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Rigenerare le città. Periferie e non solo. Numeri, proposte e strumenti per intervenire nelle grandi aree urbane. Creando Comunità

Legacoop e Legambiente hanno avviato, da diverso tempo un percorso di collaborazione, grazie anche alla firma di un protocollo di intesa, per promuovere progetti d’impresa finalizzati allo sviluppo di una rete diffusa di cooperative di comunità, impegnate nella tutela dei beni pubblici e dei beni comuni, il recupero di luoghi abbandonati, la green economy e la valorizzazione delle comunità locali, stimolando l’autonomia e l’organizzazione dei cittadini.

Questa collaborazione ha portato, in particolare, alla realizzazione di una collana editoriale dedicata alle cooperative di comunità. Il prossimo 18 ottobre a Roma, presso lo “Spazio Diamante” in via Prenestina, con inizio dei lavori alle ore 10.30, verrà presentato il terzo quaderno (dopo quelli sui beni comuni e le aree interne) intitolato “Rigenerare le città. Periferie e non solo. Numeri, proposte e strumenti per intervenire nelle grandi aree urbane. Creando Comunità”.

Il Seminario di presentazione sarà incentrato sul tema della rigenerazione urbana, vista in un ottica di partecipazione, condivisione, trasparenza e protagonismo, che richiede un processo di strategie, politiche e azioni finalizzate alla realizzazione di uno sviluppo urbano sostenibile.

Oltre la partecipazione del Presidente Nazionale di Legacoop Mauro Lusetti e della Presidente di Legambiente Rossella Muroni, sono previsti gli interventi del direttore dell’Agenzia del Demanio, Roberto Reggi, del Segretario Generale di CittadinanzaAttiva Antonio Gaudioso, del Responsabile Nazionale Cooperative di Comunità di Legacoop, Paolo Scaramuccia, e del Responsabile Nazionale Economia civile di Legambiente, Enrico Fontana. Verranno presentate alcune buone pratiche attraverso le quali si sta cercando di dare concretezza al tema della rigenerazione urbana: i progetti del bando Culturability, il Motovelodromo di Torino, il Cinema Postmodernissimo di Perugia, le esperienze di Corviale, il Progetto CantiereImpero e la rete di TorpignaLAB.

Per partecipare all’evento è indispensabile accreditarsi compilando la scheda di registrazione in allegato, rinviandola a cooperativecomunita@legacoop.coop.

Programma

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Roma, Coordinamento a Raggi: bando periferie gestito senza dialogo

La lettura della Città eterna da parte dell’amministrazione Raggi “rimane periferica e come tali restano le Periferie”. E’ la dura critica del Coordinamento Periferie di Roma all’amministrazione M5S rispetto alla gestione del bando periferie che avrebbe potuto alimentare le reti del territorio. “E’ da poco scaduto il bando della Presidenza del Consiglio sulla rigenerazione delle periferie – spiegano in una nota le associazioni del coordinamento -. Il bando entro il 31 agosto chiamava 12 aree metropolitane o capoluoghi di provincia ad esprimersi sulle necessità e per la riqualificazione di aree periferiche a rischio inclusione per abbandono manutentivo e ambienti ostili alla qualità comunitaria o comunicativa”. Il Coordinamento delle Periferie di Roma ha individuato nella data di scadenza un vulnus alla partecipazione dei cittadini al processo di identificazione delle debolezze e delle criticità presenti nei territori da individuare. La Presidenza del Consiglio ha deciso di non valutare la possibilità individuata e il bando ha avuto seguito nei tempi previsti. “Definita questa premessa, per chiarezza dei fatti, ci saremmo aspettati di poter interloquire in ogni caso con l’Amministrazione Capitolina, anche se in tempi ristretti ed estivi. Ma non c’è stato nessun passo in tal senso. Lo stesso dicasi per i Comuni dell’area metropolitana”.

L’intera vicenda delle scelte progettuali, criticano dal coordinamento “è stata gestita dai Dipartimenti dell’Urbanistica e delle Periferie con qualche timida richiesta ai Municipi. Già questa sembra una anomalia di una Città che non è in grado di esprimere un provvedimento unitario sul medesimo argomento. E’ evidente che ognuno dei due Dipartimenti ha tirato fuori le precedenti analisi di bisogno o i progetti sedimentati e con questo armamentario ci si è presentati alla valutazione senza esprimere una visione di Città, una metodologia complessiva, un coinvolgimento dei Cittadini se non altro del Terzo Settore come per altro richiesto dal bando. A nostro vedere, tali scelte ci appaiono come tampone di basso profilo utilizzato come completamento di manutenzioni, incurie e in assenza di una visione strategica della città e di azioni di rilancio e di promozione delle qualità ambientali, culturali, produttive e sociali presenti nei territori. In cosa è evidente la visione della Città? Quale rigenerazione e ricucitura si delinea?”, continuano le associazioni, che annunciano l’organizzazione di un eventi in cui chiariranno la loro posizione. “Rimane comunque il dato chiaro di una raffazzonata apertura dei cassetti di cui non se ne capisce spesso la logica se non quella riparatoria e di una mancanza totale di qualsiasi forma di partecipazione, nonché di trasparenza nella pubblicazione degli atti e nella presentazione dei progetti allegati”, concludono.

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Roma, la Caporetto della politica

A quasi cento giorni dall’insediamento di Virginia Raggi come Sindaco di Roma, la città ha vissuto ieri l’ennesima giornata di teatralizzazione della politica. La messa in scena – di questo si tratta: una rappresentazione mediatica di un processo decisionale, da fruire nel palcoscenico delle piattaforme comunicative dei social media – riguardava il voto dell’Assemblea capitolina sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024.

