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Francesco Di Bella, in ‘Nuova Gianturco’ tutte le periferie di Napoli

“Dinto ‘o scuro addo’ llate si perdono, lla sicur’ me puo’ truva’.” Con Francesco Di Bella non si sbaglia mai, lo si trova sempre dove gli altri si perdono, ovvero dinto ‘o scuro. A distanza di vent’anni dal suo esordio con i 24 Grana, l’ex leader della band napoletana, ritorna da solista con un album di inediti, Nuova Gianturco (La canzonetta, 2016), con la produzione artistica di Daniele Sinigallia. Dieci tracce tra cui la cover di Brigante se more, capolavoro dei Musica Nova, che porta la firma di Eugenio Bennato e il compianto Carlo D’Angiò, qui rivisitata insieme a Dario Sansone dei Foja e Gnut. “Oltre all’omaggio a due grandi autori volevo sancire, nel disco, questo bel rapporto che si è creato sul palco con Dario e Gnut, basato sulla passione per il folk e il folk rock e questo pezzo mi sembrava adatto, un territorio comune”.

Anticipato dal singolo, Tre nummarielle, il disco mette al centro la periferia “Ca te spezz ‘o core, chin ‘e malincunia dove l’amore non basta”. “La periferia per me – continua Di Bella – è un non luogo dove tutto manca e a disposizione si ha solo immaginazione e forza di volontà e proprio per questo tutto ciò che avviene di bello è ancora più bello”.

Un album intimo e delicato, che racconta i sogni, le delusioni e le speranze di chi vive ai margini dell’impero. Un disco di presenze e di fantasmi, che dall’oscurità escono per raccontare la propria storia. E Di Bella non fa altro che prestare la propria voce a queste ombre diventando ora Aziz, per cantare il dramma degli immigrati insieme ai 99 Posse, ora Gina per raccontare la storia di una donna in fuga dal male dell’anima. E ancora la mancanza di lavoro, il sogno di ‘Na bella vita e la speranza di un Progetto insieme a Neffa, tra i brani più belli del disco e infine a chiudere la dolcissima Guardate fore. Di Bella si riconferma uno dei più originali cantautori italiani, sempre vero, mai banale perché sa che “le cose false non servono.”

A vent’anni dall’esordio con i 24 Grana, Nuova Gianturco è il primo disco di inediti da solista. Quanto ti manca il creare insieme alla band e cosa invece ti piace del lavorare da solo?
Creare è sempre bello, soprattutto avere la possibilità negli anni di migliorare le proprie tecniche compositive. Mi sento fortunato a fare dischi da vent’anni perché ho imparato tanto. Comporre con la band può costituire un limite ma anche un modo per superare i propri limiti, sono entrambe esperienze molto importanti.

Ancora una volta parli dell’emarginazione e cioè di chi vive nell’oscurità materiale, mentale e spesso mediatica. Perché ti affascina questo mondo?
Non saprei, credo che sia un modo per rendermi utile, per mettere la mia passione a disposizione anche di qualcun altro. Il mio obiettivo è sempre stato quello di descrivere le cose più nell’ombra, personaggi, sentimenti, situazioni e di andare contro l’ipocrita innocenza di tanta musica italiana.

Hai impiegato tantissimo per scrivere questo album, com’è nato?
È nato dall’idea che le periferie possono rinascere grazie agli artisti che ne raccontano la vitalità, l’umanità e la voglia di riscatto. Raccontare in positivo un luogo serve a restituire fiducia alla gente che vi abita. Volevo sottolineare l’importanza delle associazioni che operano dal basso e che cercano di ricucire un tessuto sociale lacerato criminalità, indigenza e conflitti interrazziali. Volevo raccontare col sorriso di quanto può essere bella e difficile la vita dove l’amore non basta.

Il disco inevitabilmente riflette i cambiamenti che ci sono stati nella tua vita tra cui due figli. Quanto hanno cambiato la tua vita e di conseguenza influenzato la tua creatività?
I figli cambiano tutto e ti fanno capire tante cose, non c’è da fare altro che assecondare questi cambiamenti e cercare di goderseli. A contatto con il loro mondo la creatività riceve sicuramente un’influenza positiva, bisogna incanalarla nei binari giusti.

Uno dei brani più belli del disco è Progetto dove come ospite compare Neffa, un artista non vicino al tuo mood. Com’è nata questa collaborazione?
Scrivendo il pezzo, sull’isola di Cefalonia ho pensato a lui e alla sua voce distaccata e nostalgica, mi sembrava perfetto. Amo molte sue canzoni, mi è sempre piaciuto e ho sempre apprezzato il suo stile, anche lui viene dai centri sociali e le situazioni di movimento e questa cosa, secondo me, nella sua voce ancora traspare. Inoltre credo che sia un bravissimo autore e produttore e lavorare insieme mi è piaciuto tanto.

Le periferie sono spesso, anche mentali, vere e proprie gabbie in cui si è relegati. Come ci si libera?
Credo che cercare di attivare e dare fiducia ad associazioni e reti di associazioni “dal basso” sia l’unico modo per uscire dall’oscurità. Come è successo a Gianturco con Officina oppure Scampia col Gridas e il Mammuth. Io auspico il sorgere di una nuova periferia più consapevole e indipendente.

In Blues napoletano canti: “Ossaje me piace assaje l’addore ‘e ‘sta città”. Napoli ancora ti ispira, anche se ormai vivi a Salerno con la tua famiglia. Oggi che rapporto hai con Napoli?
In realtà non mi sento emigrato, perché abito a pochi km e ci passo ogni settimana. Mi sento napoletano al cento per cento, coinvolto nel girone infernale della città, per questo ho scritto blues napoletano. L’unica cosa che non posso più fare è scegliere l’amministrazione (mi dice sorridendo).

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La mappatura come strumento di partecipazione

Dalle mappe di comunità alle mappe collaborative
Ponor ergo sum
Nell’esperienza dell’uomo la condizione di avere vita (esistere) è intrinsecamente legata alla condizione di trovarsi in un luogo (stare), dunque lo spazio è l’elemento al tempo stesso contestuale e costitutivo delle azioni umane [Bettanini 1976]. Conseguentemente parlare dell’uomo, e delle associazioni cui egli dà corpo, significa ipso facto parlare dello spazio che ne rende pensabile l’esistenza. Con le parole di Merleau-Ponty, «lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose». [1988, 66]

Questa breve ma densa premessa ci pone in una situazione concettualmente complessa perché lo spazio non è una struttura predefinita, una cornice nella quale gli uomini e la collettività ambientano le proprie azioni, quanto una costruzione sociale dinamica: «La società si organizza – nel senso che ‘prende forma’ – nello spazio e nel fare questo organizza, modifica, dà forma allo spazio stesso» [Bagnasco, 2001]. Pertanto ricostruire il processo di concettualizzazione dello spazio diviene un modo per ricostruire le trasformazioni della stessa idea di mondo [Vidali in Boniolo 1987, 16] e le evoluzioni della società1. Come suggerisce Harvey, non dovremmo più chiederci cosa sia lo spazio in sé — elemento assoluto o relativo o ancora relazionale — ma cercare di comprendere come questo venga concettualizzato rispetto alle differenti human practices che contiene [1973]2.

Se accettiamo la relazione intrinseca tra il concetto di spazio e l’essere, dobbiamo fare lo stesso per quella tra lo spazio e l’azione, perché «[…] non si può avere percezione dello spazio, senza compiervi, vedervi o immaginarvi un fare» [Bettanini 1976, 20].

