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Auto elettriche, sensori, lampioni ecologici: il futuro allo scalo Romana

Una ventina di palazzi, pubblici e privati, sperimenteranno la città del futuro: li chiamano «condomini intelligenti», e rientrano in un programma europeo da 8 milioni per 25 mila metri quadrati.
Arriva l’auto elettrica di condominio. Ma anche la bici in condivisione, il parcheggio con il sensore per indicare gli spazi liberi, il lampione che allarga il raggio di luce in relazione alle presenze rilevate, l’impianto a prova di efficienza energetica per risparmi fino al 70 per cento. Non stiamo parlando di Marte ma di Milano, dal quartiere Porta Romana giù fino a Chiaravalle. Una ventina di palazzi, pubblici e privati, sperimenteranno la città del futuro. Nel primo stabile, che è di proprietà del Comune e gestito da Mm, in via San Bernardo 29, gli interventi cominceranno in dicembre. Negli appartamenti verranno posizionati apparecchi per misurare la temperatura, l’umidità e indirettamente la qualità dell’aria. Una quarantina le famiglie coinvolte nel test pilota di un progetto dal respiro (e dal finanziamento) europeo. A seguire, entreranno nel piano i privati, che dovranno però contribuire alle spese.

Li chiamano «condomini intelligenti» e rientrano nel programma «Sharing Cities» che abbraccia tre città: oltre a Milano, Londra (con Greenwich) e Lisbona (il centro). Insieme le tre metropoli hanno proposto soluzioni per rendere le città più vivibili e affrontare le sfide ambientali più urgenti, a cominciare dalla riqualificazione energetica di interi quartieri, abbattendo le emissioni di edifici e mezzi di trasporto. Si sono aggiudicate un bando europeo da 25 milioni di euro, di cui 8,6 destinati al capoluogo lombardo: 2,1 al Comune e il resto ai partner coinvolti, tra aziende pubbliche e private, università come il Politecnico e associazioni come Legambiente. Per Milano si tratta della possibilità di garantire la riqualificazione energetica su una superficie di 25 mila metri quadrati. Ma anche di sperimentare formule e tecnologie innovative per i trasporti, gli impianti di riscaldamento e l’illuminazione pubblica.La posta in gioco è alta e infatti sono già 47 i condomini privati che hanno presentato la candidatura per partecipare al progetto, inserito all’interno del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020. Quindici stabili hanno già approvato lo svolgimento della diagnosi energetica, preliminare agli interventi.

Il punto forte per i residenti è il car sharing. La sperimentazione prevede due auto elettriche di condominio, da utilizzare per piccoli spostamenti e con pagamento a chilometro e non a tempo. A regime saranno 62 i mezzi elettrici riservati all’area di progetto, oltre a 10 veicoli condivisi destinati alla distribuzione delle merci. In arrivo anche 150 bici elettriche in condivisione, 125 stalli di parcheggio muniti di sensori per rilevare lo stato di occupazione e 300 lampioni wi-fi dotati di tecnologie avanzatissime. La Milano del futuro tra Porta Romana e la Vettabbia (incluso l’asse Ripamonti) avrà un importante terreno di sperimentazione. «Il progetto dimostra come l’innovazione tecnologica possa essere messa al servizio dei cittadini e delle comunità territoriali al fine di migliorarne le condizioni di vita — commenta l’assessore Cristina Tajani, responsabile della giunta per “Smart City” —. E nel farlo abbiamo dato priorità ad un’area periferica della città che nei prossimi anni oltre alle risorse di questo progetto riceverà anche quelle del recentissimo “Open Agri”, per l’agricoltura sostenibile, appena assegnato a Milano dalla Commissione europea».

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Authority e Consumatori. Dalla sharing alla social economy

Questo il titolo del convegno svoltosi a Roma il 17 novembre 2016, presso la Sala Danilo Longhi di Unioncamere. In una società in continuo divenire, con un mercato di transizione dalla sharing alla social economy, che ruolo hanno le Authority? Quali sono le garanzie per la tutela del consumatore? che ruolo ha la tecnologia nei nuovi mercati? E soprattutto siamo davvero consapevoli dei pericoli della crescita di una parallela shadow economy?