La giornata di ieri rappresenta la sintesi perfetta del quadro politico romano e dell’approccio alla gestione del potere delle sue classi dirigenti, quelle emergenti – i 5 Stelle – e quelle tradizionali, impersonate dal presidente del Coni Giovanni Malagò. Il ruolo di quest’ultimo nelle vicende della Capitale venne descritto magistralmente dal giornalista economico Alberto Statera su «Repubblica», nell’ormai lontano 2007: «Giovanni Malagò, detto affettuosamente “Megalò”, figlio di una nipote dell’antico ministro democristiano Pietro Campilli, ex concessionario-principe della Bmw e ora di Ferrari e Maserati, ha fatto negli ultimi anni del Reale Circolo Canottieri Aniene, nato nel 1892 da una costola del Tevere Remo (considerato allora troppo nero e papalino) la più formidabile concentrazione di upper class della capitale. Una sorta di stanza di compensazione dei poteri borghesi dei ruoli e della ricchezza, il melting-pot perfetto di commercianti e professionisti, costruttori e alti burocrati, personaggi dello sport, dello spettacolo e imprenditori».

Ieri, insomma, si rappresentava la lotta di classe 2.0 nella sua declinazione romana, quella tra i «cittadini» dell’uno vale uno e la Roma del generone. Ha vinto la piccola borghesia avvocatizia -assurta oggi a «classe generale» – di Virginia Raggi (residente nella borgata, sebbene adottiva, di Ottavia), contro lo strapotere dei quartieri bene: Parioli, Flaminio e Trieste-Salario. Impossibile comprendere quanto avvenuto ieri senza avere chiara la geografia simbolica della città.

Ma ieri si è inscenata, questa volta nella sostanza, la Caporetto della politica e dei buoni processi decisionali. Si sono palesati i limiti e il carattere di queste due anime di Roma, e si è persa l’ennesima occasione per avviare un dibattito acceso e informato sul futuro di una città priva – letteralmente – di progetti o piani strategici. Non sapremo mai se Roma avrebbe potuto disegnare con successo un grande evento internazionale; ma non sappiamo nemmeno se essa sarebbe stata in grado di discuterne in modo sufficientemente maturo da portare a una decisione adeguata, almeno per approssimazione (come sappiamo essere avvenuto per Londra 2012 o per Boston 2024, dove si è invece deciso di rinunciare alla candidatura attraverso un dibattito pubblico serrato).

Oggi, per capire Roma, vanno esaminati con attenzione i comportamenti di questi due contendenti. Partiamo da quello in sella da maggior tempo, il Comitato Roma 2024 di Giovanni Malagò (nell’epoca della personalizzazione della politica non può non personalizzarsi anche la «comitatologia»). Il peccato originale del Comitato è stato quello di non voler coinvolgere in modo reale la città. Gli strumenti e i software per dibattere e partecipare sono ormai innumerevoli, e sono stati testati in moltissimi processi decisionali attorno al globo: poteva essere punto di vanto sperimentarne uno, o più di uno, al fine di coinvolgere uno città diffidente ed esausta come Roma, senza limitarsi a un semplice piano di marketing e comunicazione.

In un recente seminario tenutosi nell’Università di Roma Tre sul tema della «Lezione olimpica», è stato dimostrato come gli eventi di promozione e presentazione della candidatura olimpica non abbiano mai visto coinvolto in prima persona il Comune di Roma; partner, di fatto, non strategico del Comitato. È stato trascurato, insomma, persino il fronte istituzionale della città. Con lo stesso Comune, prima del suo commissariamento dell’ottobre 2015, è nato un forte conflitto attorno al progetto di sviluppo infrastrutturale dei Giochi, anch’esso mai discusso con la città: metà del budget previsto era destinato all’area universitaria di Tor Vergata (periferia sud), dove si sarebbe concentrata la «legacy» dei giochi. Un villaggio olimpico che sarebbe divenuto sede di abitazioni per studenti, in un numero tale da coprire metà del fabbisogno nazionale di case per lo studente (ma per la sola Roma 2).

Un progetto che fa a pugni con la logica di sviluppo strategico di Londra 2012, orientato a ridisegnare la periferia dell’East End, ma anche con quella di Parigi 2024, che ruota attorno alla riqualificazione di un’altra area difficile come quella di Saint Denis. Entrambi inseriscono l’evento olimpico all’interno di una progettazione strategica della città, nella quale i Giochi divengono parte di un disegno più ampio: una pianificazione condivisa con la città – tanto che il processo decisionale a più voci di Londra 2012 è oggetto di analisi «da manuale», per esempio in Le decisioni di policy di Bruno Dente (Il Mulino, 2011, p. 179) – che sembra regalare una visione di metropoli più ampia di quella rappresentata dall’eredità degli studentati.

La debolezza del progetto e l’assenza di un processo di discussione partecipata – attraverso il quale poter coinvolgere la città in un percorso di individuazione di idee, proposte, problemi, desideri… – ha caratterizzato il progetto Malagò: tanto forte la mancanza di «connessione sentimentale» con la città, tanto più forte l’autoreferenzialità del sistema di relazioni che ne ha sostenuto l’azione. Quanto meno un grave errore strategico, che mostra però la crisi della classe dirigente locale di lungo corso.