Del resto, come già indicato da Merleau-Ponty, lo schema corporeo, il nostro stesso modello posturale — un modello dinamico che noi razionalizziamo attraverso i continui mutamenti della nostra posizione, cioè attraverso il costante rapporto con lo spazio circostante — è il requisito della spazialità. È dunque lo spazio orientato ad attribuire senso allo spazio euclideo ed è con il movimento del nostro corpo, attraverso la nostra intenzionalità creativa, che lo spazio prende forma3.

Da tutto ciò consegue un legame profondo, strutturale, tra spazio e percezione, dunque una completa interdipendenza tra individuo e ambiente [Augustoni in Augustoni, Giuntarelli e Veraldi 2007, Giumelli 2008] che ci impone di considerare tutti quei fattori individuali e sociali che concernono l’attività percettiva: la spazialità è esperita mediante i sensi – vista, udito, tatto – e rielaborata attraverso i meccanismi, individuali e collettivi, della memoria e dell’apprendimento che sono essi stessi condizionati da filtri che operano a livello socio-culturale [Bettanini 1976]. Dunque le variabili da considerare in una riflessione teorica sullo spazio sono molteplici e attengono le condizioni socio-economiche e i processi sociali che influiscono sulle relazioni spaziali ma anche — per arrivare all’oggetto di riflessione di questo articolo — sulle modalità di rappresentazione di tali relazioni, cioè sulle capacità dell’individuo di razionalizzare e schematizzare l’esperienza spaziale.
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Da spazio a luogo
La geografia umana pone in primo piano il ruolo della cultura nella costruzione dello spazio e fin dalla sua nascita, alla fine del XIX secolo, si caratterizza per una diversità di approcci: alcuni autori si concentrano sull’analisi dell’attività produttiva/distruttiva del suolo; altri sul tema dell’assoggettamento del mondo naturale; chi, ancora, sul ruolo degli uomini nella formazione dei paesaggi, nell’organizzazione dello spazio e della realizzazione di strutture sulla superficie terrestre.

In generale, nella prima metà del secolo, la prospettiva adottata rimane quella naturalistica, in parte combinata con una prospettiva economicistica. In questo paradigma, lo spazio fisico è quello newtoniano, un’entità esistente di per sé, indipendentemente dalla materia in essa contenuta, un contenitore definibile attraverso il sistema di coordinate cartesiane, al cui interno ciascun oggetto occupa una posizione «assoluta, perché definita da un unico sistema di riferimento, valido per tutti i punti dello spazio, e, di conseguenza, anche unica, poiché due oggetti fisici non possono occupare lo stesso punto […]» [Vagaggini e Dematteis 1976, 117]. Ne consegue che l’unico criterio di classificazione può essere quello spaziale (ogni altro criterio farebbe riferimento alle caratteristiche intrinseche degli oggetti) dunque, l’unità di analisi è necessariamente la regione e il metodo proposto quello idiografico. Ma poiché la delimitazione stessa della regione deve di fatto tener conto delle proprietà dei fenomeni che la caratterizzano – che, per loro stessa natura, sono entità spaziali relative4 – si genera un paradosso metodologico che porta alla messa in discussione del paradigma positivista.

A partire dai tardi anni ’40 si assiste ad un radicale cambiamento di prospettiva: l’attenzione dei geografi si rivolge adesso verso la fisiologia degli eventi, il meccanismo di funzionamento, e la possibilità di prevedere le modificazioni future a partire dalla condizione attuale. L’intento della geografia analitico-quantitativa che si svilupperà nei due decenni successivi è quello di trasformare la geografia in una scienza nomotetica [ivi]. L’attenzione ai fenomeni e alle conseguenze spaziali da essi derivanti non è compatibile con l’idea di spazio newtoniana: «[…] il passaggio dallo spazio assoluto allo spazio relativo comporta veramente una “rivoluzione” sul piano concettuale: lo studio delle peculiarità locali (l’unicità), che era l’oggetto principale della geografia tradizionale diventa qui un aspetto secondario, di cui il geografo in quanto scienziato non dovrebbe neppure occuparsi, mentre il suo interesse deve prima fissarsi sulle proprietà intrinseche dei fenomeni, per derivare da esse le strutture spaziali relative, conseguenti.» [ivi, 119]. Importante corollario di questo passaggio è la multidimensionalità che va a caratterizzare il concetto di distanza: alla distanza fisica si affiancano, e spesso prevalgono, quella economica e quella sociale.

La centralità dei processi, tuttavia, crea dei problemi teorici e metodologici che, come nella fase precedente, porteranno alla crisi del paradigma. Innanzitutto, se a partire dal processo si può determinare una forma, non sempre dalla forma è possibile risalire al processo: «[…] processi di natura diversa possono produrre forme che hanno proprietà geometriche identiche. Non esiste cioè sempre un rapporto biunivoco tra processi e forme, così che la conoscenza geografica delle forme non contiene sempre informazioni univoche sulla natura dei fenomeni che le hanno prodotte. Viene così a mancare la necessaria corrispondenza tra la teoria geografica e l’ambito fenomenico a cui essa di applica.» [ivi, 125]. Inoltre i geografi sono costretti a una sorta di finzione [ivi, 127], a mettere, cioè, sullo stesso piano i fenomeni naturali e quelli sociali, trattandoli come oggettivi e considerando come date e immutabili alcune forme di organizzazione sociale. Questo da un lato inficia la validità delle leggi formulate, dall’altro porta ad ignorare la dimensione storica dei processi. A tutto ciò si aggiunge una sorta di frustrazione, dovuta al mantenimento di una concezione deterministica del ruolo dell’uomo, considerato come una pedina nell’ambito di un sistema. La reazione è quella di teorizzare un relativismo totale per cui, potenzialmente, esistono tanti tipi di spazio quanti sono gli individui per cui diviene di fatto impossibile analizzare tutto ciò che va oltre il comportamento micro-spaziale.

Negli anni ’70, l’analisi dialettica di impronta marxista mette al centro le regole di trasformazione interne al sistema, una struttura dinamica il cui mutamento costante è determinato dalle relazioni, spesso conflittuali, tra le sue diverse componenti. La nuova prospettiva mette ovviamente in discussione il concetto di spazio, che in quanto prodotto dell’attività umana — quindi risultato dei rapporti sociali di produzione — può essere, di volta in volta o contemporaneamente, assoluto, relativo e relazionale:

Le relazioni sociali che si riassumono nel diritto di produzione del suolo “producono” un tipo di spazio assoluto in quanto attribuiscono al proprietario una posizione di monopolio su una parte della superficie terrestre e quindi sulle sue caratteristiche “uniche” […]. Nello stesso tempo i fenomeni di circolazione (di merci, persone, idee, ecc.) che collegano queste varie posizioni assolute, producono spazi relativi, in quanto implicano il superamento di distanze misurabili in modi diversi a seconda del tipo di interazione (tempo, costo, interazione sociale, ecc.). A loro volta questi fenomeni creano tra gli oggetti che essi collegano una trama di posizioni relative, le cui relazioni reciproche definiscono un sistema di valori dello spazio descrivibili in termini di spazio relazionale. [ivi, 134].

Ma anche la prospettiva marxista, legata quasi esclusivamente alla dimensione economica, mostra presto i limiti di un approccio eccessivamente ideologico e astratto per cogliere la complessità dello spazio5.