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Le banche del tempo versione sharing

È un’esperienza che ha anticipato la sharing economy che oggi è diffusa in tutta Italia: sono oltre 500 i casi. Quello più innovativo, in Brianza a Carnate, lo abbiamo raccontato sul numero di Vita Bookazine in edicola che sarà presentato a SharItaly domani

Non riesci più a pagare le bollette? Dona il corrispettivo di ore di lavoro alla tua cittadina e ti vengono pagate con il Fondo solidale attivato da Comune parrocchia e associazioni. Hai bisogno di beni di prima necessità? Presta servizio all’emporio della solidarietà e in cambio avrai diritto a ricevere quello che ti serve. C’è un fenomeno che, all’apparenza silente ma sempre in movimento, sta creando legami tra le persone rafforzando il loro senso di appartenenza a una comunità: è l’evoluzione sempre più sociale delle banche del tempo, che oggi sono 500 in tutta Italia e coinvolgono almeno 50mila cittadini di ogni cultura, reddito, provenienza o religione. Reciprocità è il punto di partenza di ogni realtà del genere, di solito riconosciuta come Aps, Associazione di promozione sociale.

«Il concetto è sempre lo stesso: circolano ore, non soldi, ma ora sempre più Comuni stanno capendo la portata di questo tipo di economia condivisa e scelgono di investirci in termini di idee e risorse», spiega Maurizio Riva, fondatore nel 2009 della Banca del tempo di Carnate, paesotto nella Brianza monzese di cui Riva è stato anche sindaco. Non una Banca a caso: nel 2014, in virtù delle sperimentazioni sociali che ha attivato sul proprio territorio, la Bdt di Carnate — che oggi ha 90 soci — è stata invitata a raccontarsi come case study al Parlamento europeo, dopo avere vinto un bando Ue da 32mila euro che ha permesso di creare una partnership con un ente caritatevole belga per scambiarsi buone prassi in termini di aiuto solidaristico. «Due i progetti che abbiamo avviato e che sono già stati replicati da altri Comuni», sottolinea Riva. «“L’aiuto vien donando” ha creato un meccanismo per cui se, per esempio, qualcuno è in difficoltà a pagare luce o gas, riceve l’aiuto economico del fondo solidale cittadino, che può ripagare “lavorando” per il corrispettivo di 10 euro all’ora arrivando a saldare fino al 50% della cifra. Questo perché molte persone hanno difficoltà ad accettare aiuti per motivi di orgoglio: dando in cambio ore di la- voro, hanno meno remore e si lasciano aiutare», racconta Riva, che sottolinea il sostegno ricevuto per il progetto anche da Fondazione Monza Brianza e Fondazione Cariplo.

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La metropoli ineguale

Roberta Cipollini e Francesco Truglia
“La metropoli ineguale”
analisi sociologica del quadrante est di roma
Mercoledì 16 Novembre ore 16.00
Palazzo Valentini
Via IV Novembre 119/A Sala Conferenze Monsignor Luigi di Liegro
La ricerca-inchiesta analizza il mutamento sociale che ha investito Roma negli ultimi 30 anni e che ne ha modificato gli andamenti demografici, la composizione sociale della popolazione, la distribuzione delle risorse, gli orientamenti elettorali e le forme di marginalità ed esclusione.
Materiali interessanti che abbiamo utilizzato nel “nostro fare quotidiano” che crediamo debbano diventare patrimonio della nostra Comunità cittadina.