E quella di recentissimo insediamento? Per ora agisce per rimozioni. Rimosso il vecchio establishment, opera anche la rimozione dei problemi complessi. Grazie a un apparato ideologico che premia una versione molto semplicistica della idea della decrescita e del conflitto contro la casta: il «grande» (evento, in questo caso), è sempre nemico del «piccolo» e della cura del micro, come se la gestione quotidiana di una metropoli non avesse a che fare con i grandi disegni di indirizzo strategico (cosa deve essere la Roma del 2025 per la Sindaca in carica? Di cosa vivrà?). Uno scorciatoia che porta allo stesso risultato di quella operata dal vecchio establishment (quello del «non disturbate il navigatore»): la città, per colpa di tutti, non viene messa in condizione di discutere, dibattere e confliggere in modo articolato e informato, rimanendo senza occasioni di pensarsi proiettata nel futuro.

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Bellezza, perché non sia una postilla

Non basta rifiutare l’idea di bellezza imposta dal mercato, da coloro che dividono le città in centro e periferia e da quelli che decidono cos’è arte e cosa non lo è. Possiamo prenderci cura delle periferie ogni giorno senza ridurle a luoghi in perenne attesa di interventi dall’alto. “Parchi, giardini, luoghi di studio e di scambio vanno inventati nella logica del bisogno di bellezza che noi abbiamo – scrive Antonietta Potente – E questo lo dobbiamo fare noi; dobbiamo inventare, forse anche con atti di disobbedienza civile, senza chiedere il permesso a nessuno…”.
Vorrei ricordare una sensibilità particolare dell’umano che è l’amore alla bellezza, non a una bellezza decisa da canoni culturali specifici; non quella comprata perché è il mercato ad offrirla e nemmeno solo quella donata dall’arte, come tradizione, ma quella ancora da costruire, quella da fare ancora emergere, che fa parte comunque della cura della realtà reale.

È qualcosa che mi inquieta tutte le volte che cammino nel centro delle nostre bellissime città e tutte le volte che raggiungo o mi trovo negli spazi periferici, sempre delle nostre città.

Penso questo soprattutto per quelle situazioni che a prima vista sembrano essere state private di tutto e anche della bellezza. Penso a certi luoghi in cui abitiamo, quasi sempre al margine. Nati nell’urgenza della sopravvivenza; un’alluvione, un terremoto, ma anche a quelle periferie costruite appositamente da chi pensa che certa parte di umanità va sopportata, ma comunque isolata per essere piano, piano dimenticata.

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E mentre la natura ci circonda di bellezza diffusa, diversa o plurale, gli esseri umani sembrano aver circoscritto il dono. Forse perché se ne sono appropriati e l’hanno messa a servizio del potere e del mercato.

Mi colpisce e mi inquieta molto il fatto che l’arte sia collocata nei nostri centri città, quasi come se fosse ormai conclusa; belle reliquie da conservare.

E mentre le città sono cresciute, si sono estese, la bellezza non si è moltiplicata, le periferie sono delle specie di depositi umani, agglomerati i case senza forma; scelte con il criterio dell’ammucchiamento umano, della compravendita immobiliare.

Luoghi pensati perché la gente ci stia solo per dormire, ma non per abitarli, per amarli, quando, addirittura non divengono discariche per i rifiuti. Come per far sì che l’essere umano che abita questi luoghi abbia solo tempo per adattarsi. Minimalismo assoluto, falsa efficienza ed essenzialità. Lo sguardo subito fa fatica e poi si abitua. Ma questo non va d’accordo con l’umano più umano come sensibilità profonda, come desiderio di nuove evoluzioni esistenziali. Eppure non sarà solo la passione per la giustizia che trasformerà la realtà, ma anche la passione per la bellezza o, certamente, sono la stessa cosa, una sfumatura di uno stesso mistero.

La bellezza, questo particolare diritto così sconosciuto nelle nostre quotidiane rivendicazioni. Allora i nostri luoghi non vanno lasciati a se stessi, non vanno nemmeno ridotti a luoghi in attesa di eventi pubblici.

Siamo noi che dobbiamo conoscere, come direbbe Simone Weil, i bisogni terrestri del corpo e dell’anima umana. Parchi, giardini, luoghi di studio e di scambio vanno inventati nella logica del bisogno di bellezza che noi abbiamo… E questo lo dobbiamo fare noi; dobbiamo inventare, forse anche con atti di disobbedienza civile, senza chiedere il permesso a nessuno.

Non possiamo più permettere che i nostri spazi evochino solo l’elemosina che altri ci hanno fatto, con interventi sporadici, quando la bellezza è un dolcissimo desiderio del corpo e dell’anima umana.

È sintomatico, nelle periferie delle grandi città i nomi delle piazze e delle vie vengono attribuiti a personaggi sintonici con percorsi di giustizia: Che Guevara, Martin Luther King, o con date che ricordano gesti di liberazione e resistenza, come per darci un contentino. Come se, nella memoria di chi vive in quei luoghi, dovessero esistere solo pochi pezzi di storia, strappati in qualche modo alla storia ufficiale dedicata in dei conti ai veri eroi e ai veri esempi.

Perché chi percorre una strada di una qualsiasi periferia, non deve sapere che sono esistiti Leonardo da Vinci, Vincent Van Gogh, una mistica come Teresa d’Avila o un evento che nel mondo della fisica si chiama: scoperta del principio di indeterminazione.

Nelle nostre periferie sembra che tutto sia legato a un’elemosina di sopravvivenza o forse all’azione di qualche sporadico rivoluzionario: forse due alberelli e una panchina, nella piazzetta dedicata a qualche eroe. Ma perché non si può passeggiare e appoggiare il nostro sguardo su abbondanti alberi, fiori, fontane?