In questo contesto negli anni ’70 e ’80 si sviluppa la geografia umanista, che trova in Hi Fu Tuan uno dei suoi esponenti principale, e che mette al centro gli aspetti psicologici e sociali del rapporto tra uomo e ambiente, la sfera della percezione e dello spazio vissuto, i processi di rappresentazione: «Il paradigma centrale di questa prospettiva epistemologica resta il concetto di spazio, ma accanto ad esso acquista una rilevanza particolare l’idea di “luogo”. I luoghi si profilano come realtà spaziali investite dei valori emotivi, delle aspettative, delle esperienze e delle tradizioni che gli esseri umani attribuiscono loro e che scaturiscono da un lungo processo storico-culturale.» [Ibidem]. Ecco quindi che la sensibilità di carattere fenomenologico si completa con l’attenzione al linguaggio come strumento di narrazione e rappresentazione che permette all’uomo di costruire cognitivamente l’esperienza di abitare — essere e fare — lo spazio.
L’immagine del mondo
L’origine della cartografia è praticamente sovrapponibile a quella degli insediamenti umani: «Il bisogno di rappresentare lo spazio e di tracciare mappe di aree del territorio è probabilmente nato in coincidenza con il bisogno dell’uomo di adattare l’ambiente naturale per creare siti idonei alla propria sopravvivenza e all’insediamento delle attività di base: ripararsi dalle intemperie, ricoverare il bestiame, delimitare il proprio territorio etc.» [Fistola, 2008, 35].

La carta, uno dei dispositivi più potenti in mano all’uomo per conoscere il mondo, è anche da sempre un potente strumento per controllarlo, tanto che il suo sviluppo prima tecnico e poi tecnologico è intrinsecamente connesso alle dinamiche della storia geopolitica internazionale6 ed esprimendo il mutamento degli insediamenti — ed in particolare i confini degli Stati — si carica necessariamente di una forte valenza politica: «Attraverso la rappresentazione cartografica lo spazio diviene “verità della storia”, per cui la carta non è strumento neutro (Mari 2001), non ha un significato di mero arricchimento illustrativo, ma precisa e scandisce il tempo storico con i suoi valori culturali.» [Galluccio in Trucchio 2011, 102]. Per quanto ciò possa apparire palese, tra il XVIII e XIX secolo, nel corso del processo di istituzionalizzazione dei saperi in scienze, si è assistito ad una sostanziale espulsione della dimensione del politico dalla riflessione geografica [ivi, 105]. È solo negli anni ‘70 del novecento, nell’ambito della profonda riflessione epistemologica interna alla disciplina geografica, che è stata (ri)affermata la natura intrinsecamente politica della cartografia. Una consapevolezza che si è progressivamente sviluppata nel decennio successivo in quel movimento conosciuto come critical cartography7 e che ha portato alla negazione della natura value-free della cartografia — in precedenza ritenuto documento scientifico quindi oggettivo — per affermarne invece la natura intenzionalmente progettuale: «Ogni carta è innanzitutto un progetto sul mondo, come l’ambivalenza del vocabolo anglosassone plan ancora certifica, e il progetto di ogni carta è quello di trasformare — giocando d’anticipo, cioè precedendo — la faccia della terra a propria immagine e somiglianza.» [Farinelli 1992, 77].

Contemporaneamente, alcune evoluzioni tecnologiche nell’ambito dell’acquisizione, della gestione e dell’analisi dei dati informativi danno il via a quella che in pochi decenni si dimostrerà una vera e propria rivoluzione della costruzione/diffusione dell’informazione geografica. Si assiste da un lato alla costruzione del sistema di rilevazione satellitare — con il lancio dei satelliti per la rilevazione di dati naturali e culturali in orbita terrestre e lo sviluppo del sistema di comunicazione tra questi e le postazioni terrestri (GPS – Global Positioning System) — e dall’altro allo sviluppo un sistema informatico formato da software e hardware progettato per la memorizzazione e la processazione dei dati geografici in modalità grafica e analitica (GIS – Geographical Information System), un sistema quindi che funziona simultaneamente come telescopio, microscopio, computer e macchina fotocopiatrice per l’analisi e la sintesi dei dati spaziali [Abler 1988, 137]. Questo sviluppo è, come abbiamo anticipato, rapido e incalzante perché è supportato sia da una base tecnica-tecnologica resa possibile dal progresso della geografia quantitativa nelle tecniche di analisi statistica dei dati, sia da una spinta economico-commerciale che risiede nelle molteplici possibilità applicative dei nuovi dati multidimensionali prodotti dai GIS [Maguire, 1990]. Fin dai primi esperimenti negli anni’60, il computer mapping si sviluppa sia nell’ambito della ricerca militare che nell’ambito accademico che, ancora, nel settore del business. I decenni successivi sono un momento di grande vivacità tecnologica, che portano alla commercializzazione sempre più pervasiva dei personal computer e di pari passo allo sviluppo e alla commercializzazione degli operatori CAD e GIS. Ma la vera svolta nel settore del GEO ICT è resa possibile dalla liberalizzazione operata dal Governo Statunitense di Clinton nel maggio del 2000, del segnale in alta qualità del GPS che, sviluppato per usi militari negli anni ’80, era stato fino ad allora disponibile per uso civile solo in una versione degradata. La nuova accessibilità dei dati apre la grande stagione del web mapping: nel 2005 Google lancia le piattaforme Google Maps e Google Earth destinate in pochi anni a registrare milioni di utenti. In quello stesso momento, l’Unione Europea inizia un percorso di approfondimento e consultazione pubblica che porta, nel maggio del 2007, all’approvazione della direttiva INSPIRE – Infrastructure for Spatial Information in The Europea Community con lo scopo di facilitare l’utilizzo delle informazioni spaziali nei processi di policy making dei diversi settori.

Si assiste progressivamente ad una sostanziale democratizzazione, sia in termini tecnici che in termini politici, del sistema di produzione e accessibilità dei dati geografici, un fenomeno che amplia esponenzialmente e a livello globale le potenzialità delle esperienze di partecipazione che proprio negli stessi anni stanno iniziando a diffondersi.

La mappa come strumento di partecipazione

A partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, anche sull’onda della grande risonanza mediatica dell’esperienza del Bilancio partecipativo di Porto Alegre (iniziata nel 1989), si è assistito al proliferare di «esperienze che hanno visto l’impegno di singoli, associazioni, cooperative sociali intorno alle poste più varie» [Laino in Poli 2007, 45], e comunque spesso su temi strettamente connessi al territorio.
Così come, da un lato, si crea un movimento di impegno civico e politico sui temi sociali connessi alla mondializzazione — commercio equo e solidale, campagne internazionali per il rispetto dei diritti umani, campagne di sensibilizzazione sui temi ambientali — dall’altro si diffondono esperienze di partecipazione su scala locale (urbana e micro urbana): «Tralasciando i luoghi consueti della politica, tante persone hanno scelto l’impegno in pratiche territoriali che davano un senso di concretezza, possibile appartenenza, identificazioni collettive per quanto parziali, effettiva sperimentazione di interazioni dirette, anche con amministratori, responsabili del governo di spazi pubblici (Paba 1998, Rossi Doria 1999).» [ibidem].

È questo un campo di valori che tende a definire un nuovo modello di sviluppo, lo sviluppo locale autosostenibile: «Si tratta in questo caso di riconoscere la capacità di una comunità locale di definire criteri e metodi di sviluppo strettamente riferiti alle sue risorse (fisiche: la dotazione ambientale; e culturali: i modi di vita che tradizionalmente mettono efficacemente al lavoro la dotazione ambientale).» [Giusti 2002, 23]. In questa cornice politica e civica si assiste alla diffusione della pratica del community mapping, un insieme di tecniche di rappresentazione cartografica orientate alla rilevazione della percezione che gli abitanti hanno rispetto al territorio in cui vivono e, a partire da questa, la costruzione di una progettualità comunitaria che si vada ad integrare con quella dei progettisti.