Indirizzo di saluto:

Marcello De Vito, Presidente Assemblea Capitolina
Bruno Mazzara, Direttore Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale, La Sapienza, Università di Roma
Pino Galeota, Coordinamento delle periferie di Roma

Presentazione:

Oliviero Casacchia, Dipartimento Scienze Statistiche, La Sapienza, Università di Roma
Maria Immacolata Macioti, Sociologa
Luisa Natale, Sociale Dipartimento di Economia e Giurisprudenza Università CLAM Cassino

Interventi:

Carlo Cellamare, Docente La Sapienza
Alessandro Capriccioli, Comitato Accogliamoci
Antonio D’Alessandro, Vice Presidente CESV
Francesca Danese,Esperta in Politiche e Animazione Sociale
programmaEugenio De Crescenzo, Responsabile Sociale A.G.C.I.
Pasquale De Muro, Docente Roma 3
Salvatore Monni, Docente Roma 3 e coautore di Mapparoma
Francesco Montillo, Dottore di ricerca studi urbani
Irene Ranaldi, Sociologa

Coordina

Paolo Conti, Giornalista Corriere della Sera

Saranno presenti gli autori e i componenti del gruppo di ricerca

programma




Roma tra paura e bellezza, la sfida delle periferie

Viaggio nella Capitale: l’immagine di città solidale cede il posto ad altro, un luogo di coltura del populismo

Come vedete Roma oggi? Come ci vivete? Il declino della città eterna è inevitabile? In parallelo con l’inchiesta di Carmine Fotia che comincia oggi vi chiediamo di esserne protagonisti anche voi: raccontateci la vostra città, a partire dalle periferie scrivendo brevi testi o inviando foto o brevi video a raccontiromani.unita@gmail.com

Le cronache si raccontano Roma come una città in declino, bloccata, incapace di pensare il futuro, paralizzata persino fisicamente dalla crisi drammatica del suo sistema dei trasporti, contaminata da una sporcizia materiale e morale.

Ciò è aggravato da un’amministrazione totalmente inadeguata, per usare un eufemismo, ma non si tratta di una crisi di breve periodo. Nell’arco di un decennio – dal 2006 (rielezione trionfale di Walter Veltroni) al 2016 (disfatta del Pd ed elezione plebiscitaria di Virgina Raggi del M5S), passando per la conquista del Campidoglio da parte dei post-fascisti di Gianni Alemanno (2008), la vittoria del sindaco-marziano, Ignazio Marino (2013) e l’esplosione di Mafia Capitale (2014) – l’immagine di Roma si è completamente rovesciata.

Da simbolo di buon governo del centrosinistra a simbolo di una disfatta ingloriosa; da città trainante dello sviluppo nazionale e dinamica a città che arretra e si blocca; da città coesa a “città disconnessa”, come dice il professor Paolo De Nardis, docente di Sociologia alla Sapienza e autore di un importante saggio (“Capitale senza capitale”, Interventi Donzelli); da città solidale a luogo di coltura del populismo post-fascista prima e grillino poi; da metropoli cosmopolita e accogliente a città ripiegata su se’stessa, preda delle sue paure e dei suoi egoismi dove, mi dice la parlamentare dem Marcella Lucidi, domina una sorta di “depressione sociale”.

Il declino si tocca con mano, nella degenerazione della vita pubblica, nel peggioramento di tutti gli standard qualitativi della vita della città, come ha mostrato una recente ricerca dell’Istat sul Benessere Equo e Solidale (Bes). È una valutazione che non si ferma al dato puramente quantitativo del prodotto interno lordo ma valuta anche altri parametri: sanità, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi.

Ed ecco il ritratto odierno di Roma: una città dove c’è molta ricchezza, ma distribuita ingiustamente, dove l’ambiente entro il quale vivono le persone non è buono e dove le condizioni che determinano l’autonomia delle persone (come i trasporti) sono pessime. Mentre diminuisce la percezione di sicurezza (anche a causa di una precisa scelta da parte della destra romana di cavalcare, a partire dal 2008, le peggiori paure) si diffonde, alimentato da una battente campagna mediatica, un clima di violenza diffusa e anonima che un giovane dirigente dem romano che conosce bene le periferie, Marco Tolli, definisce «una nuova cattiveria». Tutto ciò mentre, come afferma il professor Giandomenico Amendola (“Tra Dedalo e Icaro, la nuova domanda di città”, Editori Laterza), la crisi degli stati nazionali spinge le metropoli a misurarsi autonomamente nella competizione globale all’interno della quale la qualità della vita e dei servizi, la capacità di ripensarsi e reinventarsi sono invece essenziali.