Perché chi lotta per l’acqua pubblica non deve aver la gioia di farsi spruzzare, in un bel giardino, da una fontana zampillante? Perché i musei sono solo nei centri delle nostre città? Come se in una periferia non fossimo adatti a conservare la bellezza a prendercene cura e a condividerla.

Questa situazione resta un monito per la nostra passione per la giustizia, per l’amore che vorrebbe ricreare dei rapporti diversi; curarne alcuni, farne nascere altri e, insomma partecipare alla trasformazione della vita, perché la bellezza è scintilla dell’umano più umano.

Chiudo queste pagine con una poesia di Drummond de Andrade:

“Il marziano mi ha incontrato per strada e ha avuto paura della mia impossibilità umana. Come può esistere, ha pensato tra sé, un essere che nell’esistere mette un così grande annullamento dell’esistenza?”.

Tratto da Umano più umano. Appunti sul nostro vivere quotidiano, edizioni Piagge. Per acquistare i libri i edizioni Piagge, tel. 055 373737, edizionipiagge.it.

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SINDACA RAGGI: “BANDO PERIFERIE 2016” DOV’E’ LA VISIONE STRATEGICA DELLA CITTA’?

È da poco scaduto il bando della Presidenza del Consiglio sulla rigenerazione delle periferie. Il bando entro il 31 agosto chiamava 12 aree metropolitane o capoluoghi di provincia ad esprimersi sulle necessità e per la riqualificazione di aree periferiche a rischio inclusione per abbandono manutentivo e ambienti ostili alla qualità comunitaria o comunicativa.
Il Coordinamento delle Periferie di Roma ha individuato nella data di scadenza un vulnus alla partecipazione dei cittadini al processo di identificazione delle debolezze e delle criticità presenti nei territori da individuare. La questione era semplicemente che non “vedeva” la sovrapposizione tra il bando e le elezioni amministrative, mettendo in difficoltà i Comuni che partecipavano alle elezioni amministrative e quindi di recente insediamento, nelle scegliere consapevolmente le aree, i bisogni, le fragilità e nel verificare un processo di condivisione/scambio con le comunità locali penalizzate nei tempi, nelle informazioni delle procedure progettuali e le azioni di animazione sociale di accompagnamento opportune.
Per questa ragione il Coordinamento ha indirizzato una richiesta alla Presidenza del Consiglio per una proroga del bando di 60 giorni. Un tempo certo e minimo che avrebbe permesso lo svolgimento di consultazioni, di proposta, di conoscenza, di indirizzo: cioè gli elementi fondativi di ogni processo di partecipazione. Pur avendo il Coordinamento raccolto l’assenso di numerosi Comuni in turno elettorale, la Presidenza del Consiglio ha deciso di non valutare la possibilità individuata e il bando ha avuto seguito nei tempi previsti.
Definita questa premessa, per chiarezza dei fatti, ci saremmo aspettati di poter interloquire in ogni caso con l’Amministrazione Capitolina, anche se in tempi ristretti ed estivi. Ma non c’è stato nessun passo in tal senso. Lo stesso dicasi per i Comuni dell’area metropolitana.
L’intera vicenda delle scelte progettuali è stata gestita dai Dipartimenti dell’Urbanistica e delle Periferie con qualche timida richiesta ai Municipi. Già questa sembra una anomalia di una Città che non è in grado di esprimere un provvedimento unitario sul medesimo argomento. E’ evidente che ognuno dei due Dipartimenti ha tirato fuori le precedenti analisi di bisogno o i progetti sedimentati e con questo armamentario ci si è presentati alla valutazione senza esprimere una visione di Città, una metodologia complessiva, un coinvolgimento dei Cittadini se non altro del Terzo Settore come per altro richiesto dal bando. A nostro vedere, tali scelte ci appaiono come tampone di basso profilo utilizzato come completamento di manutenzioni, incurie e in assenza di una visione strategica della città e di azioni di rilancio e di promozione delle qualità ambientali, culturali, produttive e sociali presenti nei territori.
In cosa è evidente la visione della Città? Quale rigenerazione e ricucitura si delinea?
Aggiungiamo a queste considerazioni alcuni elementi su cui ci esprimeremo in un incontro pubblico, con più compiutezza, nel momento in cui avremo a disposizione il materiale complessivo di motivazioni e scelte delle progettazioni presentate. Rimane comunque il dato chiaro di una raffazzonata apertura dei cassetti di cui non se ne capisce spesso la logica se non quella riparatoria e di una mancanza totale di qualsiasi forma di partecipazione, nonché di trasparenza nella pubblicazione degli atti e nella presentazione dei progetti allegati.
La lettura della Città rimane periferica e come tali restano le Periferie.

Coordinamento Periferie di Roma

Roma, 30 settembre 2016

Bandi per le periferie di Roma




Bando per la riqualificazione delle periferie: nominato il Nucleo di valutazione dei progetti

Il nucleo di valutazione dei progetti intende procedere speditamente per la valutazione delle proposte da finanziare.
Buone nuove sulla riqualificazione delle periferie delle Città Metropolitane.