Già negli anni 60, l’urbanista statunitense Kevin Lynch studiava la tecnica proiettiva per indagare il problema sociologico della percezione dello spazio urbano da parte dei suoi abitanti [1960] elaborando la tecnica delle mappe mentali «una serie di trasformazioni psicologiche tramite le quali un individuo acquisisce, codifica, registra, richiama e decodifica le informazioni sulle posizioni e le caratteristiche dei fenomeni nell’ambiente fisico» [Down e Stea 1973, 9].
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La realizzazione delle mappe si è poi sviluppata come tecnica di partecipazione comunitaria negli anni ‘80 in alcune esperienze di cooperazione in America latina — le cosiddette mappe del rischio — per poi essere promossa, nel decennio successivo, come metodologia dall’International Council for Local Environmental Initiatives di Toronto nell’ambito dell’iniziativa AGENDA 21 lanciata nel 1992 dalle Nazioni Unite a Rio in occasione del summit “Earth”. Questa famiglia di tecniche finalizzate a «promuovere il ruolo degli abitanti nella costruzione di mappe in grado di rappresentare, attraverso tecniche in genere a debole formalizzazione, in maniera comunicabile e significativa il proprio spazio vissuto» [Fanfani in Magnaghi 2005, 411] si sono poi diffuse nel mondo anglosassone, alla fine degli anni ’90, con l’esperienza del common ground e le parish map sviluppate in centinaia di villaggi scozzesi per le quali «si sono mobilitati gruppi di abitanti con gli animatori, gli artisti locali, gli storici, gli studenti per costruire mappe del loro territorio che rappresentano, in forme artistiche e simboliche con la raccolta di materiali testuali, grafici e cartografici, i valori identitari durevoli del territorio della comunità.» [Magnaghi in Paba e Perrone 2010, 75]. La metodologia arriva quindi in Italia all’inizio degli anni 2000 — in particolare nelle regioni Piemonte, Puglia e Toscana — all’interno dell’esperienza degli ecomusei, luoghi della comunità dedicati alla costruzione, conservazione e valorizzazione del patrimonio identitario per poi trovare applicazione nell’ambito della pianificazione partecipata [ibidem].

Le mappe di comunità cui si fa qui riferimento sono prodotti grafici che sovrappongono vari codici comunicativi — immagini cartografiche, fotografie, testi, illustrazioni — e che proprio per questo somigliano alle carte premoderne: «Fondandosi su meccanismi linguistici che producevano immagini mentali, la geografia e la cartografia premoderne utilizzavano infatti le informazioni, i particolari, i dettagli descrittivi, i segni indicali, le descrizioni (cioè tutto l’apparato di segni che consente il collegamento con il mondo reale) prevalentemente come strumenti retorici, cioè come immagini emotivamente efficaci per colpire l’attenzione e radicarsi nella memoria.» [Mangani 2006, 14-15].

Il successo di questa tecnica è dovuto al fatto che l’auto-rappresentazione dell’ambiente di vita — che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, produce un effetto di riappropriazione e auto-produzione dello stesso — permette agli individui di gestire una complessità territoriale e sociale sempre maggiore, quindi di partecipare attivamente e con competenza alla progettazione del territorio.

Dal community mapping al crowdmapping

Nello stesso periodo, la metà degli anni ’90, fiorisce il dibattito accademico sul PPGIS – Public Participatory Geographic Information System, l’insieme di approcci e pratiche che rendono il GIS uno strumento disponibile e accessibile a tutti coloro che hanno interesse a prendere parte ai processi di decision making [Schroeder 1996]. L’acronimo PPGIS viene utilizzato per la prima volta nel 1996, durante le assemblee del NCGIA – National Center for Geographic Information and Analysis, un consorzio di ricerca indipendente interuniversitario (University of California, University at Buffalo, University of Maine) dedicato alla ricerca e all’educazione sulla scienza dell’informazione geografica e alle tecnologie da questa impiegate. Partendo dalla constatazione che lo sviluppo di applicazioni GIS — GIS di nuova generazione — si è orientato sempre più verso l’inclusività e la possibilità di dare spazio alle voci non ufficiali nel processo del processo di policy making, la definizione di PPGIS emersa in questa sede si concentra sugli approcci pratiche di utilizzo pubblico del GIS che permettono di aumentare la trasparenza e influenzare le politiche pubbliche [Sieber 2006].

Il dibattito sul PPGIS, può essere considerato parte del più ampio filone del Critical GIS che comprende la ricerca sugli effetti sociali di questa nuova pratica — come il tema della geosorveglianza — sui processi sociali che possono o meno essere modellati attraverso questa insieme di strumenti — come il rapporto tra il genere e il movimento nello spazio — e sulle implicazioni metodologiche, ontologiche e epistemologiche della nuova scienza — accessibilità e appropriatezza dei dati, sostenibilità, monitoraggio e valutazione dei processi che vedono l’utilizzo di questo sistema [ivi].

La letteratura in proposito, si divide tra chi considera le potenzialità in termini di inclusività e partecipazione della diffusione della neogeografia8 e chi al contrario ne sottolinea le derive positiviste — per la possibilità di ridurre la complessità delle dinamiche sociali ad un sistema di punti, linee, aree e attributi — e capitaliste — per la possibilità di controllo molto pervasivo che si generano attraverso la georeferenziazione.

Dal punto di vista epistemologico, è interessante la riflessione sul «[…] cosiddetto Philosophical Divide fra l’ambito della geografa “umanistica” e quello del GIS. La prima, aderendo in larga parte allo stesso presupposto post-strutturalista di Harley, tende ad anteporre all’ontologia l’epistemologia: in breve, prima di decidere cosa conoscere, bisogna definire i presupposti della conoscenza. L’ambito delle tecnologie, invece, è più centrato sull’ontologia, nel senso che tende a stabilire lo statuto dei suoi oggetti prima del proprio.» Ferretti [in Bonora 2011, 250]9.

In questa rassegna non può mancare il riferimento a Goodchild che, semplicemente constatando la nascita del VGI, voluntereed geographic information — «In recent months there has been an explosion of interest in using the Web to create, assemble, and disseminate geographic information provided voluntarily by individuals» questo l’incipit con cui Goodchild [2007, 211] — offre una riflessione sul ruolo della geografia amatoriale come nuovo fenomeno di citizen scienze.

Il geografo statunitense ripercorre le tappe che in 15 anni, a partire dal 1992 con il lancio del primo browser quindi della prima porta di accesso al web, hanno portato milioni di persone non solo a partecipare alla costruzione web 2.0 aderendo al fenomeno Blogs and Wikis [ivi, 215] — dunque creare contenuti o editare contenuti creati dagli altri — ma anche ad autoproporsi citizen as sensors e fornire volontariamente informazioni geografiche su piattaforme collaborative. Oltre ad analizzare le innovazioni tecnologiche che hanno reso possibile la diffusione della pratica VGI — la creazione di strumenti intellegibili per identificare e codificare le coordinate spaziali dei luoghi, gli sviluppi grafici che permettono la visualizzazione dinamica di oggetti tridimensionali, la diffusione esponenziale del GPS nei dispositivi mobili e della banda larga — Goodchild si pone alcuni interrogativi chiave non solo circa le implicazioni metodologiche e epistemologiche del fenomeno, ma anche (più interessante ai fini di questa analisi) circa l’aspetto motivazionale che sottende il fenomeno e che è quello qui più rilevante. La domanda è semplice e diretta: cosa spinge così tante persone a impiegare parte del proprio tempo per creare questo tipo di contenuti senza un incentivo materiale? Se il fenomeno dei blogs e dei social networks può trovare parte della spiegazione del suo successo nel meccanismo di autopromozione, i progetti di crowdmapping sono essenzialmente anonimi e si nutrono della soddisfazione personale che l’utente riceve nel vedere il proprio contributo andare a far parte del patchwork10 che progressivamente cresce in termini di ampiezza e dettaglio [ivi, 219].

