grande stabile diroccato all’angolo con via Ugolini, è emblematica. All’inizio del secolo scorso è stato un bell’esempio del welfare meneghino: ospitò per decenni le ragazze madri con i loro piccini. Da 45 anni, però, è abbandonato. Di lui, in Comune, risulta si siano ricordati quando è stato il momento di concorrere ai fondi regionali per l’edilizia residenziale pubblica.

Secondo un documento ormai datato (risale al 1999) e intitolato «Recupero e ristrutturazione dell’edificio da destinare a residenza pubblica da finanziare con le risorse regionali dell’edilizia sovvenzionata», nell’edificio – due corpi di fabbrica, uniti da una scala che sale di tre piani, cinquecento metri quadrati a piano -, si dovevano ricavare undici piccoli appartamenti e, fuori, nel cortile, laboratori artigianali. I soldi arrivarono. A memoria, resiste l’impalcatura principale, sul fronte che s’affaccia su via Pianell. Non c’è traccia di un cartello che denunci l’apertura di un cantiere, per lavori che sicuramente iniziarono ma che furono misteriosamente interrotti. A ricordarci che via Pianell non è più la periferia della città, dal tetto dello stabile dove spuntano brandelli di palificazione in cemento armato, s’intravedono la Collina dei ciliegi e gli squadrati palazzoni grigi che portano la firma dell’architetto Gregotti. A 10 anni dalla presentazione del progetto definitivo di recupero con fondi regionali, i lavori erano in alto mare. I progetti andavano adeguati: nuovo progetto, nuova gara d’appalto… In un documento del Settore Tecnico Casa e Demanio del 27 maggio 2009 si legge: «Si può prevedere che i lavori potrebbero iniziare nel marzo 2010 e concludersi in circa un anno». Ma di via Pianell nessuno finora s’era più ricordato.

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