E’stato infatti emanato il decreto del segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, consigliere Paolo Aquilanti, con il quale si è proceduto alla costituzione del Nucleo per la valutazione dei progetti per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie, in base al bando nazionale emesso ad inizio estate..
Il Nucleo è composto dal segretario generale della Presidenza del Consiglio Paolo Aquilanti, che svolge le funzioni di presidente, e dai seguenti sei esperti di particolare qualificazione professionale: ing. Michele Brigante, designato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome; dott.ssa Veronica Nicotra, segretario generale dell’ANCI, designata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI); prof. Fabio Pammolli, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese presso la Scuola Superiore Universitaria IMT Alti Studi Lucca; prof.ssa Laura Ricci, direttore del Dipartimento di Pianificazione design tecnologia dell’architettura della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma La Sapienza; consigliere Ferruccio Sepe, dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri; arch. Elisabetta Fabbri.
Nella prima riunione il Nucleo ha definito le proprie modalità di funzionamento nonché ulteriori criteri di valutazione rispetto a quelli di base indicati nel bando allegato al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 maggio 2016 che ponevano in primo piano i requisiti della tempestività ed esecutività degli interventi, della capacità di attivare sinergie fra finanziamenti pubblici e privati, della fattibilità economica e finanziaria e della coerenza interna del progetto.
Come si ricorderà al bando hanno presentato progetti quasi tutti i Comuni della Città Metropolitana con una serie di proposte di grande interesse per la riqualificazione e la sicurezza del territorio

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Corviale, una passeggiata nel cemento che pulsa in cerca di identità e riscatto

Sapere qualcosa di più su Corviale era un mio desiderio. Eppure, poco prima dell’evento al quale avevo deciso di partecipare, ero titubante. Mi tormentava l’idea che le persone che vivono lì ci vedessero come visitatori di uno zoo. E un po’ la questione mi stava facendo desistere. Per fortuna, però, domenica 25 settembre ho deciso di andare. Queste incursioni urbane in periferia, come le definisce Irene Ranaldi (presidente dell’associazione culturale Ottavo Colle), sono importanti affinché i romani si riapproprino sempre di più dei propri quartieri. E’ stata lei ad avvisarci che qualche malumore lo avremmo avvertito, che la nostra presenza sarebbe stata avvertita dagli abitanti del quartiere e che saremmo stati accolti soprattutto dal silenzio. Per buona parte della passeggiata è andata proprio così.

Ma Corviale è davvero un mostro? E’ il quesito con il quale si è aperta la visita. Spesso la nostra percezione è distorta, quello che ci appare come brutto lo vediamo anche come distante e pericoloso. “Si tratta di un primo pregiudizio – spiega la sociologa urbana – Corviale è oggetto di tantissimi progetti di riqualificazione, tutti progetti fantastici sulla carta. Ma se Corviale non riesce a dialogare con la città è perché la città non dialoga con lui. Per far arrivare gli autobus le persone hanno dovuto bloccare le strade, accendere i fuochi. Gli ascensori, che sono spesso fuori uso, condannano anziani e disabili a vivere in un carcere. Ci sono corridoi di un chilometro che io non percorrerei mai da sola. A Corviale l’unico bar è quello della biblioteca, non ci sono ristoranti e c’è un solo supermercato. Il Mitreo è l’unica associazione culturale e l’Albergo delle Piante è uno dei pochi esempi che coinvolgono i cittadini e permettono loro di rendere bello e vivo uno dei cinque spazi-cavea inutilizzati”. A Corviale, infatti, non ci sono piazze. E non ci sono perché come spazi di aggregazione l’architetto che ha ideato il “serpentone”, Mario Fiorentino, aveva previsto gli spazi-cavea. Ma su quei gradoni non si riunisce nessuno, sono abbandonati. “L’albergo delle piante, ideato tra gli altri da Mimmo Rubino e Angelo Sabatiello, ha coinvolto i pazienti della Asl di Corviale, ha chiesto loro di adottare delle piante, disporle nella cavea e prendersene cura tra un tè e quattro chiacchiere”, sottolinea la presidente di Ottavo Colle.

Durante la passeggiata la Ranaldi racconta come è nato Corviale e mostra spezzoni di film che sono stati girati nel grande parallelepipedo, da “Sfrattato cerca casa equo canone” di Pier Francesco Pingitore, uscito nel 1983 a solo un anno dall’inaugurazione di Corviale, al dramma “Et in Terra Pax” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, da “Scusate se esisto!”, la commedia di Riccardo Milani ispirata al progetto (vero) dell’architetta Guendalina Salimei, con Paola Cortellesi e Raoul Bova a “Zeta” di Cosimo Alemà, in questo caso è stato mostrato il videoclip “Serpente” che ha per protagonista Salvatore Esposito (Genny Savastano della serie Gomorra), con la voce del rapper Tormento.

Considerato da alcuni un mostro e da altri un monumento della Roma contemporanea, Corviale è un complesso di 958 metri di lunghezza, 200 metri di spessore, 30 metri di altezza divisi in nove piani il tutto per un totale di 750.000 metri cubi di cemento, su di un’area edificabile di circa 60 ettari. “Si tratta di 1.202 appartamenti in cui vivono tra le 6mila e le 8mila persone. Nessuno sa con esattezza quanti siano i residenti perché molti sono tutt’ora abusivi e l’Ater, che è proprietario dell’edificio, fatica a riscuotere gli affitti e a procedere al censimento – spiega la sociologa – E’ nato seguendo le visioni utopiche del filosofo ed economista francese Charles Fourier (1772-1837), che vedeva nel falansterio (grande edificio destinato a una comunità autonoma e dotato di tutte le istituzioni e i servizi indispensabili, n.d.r.) una risposta all’esigenza di giustizia sociale. Attorno al Corviale ruotano due leggente metropolitane, una legata al suicidio di Fiorentino, che secondo la leggenda sarebbe avvenuto dopo aver visto la bruttezza alla quale aveva dato vita a 10 anni dalla progettazione (e che invece è morto per un arresto cardio-circolatorio dopo un’accesa riunione), l’altra legata alla scomparsa del Ponentino per via dell’enorme edificio. Entrambe sono solo leggende”.