Paradigmatiche da questo punto di vista sono alcune piattaforme pionieristiche, ma ancora oggi tra le più utilizzate per il crowdmapping: Open street map, una piattaforma fondata nel 2004 che è diventata un’enorme comunità di mappatori volontari; wikimapia, un progetto fondato nel 2006 consistente in una mappa web che combina le caratteristiche di Google Maps e Wiki, permettendo agli utenti di aggiungere informazioni sotto forma di nota su qualsiasi località del mondo [wikipedia]; Ushahidi — in Swahili “testimonianza” — una piattaforma sviluppata da un’organizzazione no profit Keniota dopo le violenze legate alle elezioni presidenziali del 2008, che si basa su un software opensource che permette agli utenti di costruire mash up finalizzati a raccogliere informazioni georeferenziate su vari temi di attivismo sociale11.

Il crowdmapping — che in queste piattaforme chiede l’impegno attivo dell’utente — è divenuto pratica quotidiana di massa (anche se non sempre consapevole) grazie alla diffusione dei social network che hanno implementato la georeferenziazione come una delle opzioni di base nella pubblicazione di post di testo e immagini.

L’enorme disponibilità di dati volontariamente georeferenziati ha incentivato l’utilizzo degli stessi in processi collaborativi che vanno oltre quelli della prima diffusione della neogeografia (cooperazione, copianificazione, resilienza) e riguardano tutti gli aspetti pregnanti della vita quotidiana individuale e collettiva (viaggiare, spostarsi, mangiare, trovare alloggio etc…) spostando in parte la riflessione dall’ambito della sharing knowledge a quello della sharing e della pooling economy.

Conclusioni

Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che negli anni ‘90 del secolo scorso si è assistito alla diffusione da un lato delle esperienze di attivazione dei cittadini non più (solo) nei movimenti politici o di protesta, come era stato nei decenni precedenti, ma anche (e soprattutto) in processi partecipativi finalizzati alla pianificazione del territorio e, dall’altro, di tecnologie e strumenti sempre più user friendly e accessibili di mappatura dello stesso. E abbiamo visto altresì come la partecipazione dei cittadini soprattutto nell’ambito di temi ad alta spazialità come la gestione e progettazione del territorio sia facilitata dalle tecniche di mapping. Abbiamo infine esaminato attraverso gli sviluppi del VGI la crescita esponenziale a livello globale dell’attivazione degli user-citizen in progetti di crowdmapping finalizzati o, in modo generico, alla realizzazione di una mappa collettiva quanto più possibile ampia e dettagliata del globo terrestre o, in modo più specifico, alla georeferenziazione di questioni politicamente rilevanti.

Vogliamo concludere non con una tesi, quanto con un’ipotesi: la possibilità, eventualmente verificabile nei prossimi anni, che proprio la disponibilità delle tecnologie sopra analizzate rappresenti una sorta di fonte di energia rinnovabile che, in un periodo di forte crisi delle fonti energetiche tradizionali – la partecipazione politica e la crisi della rappresentanza – stimoli la rigenerazione di processi di cittadinanza attiva. Si assiste infatti negli ultimi anni, quanto meno nell’Europa continentale, alla diffusione di processi di coinvolgimento della cittadinanza finalizzati a individuare e implementare pratiche collaborative per la gestione collettiva dei commons, beni comuni materiali e immateriali. È un cambiamento sostanziale nell’ambito ormai definibile come tradizionale della partecipazione dei cittadini che coincide con il passo che si compie dal prendere parte all’essere parte. Nella cornice della collaborazione cambia profondamente la dinamica e la direzione del coinvolgimento: non è più un rapporto unidirezionale tra pubblica amministrazione che ascolta e società civile che si esprime, ma un rapporto circolare in cui amministratori, cittadini, studiosi e imprenditori sono partner di un processo di design o re-design di soluzioni innovative e smart di un territorio sempre più complesso. Le applicazioni del GIS permettono infatti al tempo stesso di coinvolgere e mettere in rete i cittadini/utenti in un processo collaborativo di VGI, usufruire di piattaforme web accessibili e facili da utilizzare per mappare i commons creando, attraverso il mash up, schede di analisi multimediali e restituire le segnalazioni geolocalizzate e facilitare quindi interventi integrati di rigenerazione o innovazione.

Note

1. Foucault [1984] individua tre momenti storici dello spazio: nel Medioevo lo spazio è un insieme gerarchizzato di luoghi, uno spazio di localizzazione; l’avvento della modernità, con le scoperte geografiche, i nuovi mezzi di trasporto e le innovazioni tecnologiche, porta con sé uno spazio di estensione; la contemporaneità è caratterizzata invece dalla dislocazione, attraverso cui «si stabiliscono relazioni tra punti differenti e lontani, nessun luogo esiste per se stesso ma solo in relazione ad un altro, e ogni luogo può essere dislocato, aperto e interconnesso.» [Tumminelli 2010, 32].

2 Il geografo, sociologo e politologo britannico individua nell’ambito urbano un esempio della simultaneità delle differenti concettualizzazioni dello spazio: la città in sé, con la forma che assume in un determinato momento, può essere considerato lo spazio assoluto; il processo di urbanizzazione che la costruisce, sostiene e talvolta dissolve è lo spazio relativo; l’insieme di relazioni – materiali e discorsive – vissute nello spazio-tempo è lo spazio relazionale [Harvey 2004].

3 Se ne trova conferma pratica nel fatto che le unità di misura primitive hanno a che fare con parti del corpo o con oggetti comuni usati nella vita di tutti i giorni [Tuan in Vagaggini 1978].

4 «[…] una regione collinare deve terminare dove finiscono le colline, una regione industriale non può estendersi a un’area puramente agricola, anche se questa è contigua, ecc. […] Dire che i limiti di una regione variano a seconda dei fenomeni considerati, significa affermare che le divisioni possibili dello spazio sono infinite, che non esistono entità spaziali assolute, ma solo relative; che quindi le proprietà dello spazio sono relative alle proprietà dei fenomeni studiati; che lo spazio di cui si occupa la geografia non è uno spazio assoluto, ma uno spazio relativo.» [Vagaggini e Dematteis 1976, 118]

5 «Se all’impostazione neopositivista era lecito rimproverare un’attenzione eccessiva riservata agli aspetti formali, mutuati dalla fisica e non sempre adattabili senza forzature ad altri campi d’indagine, la soluzione prospettata dalla geografia marxista era chiaramente limitata dall’eccessivo conformismo ideologico e dalla scarsa attenzione verso tutti gli aspetti della realtà che sfuggivano all’ambito esclusivo della prospettiva socio-economica. La ricchezza della tradizione geografica risultava, in entrambi i casi, gravemente limitata in nome di un’astratta metodologia che lasciava poco spazio alla pluralità delle indagini offerte dalla complessità delle relazioni tra il genere umano e lo spazio terrestre.» [Ciardi 2013, 146]

6 Come sottolinea Schmitt, è la scoperta dell’America a generare i primi tentativi di suddividere la terra partendo da una visione geografica complessiva e secondo regole internazionali [1950] e infatti proprio nel XV secolo si assiste alla riscoperta e rilettura della geografia di Tolomeo e della sua griglia di coordinate basate su meridiani e paralleli all’interno di una «strutturazione “euclidea” dello spazio mondiale, finalizzata al suo dominio da parte degli europei. “L’applicazione di questo modello alle politiche imperialistiche ha proseguito almeno fino al XIX secolo, con la spartizione geometrica dell’Africa fra le potenze coloniali, e in alcuni casi fino al XX» [Ferretti 2007].