Non si tratta soltanto del degrado degli standard basilari della vita quotidiana, ma di una “narrazione” che Roma offre di sé che va proprio invece nella direzione opposta. Non è un caso che fiorisca tutta una letteratura romana di genere catastrofista ben esemplificata dal romanzo illustrato dello scrittore Luca Marengo e dell’illustratore Giacomo Keison Bevilacqua (“Roma Città Morta, Diario di un’Apocalisse”, Multiplayer edizioni), dove la città eterna è in mano agli Zombie.

In questa inchiesta cercheremo di capire se sia davvero il declino il destino inesorabile della Capitale, quali ne siano le cause e i possibili anticorpi, sperando che non valga anche per noi l’epigrafe posta nell’incipit del romanzo di Marengo-Keison: «Questo è il diario dell’Apocalisse Zombie romana, amici miei benvenuti, e per favore non fatevi uccidere prima di averlo finito di leggere, ok?».

Partiamo dalle periferie, non solo come luogo geografico, ma come punto di vista dal quale osservare i cambiamenti della città. La mappa del voto delle ultime elezioni amministrative disegna una piccola isoletta (i quartieri alti) dove il centrosinistra ha resistito e l’oceano delle grandi periferie urbane, dove vive la maggioranza della popolazione e lì prevalgono i Grillini o la destra. Una sorta di periferia liquida dove tutto si mischia in modo caotico e disordinato.

Per comprendere cosa voglio dire, dovreste almeno una volta prendere il treno Viterbo-Roma delle Ferrovie Roma Nord che è ormai una specie di metropolitana aggiunta che collega l’estrema periferia delle borgate di questo quadrante con il centro della città. Sul treno incontri rom, italiani, rumeni che sono la comunità più presente e altri immigrati. Lungo la linea discariche abusive, accampamenti, ma anche quartieri residenziali.

È una convivenza forzata, molto diversa da quel processo che negli anni settanta avvicinò il popolo delle borgate alla città storica. Lì ci si mischiava per scelta, qui per necessità. Tutto affastellato, sovrapposto, mai riconnesso. I treni sono vecchi e fatiscenti, sporchi. Torridi d’estate e gelidi in inverno. Qui quando piove vien giù tutto, perchè fognature e sistemi di drenaggio sono del tutto inadeguati, e può capitare che per due giorni sia impossibile raggiungere la città. In posti come quelli che vi ho raccontato, a Roma vive circa un milione di persone, e in Italia circa il 60% della popolazione.

Sono luoghi che sono stati troppo a lungo abbandonati, i vecchi ceti popolari che abitano le antiche periferie operaie colpiti dalla crisi, vedono nei nuovi esclusi relegati lì una minaccia per il pochissimo che hanno. Si è creata quella che il sociologo Zygmunt Bauman chiama una paura liquida: «La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante… paura è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia o di ciò che c’è da fare».

Le nostre periferie sono dunque solo degrado? Si tratta di ghetti da abbandonare a se stessi? Per Renzo Piano, architetto, senatore a vita, al contrario, le nostre periferie «sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. La bellezza naturale del nostro paese non è merito nostro. Ciò che può essere merito nostro è migliorare le periferie, che sono la parte fragile della città e che possono diventare belle». Bellezza e periferie, sembra un ossimoro.

Invece, sostiene Amendola nel saggio già citato, la bellezza, che è un requisito fondamentale nella competizione globale tra le metropoli, «è una richiesta che taglia trasversalmente tutta la città andando dal centro – tradizionalmente considerato il luogo deputato a ospitare bellezza e identità – verso la periferia, dominio dell’uni – formità della banalità progettuale ». Dunque, la sfida è lì ed è doppia: riguarda l’identità della sinistra, ma anche la modernità della città perché se perde la connessione con quel mondo, con quei luoghi, con quelle persone, la sinistra, e non solo a Roma, muore, ma anche la città muore se non fa delle sue periferie luoghi di bellezza.