Eppure, Corviale resta una delle eccellenze architettoniche del Paese per la sua unicità. Oltre al fallimento del sistema falansterio, tra i suoi problemi più grandi ci fu l’occupazione abusiva già nel 1982 dei quarti piani, destinati ai servizi come circoli culturali e ricreativi, biblioteche, etc. Nonostante tutte le sue problematiche, Corviale si muove, cerca di trovare al suo interno la sua identità, ha sviluppato una sorta di orgoglio. Qualora la risposta al quesito iniziale fosse affermativa, Corviale sarà anche un mostro ma, come tanti altri mostri, è un mostro che sta cercando un sistema per evolversi e fare meno paura.

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Bruno Manghi: “Il problema delle periferie è la qualità demografica”

«La particolarità di Torino sta nel fatto che per alcuni secoli è stata governata da un forte potere centrale. Dopo un periodo di smarrimento, ha sostituito in parte quel potere pubblico con l’auto, con la grande fabbrica, che è stata a sua volta un riferimento autoritativo. Tutto questo è finito, ma ha lasciato una traccia nella mentalità del territorio, per cui ci si aspetta sempre dalle autorità qualcosa di particolarmente rilevante, e invece non è così. Siamo entrati in una situazione nuova che si è accompagnata anche ad un grande cambiato territoriale di natura demografica»: Bruno Manghi, sociologo, una vita passata nel sindacato (Cisl), collaboratore di Prodi, attualmente presiede la Fondazione Mirafiori promossa dalla Compagnia di San Paolo. Sabato, in occasione dell’assemblea annuale di Confartigianato Imprese Torino, è intervenuto trattando il tema delle periferie, ma anche il ruolo dell’associazionismo. «Partiamo da una banalità: se le periferie sono i luoghi dove vivono le persone meno abbienti, dopo 7 anni di crisi le loro condizioni di vita non possono certo essere migliorate. La crisi colpisce in maniera più seria coloro che sono svantaggiati in partenza. La novità sta, invece, nel grande cambiamento territoriale avvenuto. Quando ero ragazzo la cintura torinese era un posto da evitare, ora, invece, a Grugliasco, Collegno, Nichelino, Settimo, ecc., abbiamo assistito ad una trasformazione positiva e ad un ringiovanimento medio della popolazione. Mentre nella cintura torinese è avvenuto un netto miglioramento reddituale, demografico e di attivismo, la povertà si è concentrata nella cerchia urbana, e questa è una novità di non poco conto. A Mirafiori Sud il nostro problema numero uno è strettamente demografico, nel senso che le periferie torinesi sono invecchiate, magari dignitosamente, ed i giovani si allontanano perché non hanno opportunità di qualità. Ad eccezione di Barriera di Milano, che fa caso a sé anche per la sua vastità, il problema di questi quartieri non è la delinquenza, ma l’invecchiamento, cioè la qualità demografica. Come ha spiegato bene Enrico Moretti nel suo saggio sulla nuova geografia del lavoro – dove traccia un’analisi comparata delle città americane – normalmente ciò che fa la differenza è la qualità del capitale umano che si insedia in un luogo. Per questo a Mirafiori Sud tra le attività più interessanti promosse dalla Fondazione, a parte gli orti urbani, c’è il sostegno a 130 studenti stranieri del Politecnico che vivono in via Negarville. Perché se in un luogo arrivano giovani in gamba con aspirazioni di reddito e di qualità della vita, questo non può non avere influenza su tutti i servizi di quel luogo».
Ma Bruno Manghi ha colto l’occasione dell’assemblea degli artigiani per una riflessione sul ruolo delle associazionismo. «A Mirafiori incontro tante persone, ma le associazioni sono poche e poco presenti. In pochi si presentano come associazione, con l’orgoglio di essere un’associazione e i valori di un’associazione. Confartigianato come le altre associazioni di categoria dà servizi cruciali, è una tecnostruttura importante, fa lobby verso le istituzioni, ma non è solo questo a fare un’associazione. Da Confindustria al sindacato, tutte le associazioni hanno attraversato momenti difficili, però ci sono alcuni esempi in controtendenza. Pensiamo alla Coldiretti: vent’anni fa era un’associazione finita, perché erano finite le relazioni con il mondo politico, erano cambiati gli interlocutori. Un gruppo di giovani l’ha presa in mano e l’ha riformata fornendo una identità professionale e non generica e intercettando la nascita della curiosità per l’ambiente e per l’agricoltura. Oggi le sue bandiere le conoscono tutti. Quando l’autorità centrale diventa più debole e meno decisiva, la parola torna alle associazioni, ma solo se sono associazioni e non semplici coalizioni di lobby. Gli artigiani, per esempio, sono anche degli educatori, perché quando trasmetti la bottega non trasmetti solo un’attività economica, ma trasmetti il senso di quella bottega, il gusto di fare qualcosa. Oggi si è riscoperto il valore del maker, del fare, c’è una grande ripresa del lavoro che non va confuso con il posto di lavoro ma con il senso di un’esistenza. Da questo, dall’orgoglio del fare, devono ripartire le associazioni».