7 Si fa qui riferimento agli studi di Wood e Fels 1986; Harley e Woodward 1987; Harley 1988, 1989, of 1991; Rundstrom 1990; Pickles 1991, 1995; Wood 1992; Turnbull 1993; Aberley’s 1993.

8 Con questo termine si fa riferimento a tutte quelle applicazioni GIS in cui tende si assottiglia (o sparisce) il confine tra produttori e utenti : «Neogeography is one term that has emerged to describe a set of Web 2.0 techniques and toolls that fall outside the realm of traditional, proprietary GIS such ArcGIS. Neogeography is bringing traditional cartographic GIS skills to the masses» [Schuurman, 2009, 571].

9 Ferretti fa qui riferimento al contributo di Agnieszka Leszczynski «It is in this way that I argue that critical-theoretic geography and GIScience are separated by a trenchant philosophical divide that involves competing metaphysical conditions under which commitments to particular conceptions of the world are expressed» [Leszczynski, 2009, 360].

10 «Among the many concepts introduced in the report was that of patchwork, the notion that national mapping agencies should no longer attempt to provide uniform coverage of the entire extent of the country, but instead should provide the standards and protocols under which numerous groups and individuals might create a composite coverage that would vary in scale and currency depending on need.» [Goodchild 2007, 217]

11 «L’organizzazione usa il paradigma di crowdsourcing rivolto all’attivismo sociale e alla responsabilità pubblica, servendo come modello iniziale per quello che è stato coniato come ‘activist mapping’, ovvero la combinazione di attivismo sociale, citizen journalism e informazione geospaziale. Ushahidi offre degli strumenti che permettono agli osservatori locali di inviare informazioni usando i loro telefoni cellulari o internet creando un archivio temporale e geospaziale degli eventi. » [wikipedia]

Bibliografia
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Riqualificazione delle periferie delle Città Metropolitane.

Lavora il nominato Nucleo di valutazione dei progetti.
Dopo il decreto del segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il quale si è proceduto alla costituzione del Nucleo per la valutazione dei progetti per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie (in base al bando nazionale emesso il 3 Giugno 2016), si attende ora che si proceda speditamente per la valutazione delle proposte da finanziare.

Il Nucleo è composto dal segretario generale della Presidenza del Consiglio Paolo Aquilanti, che svolge le funzioni di presidente, e da sei esperti di particolare qualificazione professionale: – ing. Michele Brigante, designato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome; – dott.ssa Veronica Nicotra, segretario generale dell’ANCI, designata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI);
– prof. Fabio Pammolli, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese presso la Scuola Superiore Universitaria IMT Alti Studi Lucca;
– prof.ssa Laura Ricci, direttore del Dipartimento di Pianificazione design tecnologia dell’architettura della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma La Sapienza;
– consigliere Ferruccio Sepe, dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
– arch. Elisabetta Fabbri – conosciuta a livello governativo per vari e importanti lavori pubblici e nel particolare settore dei Beni Culturali.

Nella prima riunione il Nucleo ha definito (stando alle notizie di stampa) le proprie modalità di funzionamento nonché ulteriori criteri di valutazione dei progetti rispetto a quelli di base indicati nel bando allegato al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che ponevano in primo piano i requisiti della tempestività ed esecutività degli interventi, della capacità di attivare sinergie fra finanziamenti pubblici e privati, della fattibilità economica e finanziaria e della coerenza interna del progetto.

Come si ricorderà, il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia menziona, nel relativo Bando, i seguenti obiettivi:
– realizzazione di interventi urgenti per la rigenerazione delle aree urbane degradate;
– l’accrescimento della sicurezza territoriale;
– il potenziamento della mobilità sostenibile;
– lo sviluppo di pratiche di inclusione sociale;
– l’adeguamento delle infrastrutture destinate ai servizi sociali, culturali, educativi e didattici.

Dopo le valutazioni del Nucleo saranno successivamente proclamati i vincitori e verranno sottoscritti gli accordi di programma o convenzioni con gli stessi Enti presentatori dei progetti e saranno definiti i tempi e le modalità di realizzazione degli interventi.

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Roma, la rivoluzione Raggi cancella l’ufficio periferie

Riorganizzazione in vista: nascono i nuovi dipartimenti al Turismo e allo Sport, soppresso quello per le borgate.

«Ci apprestiamo a fare quello che nessuno ha mai fatto prima», rivendica con orgoglio Virginia Raggi, annunciando «la riforma della macchina amministrativa » studiata «per garantire, come avevamo promesso, un’organizzazione del Comune di Roma più efficace, in grado di offrire ai cittadini servizi efficienti e di qualità». E come primo atto sopprime il “Dipartimento Politiche delle periferie, sviluppo locale, formazione e lavoro” — creato dalla giunta Veltroni per dare un segnale forte ai quartieri di cintura, proprio là dove il M5s ha fatto il pieno di voti — distribuendo le varie funzioni sotto due assessorati diversi. Una decisione che neppure Alemanno aveva mai osato prendere.

Non è l’unica novità nel riassetto prefigurato dalla Raggi. Intanto perché tutti i sindaci che l’hanno preceduta, da ultimo Ignazio Marino, hanno varato a pochi mesi dall’insediamento «il riordino delle strutture capitoline ». Che però stavolta, sostiene l’avvocata grillina, «valorizzerà merito, trasparenza, produttività, producendo innovazione e risparmi». Come? Attraverso la procedura dell’interpello: in sostanza, qualunque dipendente ritenga di possedere i requisiti per dirigere un ufficio o un dipartimento, «avrà la possibilità di proporsi per ricoprire gli incarichi da assegnare e sarà quindi scelto in base al proprio curriculum e alle proprie motivazioni». Ma alla fine a individuare il “vincitore” fra i concorrenti in lizza, sarà comunque la sindaca, a sua completa discrezione.

Ma c’è di più: le “Modifiche al Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi di Roma Capitale”, che Repubblica è in grado di anticipare, introducono alcuni cambiamenti eclatanti. Con la nota inviata ai sindacati da Raffaele Marra, il capo del personale che per conto di Raggi sta mettendo a punto la macrostruttura comunale, non solo si cancella il Dipartimento periferie, che verrà smembrato tra l’ Urbanistica e «l’istituendo Dipartimento turismo – formazione e lavoro», ma pure l’Ufficio città storica, finora governato dall’Urbanistica, viene diviso in due e passa in parte alla Sovrintendenza capitolina, in parte ai Lavori pubblici.

In compenso vengono create tre nuove strutture di vertice, con relativa dotazione dirigenziale: il Dipartimento turismo, di cui s’è già detto; il Dipartimento sport e politiche giovanili, che nasce nonostante il no alle Olimpiadi; soprattutto i Mercati all’ingrosso, destinati a riunire in una «struttura autonoma » il Centro carni, il Centro fiori e le aziende agricole, tutti avviati dalla giunta Marino alla dismissione. La prova dello stop impresso dalla Raggi alla vendita delle partecipazioni non strategiche del Campidoglio. Nonostante il Centro carni perda circa 2 milioni l’anno; il Centro fiori 700mila euro; le
aziende agricole più o meno altrettanto.