Infatti, proprio da lì, con il grande sindaco che fu Luigi Petroselli, cominciò la sinistra quando conquisto per la prima volta il Campidoglio nel 1976. Ma questo ve lo racconteremo nella prossima tappa del nostro viaggio.

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Il programma futuro del Comitato delle Fondazioni: bandi per la promozione degli artisti italiani, e progetti per le periferie

Il terzo anno del Comitato Fondazioni si festeggia da Sandretto con una serie di annunci che lanciano una buona luce sul futuro del contemporaneo in Italia.
La Presidente Patrizia Sandretto, con Andrea Cancellato di Federculture e Federica Galloni della Direzione Generale per l’Arte Contemporanee e Periferie, in rappresentanza del MIBACT, sono qui con l’intento di condividere una “rete di relazioni e arricchire i contenuti, raccogliendo spunti e suggerimenti per le prossime attività”.
Andiamo subito al sodo: cosa farà nel futuro il Comitato che annuncia non solo la partnership con Federculture ma anche l’ingresso futuro di HangarBicocca tra gli attori? Per prima cosa guarderà in casa propria, ovvero alle collezioni degli aderenti al gruppo, per fare quella che Sandretto definisce una “collezione di collezioni” che possano essere esposte in musei italiani che non hanno raccolte permanenti, per esempio.
E ancora, c’è la volontà di un’apertura a collezionisti privati stranieri che vorranno mettere a disposizione dell’Italia le proprie raccolte.
Cancellato cita l’ultimo rapporto di Federculture, ribadendone l’importanza che il settore, nel nostro Paese, porta anche all’economia . «Basta con il sentimento negativo per il futuro della nostra nazione; nonostante la spesa per la cultura non sia in cima alle spese, è in crescita, e questa tendenza va incoraggiata dice Cancellato.
E allora via, con la volontà di confederarsi (con AGIS per esempio), per avere una voce unica e forte, e per creare un pezzo importante anche nella reputazione dell’Italia.
«Se dimostriamo che il contributo che diamo è importante verranno nuove iniziative e nuove risorse; bisogna continuare a girare i numeri, un tempo negativi del Paese, e defiscalizzare il consumo culturale è necessario per il futuro», chiude Cancellato.
Galloni annuncia invece i progetti sul tema delle periferie urbane, e ribadisce che l’aver associato questo tema all’arte è strategico. «Abbiamo l’obiettivo di andare a lavorare sulle periferie con parametri nuovi, e si è parlato molto anche con il Miur, facendo nascere progetti come “Sperimento l’arte”, che porterà nelle scuole artisti affermati, per dimostrare che la cultura può cambiare anche la vita». Ma c’è anche un secondo progetto, che ha un plafond notevole: 3 milioni di euro che andranno ad eventi sempre realizzati nelle scuole ma aperti al pubblico, per creare collettività.
Galloni ricorda come la Direzione Generale non dia sovvenzioni, ma lavori in sinergia con le istituzioni per avvicinare i cittadini italiani al mondo dell’arte contemporanea: «oggi è fondamentale una mediazione culturale, per mettere in relazione artisti e fruitori. C’è la voglia di avere l’arte come patrimonio diffuso e condiviso, soprattutto nei piccoli centri e in questo l’aiuto delle fondazioni sarà esemplare».
E tra gli enti a cui il Comitato delle Fondazioni si rivolge c’è anche l’Italian Council, che per ora ha una base di 980mila euro annui. Soldi che serviranno ad un altro progetto: quello della produzione di un’opera, con un artista che la lascerà ad un museo italiano o straniero, per proseguire sulla strada della promozione dell’arte oltre i confini. A proposito, spiega Galloni, vi saranno due bandi annui, e i partecipanti saranno selezionati da una commissione appositamente creata, per evitare conflitti di interessi. Primo bando in uscita? Nel primo semestre 2017.
Last but not least, anzi, il Progetto Periferie, con 50mila euro per ogni iniziativa, mentre nel contempo si cercherà di trovare una strategia per dare la possibilità concreta di usare l’artbonus per i privati che vorranno. 50 per cento di fondi, per queste iniziative, verranno stanziati dal Mibact, mentre la restante parte sarà a carico delle Fondazioni. Sul piatto? Dentro il macrotema delle periferie, anche una serie di programmi didattici e dedicati ai più giovani. Ecco chi sono, tra progetti con scuole, territorio o cittadini, i primi nove a partire:
Cittadellarte Pistoletto, con il progetto Re-birth
Fondazione Giuliani coinvolgendo Luigi Coppola e il progetto “Menti Locali”
Fondazione VOLUME! “Città inseparabili e buoni incontri con Francesco Arena
Nomas Foundation: “Come vivere insieme. La scuola comune”, di Sresha Rit Premnath
Pastificio Cerere coinvolge Pietro Ruffo, con “Curare l’educazione”
Fondazione Merz, con Ludovica Carbotta e i fratelli De Serio sul progetto “Chiribiri. Fare città tra museo e giardino”
Fondazione Spinola Banna, con Giuseppe Caccavale e “La via delle parole”
Fondazione Antonio Ratti, con Matteo Rubbi e “Città in residenza”
Fondazione Sandretto, “Segnali da un paesaggio aumentato” con Alessandro Quaranta