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A Verona le periferie si mettono in mostra

Se non fosse per la “serenissima” Venezia, nel Veneto la gloria spetterebbe tutta a Verona. Città d’arte, di storia, di tradizioni e contraddizioni. E’ la città dell’amore (finito male), della musica e dell’Arena. E’ la città del sindaco Tosi (leghista), di un Chievo che si gode l’alta classifica, di un Hellas gloriosa scivolata in B e che è troppo spesso ricordata per certi cori razzisti. Verona è anche una città solidale, capace di grandi progettualità sociali. E così, oggi, sposta la periferia al centro. Letteralmente. La città inverte canoni, stereotipi, luoghi comuni. Facendo leva sulla sensibilità di fotografi amatoriali lancia una provocazione capace di accendere un riflettore sui territori senza luce. L’occhio che racconta, stavolta, è quello della gente comune. Persone che vivono e conoscono la periferia, artisti invisibili che hanno quei luoghi negli sguardi e nel cuore. Ogni giorno. Fotografi che con i loro scatti riportano l’attenzione sulle periferie abitate ma dimenticate. DeniSGiusti1 Dal progetto culturale (con risvolto sociale) alla mostra, be’, il passo è breve. E così la periferia diventa “Periferika”. Cinque fotografi non professionisti hanno messo in gioco loro stessi e la città offrendo una personale visione della vita al di là del cuore della città (dal 3 al 29 ottobre). Grazie ai loro occhi e ai loro scatti, stavolta la periferia si posta al centro. La mostra fotografica sarà infatti allestita nella vetrina della Biblioteca Civica in via Cappello. Le foto? Saranno visibili di giorno e di notte, 24 ore su 24. Perché rivolte all’esterno, quindi fruibili “dal di fuori”. MarcoSempreboni Insomma, per una volta almeno la periferia diventa il centro. E viceversa. Ecco quindi un’esposizione da cui nasce un catalogo da cui nascono riflessioni. Come quella di Giorgio Massignan, ad esempio. Lui, architetto e urbanista, ha curato il volume che accompagna la mostra realizzata dall’associazione “Verona Off” (di cui fa parte) in collaborazione con il Comune e con la Fondazione Toniolo. «Le periferie rappresentano il luogo-non-luogo, residuo di una non pianificazione del territorio che ha sempre privilegiato gli interessi speculativi all’equilibrio urbanistico della città», dice Massignan. Eccole le periferie ritratte da Denis Giusti, Flavio Castellani, Marco Sempreboni, Mauro Previdi e Stefano Franchini. Periferie notturne o in bianco e nero, dove l’uomo è quasi fisicamente assente ma dove i suoi “effetti” sono ben visibili. Periferie sinonimo di ghetto, periferie dormitorio, periferie degradate e abbandonate. Periferie che diventano “Periferika” e che con quest’azione assumono il significato del riscatto rientrando di diritto nel cuore e negli sguardi della comunità e, perché no?, anche della politica.] Se non fosse per la “serenissima” Venezia, nel Veneto la gloria spetterebbe tutta a Verona. Città d’arte, di storia, di tradizioni e contraddizioni. E’ la città dell’amore (finito male), della musica e dell’Arena. E’ la città del sindaco Tosi (leghista), di un Chievo che si gode l’alta classifica, di un Hellas gloriosa scivolata in B e che è troppo spesso ricordata per certi cori razzisti. Verona è anche una città solidale, capace di grandi progettualità sociali. E così, oggi, sposta la periferia al centro. Letteralmente.
La città inverte canoni, stereotipi, luoghi comuni. Facendo leva sulla sensibilità di fotografi amatoriali lancia una provocazione capace di accendere un riflettore sui territori senza luce. L’occhio che racconta, stavolta, è quello della gente comune. Persone che vivono e conoscono la periferia, artisti invisibili che hanno quei luoghi negli sguardi e nel cuore. Ogni giorno. Fotografi che con i loro scatti riportano l’attenzione sulle periferie abitate ma dimenticate.

Dal progetto culturale (con risvolto sociale) alla mostra, be’, il passo è breve. E così la periferia diventa “Periferika”. Cinque fotografi non professionisti hanno messo in gioco loro stessi e la città offrendo una personale visione della vita al di là del cuore della città (dal 3 al 29 ottobre).

Grazie ai loro occhi e ai loro scatti, stavolta la periferia si posta al centro. La mostra fotografica sarà infatti allestita nella vetrina della Biblioteca Civica in via Cappello. Le foto? Saranno visibili di giorno e di notte, 24 ore su 24. Perché rivolte all’esterno, quindi fruibili “dal di fuori”.

Insomma, per una volta almeno la periferia diventa il centro. E viceversa. Ecco quindi un’esposizione da cui nasce un catalogo da cui nascono riflessioni. Come quella di Giorgio Massignan, ad esempio. Lui, architetto e urbanista, ha curato il volume che accompagna la mostra realizzata dall’associazione “Verona Off” (di cui fa parte) in collaborazione con il Comune e con la Fondazione Toniolo.

«Le periferie rappresentano il luogo-non-luogo, residuo di una non pianificazione del territorio che ha sempre privilegiato gli interessi speculativi all’equilibrio urbanistico della città», dice Massignan.

Eccole le periferie ritratte da Denis Giusti, Flavio Castellani, Marco Sempreboni, Mauro Previdi e Stefano Franchini. Periferie notturne o in bianco e nero, dove l’uomo è quasi fisicamente assente ma dove i suoi “effetti” sono ben visibili. Periferie sinonimo di ghetto, periferie dormitorio, periferie degradate e abbandonate. Periferie che diventano “Periferika” e che con quest’azione assumono il significato del riscatto rientrando di diritto nel cuore e negli sguardi della comunità e, perché no?, anche della politica.