Ma la sindaca va avanti. «È pronta, e a breve approderà in giunta, la modifica della macrostruttura per l’allineamento della stessa alle deleghe assessorili », conclude la sindaca.
«Lo scopo è individuare la migliore professionalità disponibile nell’ambito dell’amministrazione capitolina». L’importante è tenersi buoni i 23mila dipendenti comunali.

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Costruire un progetto condiviso per la città

Si è aperto mercoledì 5 ottobre, con un incontro che è solo il primo di una lunga serie, il confronto sulle criticità e le opportunità del territorio tra i Presidenti dei Municipi, i loro assessori all’Urbanistica e ai Lavori pubblici e l’assessore all’Urbanistica e Infrastrutture di Roma Capitale Paolo Berdini.
Due le tematiche su cui impegnare l’amministrazione del territorio individuate dall’assessore Berdini: il completamento delle duecento convenzioni urbanistiche in essere, la verifica delle criticità e l’ultimazione dei Piani di Zona del secondo PEEP. Lavorando, nel frattempo, a un progetto condiviso per la città imperniato su tre obiettivi di fondo: riavvicinare le periferie fra di loro e al centro mediante una rete di trasporto pubblico su ferro con la realizzazione di nuove linee tranviarie, recuperare e destinare a nuovo uso gli spazi abbandonati —come ad esempio il Forlanini, il Santa Maria della Pietà, il San Giacomo— rivedere il protocollo di intesa con Ferrovie e chiudere, finalmente, l’Anello ferroviario.
L’assessore ha poi sottolineato la necessità di promuovere sinergie tra pubblico e privato per creare nuove opportunità di crescita e valorizzazione, come per esempio la realizzazione di una Città della Scienza nei terreni già espropriati a Tor Vergata, un polo di ricerca e di studio da mettere a servizio degli studenti e della città tutta.
I Municipi, a cui l’assessore pensa di attribuire in un prossimo futuro la responsabilità e le risorse economiche per la gestione complessiva della manutenzione ordinaria, hanno poi illustrato le difficoltà e i problemi rilevati -primi fra tutti la carenza di risorse umane, la necessità di un miglior coordinamento degli interventi infrastrutturali e di un più ampio e articolato accesso ai dati e alle informazioni- e la discussione si è incentrata sulle strategie e le pratiche da adottare per la loro soluzione.

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“Riportiamo la periferia al centro”: la proposta di Latina Bene Comune Giovani

L’obiettivo è di “sensibilizzare sull’intervento nei borghi, migliorando l’efficienza dei trasporti, coinvolgendo le fasce più giovani, le associazioni e i centri che si costituiscono come un vero e proprio baluardo contro la disgregazione sociale”.

“Riportiamo la periferia al centro”: questo il progetto dei ragazzi di Latina Bene Comune Giovani che partendo dall’analisi del disagio giovanile nelle zone periferiche della città hanno avanzato una proposta per sensibilizzare sull’intervento nelle aree dei borghi e di Latina Scalo.

“Latina – scrive il gruppo di Lbc Giovani in una nota – ha tra le sue caratteristiche principali quella di avere un’ampia periferia rappresentata dai borghi e da Latina Scalo. Entrambi, abbracciando il nucleo urbano della città, assolvono un ruolo di attiva espansione nonché di sviluppo e collegamento. I giovani di Latina Bene Comune hanno a cuore le esigenze di tutti i ragazzi e le ragazze che vi abitano e ritengono che l’analisi della vita sociale di queste zone sia fondamentale per proporre sia uno sviluppo futuro sia, di riflesso, un miglioramento per tutti gli abitanti del capoluogo pontino”.

“I borghi – prosegue la nota -, in modo particolare, sono agglomerati semplici, elementari, caratterizzati da alcune costanti: una chiesa, un bar, una scuola, un ufficio postale, una piazza. Nati con lo scopo di fare da centri di raccordo fra i vari poderi, avvertono l’esclusione dalla vita politica e culturale della città, non riconoscendosi a volte come parte integrante del territorio. A peggiorare questo quadro è stata la rottura del rapporto tra servizi e persone, così quei pochi spazi dedicati alla socialità sono stati riempiti nel tempo da abbandono ed emarginazione e hanno progressivamente allontanato le vere risorse del presente. Il giovane cittadino del borgo è vittima di un sistema che chiede ma non offre, non concede prospettive, non orienta, non coinvolge.

Non può contare sui trasporti pubblici perché le corse non coprono l’intero arco della giornata o sono comunque insufficienti. Così tra la scuola, la formazione e il lavoro si aggiunge la difficoltà di movimento che trascina con sé molti rinvii. Il giovane che vorrebbe impegnarsi e partecipare si sente perciò ostacolato da una realtà in cui ci sono poche possibilità di crescita. Se non fosse per qualche veterano, per i gruppi scout o per le parrocchie la vita di borgata sarebbe ancora più monotona. Qualche sporadica iniziativa di coinvolgimento, qualche attività ricreativa, la festa patronale d’estate ma nient’altro”.

“C’è dunque bisogno di aggregazione, di spazi condivisi, di impegno e di partecipazione attiva per fertilizzare ogni angolo periferico. I borghi – va avanti ancora Lbc giovani – possono tornare a essere riempiti di persone che condividono momenti culturali, nelle più svariate forme, divenendo così fattore chiave di inclusione e coesione sociale”.

La proposta di Latina Bene Comune Giovani è di “sensibilizzare sull’intervento nei borghi, migliorando l’efficienza dei trasporti, coinvolgendo e promuovendo le fasce più giovani, le associazioni e i centri che si costituiscono come un vero e proprio baluardo contro la disgregazione sociale. Un consolidamento forte che deve partire da una mappatura di luoghi ed edifici comuni da trasformare in biblioteche, aule di studio, palestre e spazi dedicati ai bambini e al gioco. Il borgo deve diventare una risorsa e un’attrattiva per la città e il cittadino deve a sua volta sentire come necessario l’incontro con la realtà periferica. Una realtà che non vuole essere più un luogo di passaggio ma un luogo di interesse e di coinvolgimento, nutrito di progetti, iniziative culturali e attività.

Tra le proposte quella di organizzare nei borghi tavole rotonde aperte a tutti e incontri formativi su temi d’attualità per dare spazio al dibattito e allo scambio di idee. L’obiettivo è di restituire dignità e orgoglio a luoghi considerati collaterali, tutelando i cittadini e investendo sul benessere e l’umanità delle persone”.

“I borghi e le realtà periferiche rappresentano il futuro che lasceremo in eredità ai nostri giovani e alle nuove generazioni è necessario dunque, fin da subito, tracciare un progetto che possa dare prospettive di sviluppo sociale e riportare le periferie al centro dell’interesse collettivo” conclude la nota.

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Fed.It.Art. (Federazione Italiana Artisti)

La Fed.It.Art. (Federazione Italiana Artisti) è una federazione composta da “compagnie teatrali, musicali e di danza” e ha il fine di tutelare gli interessi collettivi della categoria dello spettacolo dal vivo e di rappresentarli nei confronti delle Istituzioni. La Federazione ha come specificità il presidio culturale delle periferie e delle zone svantaggiate con iniziative di base, soprattutto nella Città di Roma. L’unicità di FED.IT ART. nel panorama artistico-culturale della Capitale è data dal gran numero degli aderenti unitamente alla molteplicità delle loro esperienze e competenze applicate a gran parte dei territori urbani

FED.IT.ART. è infatti impegnata nello sviluppo dell’arte e della cultura in un’ottica di espansione territoriale e di decentramento, perseguendo una linea d’intervento che si avvale delle consolidate esperienze nelle province del Lazio di un nutrito gruppo di associazioni che operano nel territorio regionale.