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Fiorella Mannoia torna da “Combattente”

Autobiografico, personale e coraggioso. Sono questi gli aggettivi sintesi dell’ultimo disco di Fiorella Mannoia. Si chiama “Combattente”, esce domani 4 novembre e arriva a quattro anni da “Sud” (l’ultimo suo disco di inediti), dopo il doppio platino “Fiorella” (i duetti per i quarant’anni di carriera) e “A te”, il disco tributo a Lucio Dalla. «È il disco che mi rappresenta. Ma non solo io l’unica combattente», dice. «Racchiude l’idea della lotta per il raggiungimento di qualcosa, del sacrificio. È il dare un senso alla propria vita per arrivare a un fine. Un disco che ha un filo conduttore: storie di donne che combattono tutte per le stesse cose. Dalla ricerca di affermazione a quella della propria identità». Perché chi “non lotta per qualcosa ha già comunque perso”, recita un verso del testo che dà titolo all’album. «È una esortazione. Canzone inaspettata in cui mi ci sono ritrovata totalmente». Undici i brani inediti, alcuni a quattro mani. Ivano Fossati compone le musiche e Fiorella Mannoia firma il testo di “La terra da lontano”, ultimo brano, «giusta conclusione di quello che siamo. Sono felice e di certo, dieci anni fa, non avrei pensato a una collaborazione con Ivano» (collaborazione nata già nel 2012 in “Se solo mi guardasse”). Oltre a Fossati, Giuliano Sangiorgi firma “L’ultimo Babbo Natale” in cui “parole perdute” acquistano «l’importanza che devono avere». Nel disco, anche “Perfetti Sconosciuti”, il brano scritto con Cesare Chiodo e Bungaro, Nastro D’Argento 2016 per la “Migliore Canzone Originale” nell’omonimo film diretto da Paolo Genovese, nonché il suo debutto come autrice e interprete di colonne sonore. Un amore per il cinema che continua con “7 minuti”, film di Michele Placido (da domani 3 novembre) in cui la Mannoia sarà una delle protagoniste. Amore che si vede anche nell’esigenza di raccontare le canzoni per immagini e storie. «Ascoltando le canzoni mi sono immaginata dei flash di vita di qualcuno», scrive nelle note di regia Consuelo Catucci che ha diretto “Combattenti”, episodi girati a Roma (a Corviale) in un palazzo di nove piani e lungo un km, «che racchiude storie ordinarie e straordinarie di resistenza. Ne percepivo, nel racconto dei brani, i cambiamenti, i dolori, gli errori, gli ostacoli e soprattutto la volontà di non farsi mai abbattere. Da nulla». Nel video del singolo omonimo (che è la prima parte del progetto) la protagonista affronta il tema della disabilità attraverso lo sport e che, nonostante la sua difficoltà, ce la fa. «Fiorella si è prestata ad ospitare queste storie, vivendole in modo defilato e rinunciando, cosa difficile per un clip musicale, completamente al playback». E se a Sanremo ci pensa («Chi lo sa. Forse»), ai giovani dei talent («un percorso al contrario, un punto di partenza e non di arrivo», commenta) dice: «Non fate i capricci. Lottate e non arrendetevi. Noi per arrivare a questi risultati abbiamo combattuto, siamo caduti e ci siamo rialzati tante volte. Mi metto nei panni dei giovani cantanti di oggi. Sanno che se perdono una fermata, non ce ne sarà un’altra. Quelli della mia generazione di fermate ne abbiamo avute tante, ma c’era sempre chi ci faceva risalire».