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Non ci sarà smart city senza utilizzo dei dati. Siamo pronti?

I dati saranno l’infrastruttura delle città intelligenti ma privacy e sicurezza ne limitano lo sviluppo. Servono nuove idee e un approccio ‘smart’ per garantire accesso e protezione.
Cos’è che fa funzionare una città? Le sue infrastrutture. Strade, tubature, reti idriche ed elettriche e i sistemi di trasporti. Eliminiamoli e non avremo più una città.
L’accesso ai dati e la capacità di utilizzarli rappresenterà l’infrastruttura fisica dei centri iper-connessi. Una visione di città intelligente, efficiente ed avanguardistica non può esistere senza dati. Ne hanno bisogno i servizi pubblici per migliorare la sicurezza e la qualità della vita dei cittadini così come le società tecnologiche che hanno bisogno di creare interazione e proattività per definire i dispositivi di una città moderna. Le smart city non potranno vivere senza utilizzare i dati eppure questa visione di città improntata a una libera circolazione e messa a disposizione di informazioni che oggi definiremmo private spaventa. Ma se vogliamo evolverci questo è un punto da superare. Ad affrontare l’argomento è Matthew Fawcett in un interessante articolo pubblicato qualche giorno fa su Forbes, con l’obiettivo di far riflettere sulle contraddizioni che stanno immobilizzando l’innovazione e di spronare a fare di più.

Le smart city emergenti utilizzano attualmente i dati i modi nuovi e diversi e con vari gradi di successo. Barcellona, ad esempio, ha dotato i cassonetti pubblici con sensori che misurano il livello di pienezza, rendendo quindi molto più efficiente il servizio di raccolta della nettezza urbana, che interviene solo quando ce ne è bisogno. Questo è chiaramente un esempio di come l’accesso alle informazioni offre solo benefici senza andare ad intaccare la cosiddetta privacy. Altri casi hanno però dimostrato una maggiore controversia. Come il programma di controllo aereo di Baltimora che, pensato per combattere la criminalità, ha dovuto affrontare delle accese reazioni per essere stato istituito senza metterne a conoscenza i viaggiatori.

La grande contraddizione: utilizzo vs protezione dei dati

Tutte le società, sia pubbliche sia private, sono in corsa per poter raccogliere e sfruttare i dati in modi nuovi e creativi e per poter competere nel mondo digitale. Questa situazione crea tensione. Come si può colmare il divario fra la necessità di accedere ai dati e il muro da parte dei cittadini che chiedono privacy, sicurezza e garanzia del rispetto delle leggi vigenti?

La questione, secondo Fawcett, è idiosincratica. Il concetto di ‘personale’ non è chiaro e stride con una realtà in cui pressoché tutti accettiamo di utilizzare la tecnologia e i servizi ad essa legati fornendo i nostri dati ma allo stesso tempo chiediamo una maggiore protezione e controllo sulle modalità con cui questi dati sono raccolti e utilizzati.
I legislatori stanno cercando di mediare e di redigere nuove leggi che garantiscano più protezione ma sembra difficile farlo in un modo che evolve sempre più verso una condivisione. Prendiamo in considerazione la direttiva sulla protezione dei dati dell’UE, che regola la tutela dei dati personali, e sancisce il “diritto all’oblio”. Anche se il concetto è semplice questo diritto si è dimostrato difficile da definire e garantire nella pratica. Una volta che le informazioni sono state diffuse non esiste un pulsante da premere per cancellare tutto con un click.

Protezione dei dati personali, una materia complessa

La verità è che la protezione dei dati personali solleva nuove domande e crea gravi problemi di gestione. Il problema è stratificato. Fawcett lo distingue in tre livelli:

– La Privacy è un problema individuale e sociale. Come possono gli utenti fare in modo che i loro dati non siano senza il loro permesso? La semplice partecipazione al mondo digitale comporta un consenso alla fruizione di alcune informazioni personali?
– La Sicurezza è un problema sia aziendale che governativo. Quali standard devono soddisfare le organizzazioni per proteggere da minacce le informazioni personali di cui dispongono?
– La Sovranità è infine una questione nazionale, il che la rende la più imprevedibile. Quali promesse possono essere fatte ai cittadini? Cosa uno Stato può o non può garantire, anche in base alla legislazione internazionale? Ad esempio quali sono i dati che la Germania considera propriamente tedeschi ai fini della sicurezza nazionale o per altri scopi?

Le città intelligenti chiedono un approccio intelligente alla gestione dei dati

Le smart city faranno fatica a districarsi in queste contraddizioni normative.
“Le leggi- scrive Fawcett- hanno sempre bloccato le innovazioni tecnologiche. Abbiamo costruito strade prima di aver realizzato semafori, corsie e il codice della strada. E’ illegale registrare la voce di una persona senza il suo permesso, ma è legale (nella maggior parte dei casi) registrarne un video Perché? Poiché la tecnologia di registrazione del suono è venuta prima.”
Non servono nuove leggi, secondo Fawcett, ma nuove idee. La sfida di città intelligenti che debbano allo stesso tempo rendere accessibili i dati e proteggere i cittadini a cui appartengono, non può essere affrontata soltanto dai politici o dai tecnici o dalle associazioni dei consumatori. E’ una questione che richiede uno spirito di collaborazione e la messa in campo di abilità e conoscenze diverse. Insomma, le città intelligenti chiedono un approccio altrettanto intelligente alla gestione dei dati.

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