L’ANALISI GENERALE

Il settore culturale a Roma ha subìto negli anni un evidente immiserimento, sia nel’ambito delle risorse messe a disposizione, sia nel deterioramento degli equilibri interni alla sua stessa governance. I modelli teorici perseguiti negli ultimi decenni, che avrebbero dovuto assicurare un virtuoso ripensamento della vita culturale in Città, si sono rilevati inadatti, intermittenti, irrealizzabili quando non dannosi. Questo balbettio istituzionale ha avuto come risultato un evidente depressione degli assetti produttivi interni alle filiere culturali, e l’indebolimento di quel complesso sistema sociale che può e deve trovare nella cultura la sua linfa vitale.

Ne è derivato un deficit culturale gravissimo in tutti gli ambiti della vita sociale della Città che più al mondo contiene Arte e Cultura. Un formidabile passo indietro rispetto a un passato nemmeno troppo lontano.

Roma deve rimettersi in gioco, riattivare la sua capacità attrattiva e la sua bellezza. Occorrono in tal senso strumenti di rapido intervento per ridare slancio alla cultura e restituirle un ruolo cardine nello sviluppo e nella sostenibilità della città.

LE DIFFICOLTÀ

Lo scenario nel quale si muovono gli operatori culturali e le numerose associazioni impegnate nella organizzazione delle iniziative presenta criticità e limitazioni che mal si coniugano con le infinite opportunità che la città offre.

Sproporzioni e mancanza di programmazione nell’attribuzione delle risorse hanno impedito di assicurare continuità e prospettiva ai progetti culturali, relegati in ambiti di sporadica casualità, condannati all’emergenza organizzativa e privi molto spesso di un autentico collegamento col territorio e con le dinamiche sociali in atto.

La frammentazione delle proposte culturali, che progressivamente si è andata accentuando, ha innescato una serie di disequilibri che hanno investito alcuni importanti assetti di riferimento (musei, siti archeologici, teatri, luoghi di produzione, ecc… ) e hanno reso caotico e disorganico il lavoro di quanti operano nel territorio, soprattutto periferico.

La promozione delle attività realizzate nelle sedi centrali più influenti ha sviluppato dinamiche contraddittorie rispetto alle dimensioni metropolitane di Roma, lasciando indietro enormi zone periferiche.

Il depotenziamento della spinta creativa e organizzativa degli operatori ha impedito lo sviluppo di percorsi formativi efficaci e l’esperienza culturale è stata perciò privata di una sua funzione prioritaria, senza la quale non c’è inclusione, non c’è incremento della conoscenza, non c’è crescita sociale.

Anche le grandi kermesse cittadine, che hanno costituito un esempio straordinario di vivacità culturale, sono ormai svuotate di senso e rispondono più a problematiche afferenti alla burocrazia amministrativa, che a esigenze artistico/ culturali. Il rapporto con la cittadinanza si è sfilacciato per ricomporsi in modo occasionale e disorganico solo in occasione di questi grandi eventi e senza un’autentica ricaduta sul territorio.

Il sostegno pubblico, principale fonte di finanziamento per le attività culturali, risente di continue riduzioni; le Istituzioni sono costrette a inseguire le risorse disponibili attraverso lo strumento del bando, quasi sempre presentato nella prossimità delle attività. Questo provoca per i soggetti proponenti una compressione dannosa all’elaborazione dei progetti e limita fortemente gli spazi per la comunicazione e quindi per la condivisione delle iniziative in seno alla comunità.

Ne consegue un panorama quasi mai sinergico rispetto alle finalità e alle modalità di offerta culturale legate ai bandi stessi e la ricaduta sul territorio risulta debole e imprecisa, priva di continuità e senza consolidamento nel tempo delle attività intraprese. La riforma di questi processi, che noi tanto auspichiamo, certamente consentirebbe di evitare sprechi e promuoverebbe un ristabilito rapporto tra amministrazione pubblica e gli operatori del comparto culturale e creativo.

I segnali che giungono da Istituzioni e politica, sia a livello nazionale che locale, testimoniano una crescente tendenza ai tagli in campo culturale; è prevedibile che le risorse destinate al settore vengano progressivamente attribuite ai soggetti più influenti che presentano una capacità più spiccatamente imprenditoriale e una disponibilità economica autonoma e immediata.

Tutte le realtà che operano sui modelli tradizionali, che lavorano sul sociale, sul territorio, che “formano” pubblico e sensibilità, che operano capillarmente scuola per scuola, quartiere per quartiere, vivono questa ulteriore contrazione come una minaccia alla stessa sopravvivenza; gli squilibri prodotti dai criteri, comunque legittimi, che favoriscono le entità più solide e strutturate, porterà fatalmente a concentrazioni produttive e distributive che avranno riflessi negativi anche sulla creatività con pesanti ricadute in termini di occupazione e sui territori più depressi.

Occorre poi sottolineare il pesante carico di adempimenti burocratici e la tortuosa regolamentazione fiscale che gradualmente stanno sovraccaricando le procedure di partecipazione ai bandi e le rendicontazioni finali rendendo in molti casi insostenibile il compito delle realtà operanti.




Come presentare una proposta di progetto nell’ambito dei finanziamenti diretti dell’UE

La presente guida mira ad illustrare le modalità per poter accedere ai programmi tematici, a gestione diretta comunitaria dell’Unione europea, del periodo di programmazione 2014-2020. Mira quindi ad aiutare i soggetti interessati a presentare una proposta di progetto, e a districarsi nella complessa panoramica dei finanziamenti comunitari, nel tentativo di fornire alcune indicazioni utili per favorire una partecipazione più attiva degli attori sul nostro territorio.

guida_presentare_proposta_progetto_2016

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Da La Storta a S. Pietro

Da La Storta a Roma con Mediterraid

Appuntamento ore 9:00 in piazza della Visione (vicino stazione FS La Storta).

Si attraversa il parco dell’Insugherata (breve sosta all’interno del parco) per arrivare a San Pietro attraverso la pista ciclabile presso la stazione FS di Roma Monte mario.

Percorrenza: 19 km – Tempo di percorrenza: 5 ore

Per informazioni Antonello Fratoddi -Presidente mediterraid – 338 2868402 francigena[@]mediterraid.it

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Toccando la Via Francigena nel Sud attraverso parchi e acquedotti

Il percorso toccherà alcune delle principali aree verdi del Municipio Roma V, monumenti, street art e luoghi della memoria: Porta Maggiore (partenza) – Via Casilina – Ponte Casilino – via l’Aquila – via del Pigneto – via Prenestina – Parco delle Energie – Lago ex Snia – Parco Pasolini – Villa Gordiani – Parco Somaini – Villa De Sanctis – Parco di Centocelle – Acquedotto Alessandrino – Parco di Tor Tre Teste – Lago Palatucci – Quarticciolo

Appuntamento ore 9.00 a Porta Maggiore, percorso facile di circa 15 km, si consiglia di portare acqua, scarpe comode e abbigliamento adeguato

Informazioni e contatti

Irene Fusco (FederTrek) 349 8679159

Alessandro Fiorillo (WWF Pigneto – Prenestino) 334 6384307 pignetoprenestino@wwf.it

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