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Periferie, l’innovazione nasce dalla cittadinanza attiva

Dal riciclo all’energia, il valore della socialità nell’economia circolare.
Scomporre e ricomporre le parole, scavare nel loro riapparire nel presente storico dell’attualità dell’inattualità, ci rammenta che il denominare, svela carsici percorsi sociali ed economici di derive storiche altro dallo storytelling ipermoderno. «Cooperativa», sembrava parola sepolta nell’epoca della Connectography (Parag Khanna) che disegna il mondo come nodi di reti hard e soft di logistica, finanza, città spettacolo. Altro che cooperare, l’attualità, è connettersi ai flussi! Se poi denominiamo la cooperativa con la parola antica «comunità», evocando nell’epoca delle community e dei social il massimo dell’inattualità, occorre capire senso e significato attuale della voglia di prossimità nell’epoca della simultaneità.
Come si diceva nel fine secolo, il delinearsi della globalizzazione rimandava all’adagio più globale-più locale, dispiegato oggi nel paradigma Flussi-Luoghi. Che interroga, di fronte all’imperativo connettersi e fare community nella simultaneità, sul cosa resta del locale, del territorio, della prossimità. Le cooperative di comunità vengono avanti e sono nate nel margine territoriale, ma interrogano il centro. Riscoprono il cooperare là dove, dissolta e disgregata «la comunità si fa inoperosa». Nei comuni polvere, nelle aree interne, dove partendo dalla scomparsa dei luoghi di aggregazione e di incontro, si ricostruiscono tracce di comunità. Tema non solo del margine territoriale, basta pensare alle marginalità urbane per capire quanto sia urgente il tema dello spazio pubblico, e dell’essere in comune nelle periferie che si fanno banlieue. Anche le esperienze europee di cooperative di comunità le vedono operare in una sussidiarietà top down ai margini della crisi del welfare state.

La vera questione è interrogarsi se da questa vibratilità del margine di esperienze di welfare di comunità, di rigenerazione e rianimazione di aree a rischio di spaesamento, ove si coopera per fare “comunità che viene” ci sono tracce utili nel loro disegnare smart land, a contaminare il nostro progettare smart city nei nodi di reti urbane. Avendo chiaro, che non c’è smart city innervata dall’innovazione tecnologica, senza social city cooperante. Con la cittadinanza attiva mobilitata nell’economia circolare del riciclo, nella domotica per l’energia, nel car e bike sharing per la mobilità, nel recupero di periferie e spazi pubblici, nell’accoglienza, nell’inclusione e nella sicurezza. L’elenco potrebbe continuare delineando la società circolare che viene avanti solo attraverso una cittadinanza cooperante. Ma l’innovazione dall’alto, da sola, non produce cittadinanza attiva. Questa si aggrega dal basso nella “voglia di comunità”. Anche nelle città spettacolo, nelle aree metropolitane, dove la prossimità del fare cooperative di comunità incontra la simultaneità del fare coworking o fablab per sfuggire alla gig-economy dei lavoretti. Il fare accoglienza ed inclusione incontra i grandi numeri delle migrazioni e dei profughi. Il fare comitati di cittadini si evolve nel cooperare per fare comunità di quartiere ridisegnando spazi e forme di convivenza. Il torrente della storia fa riemergere due parole antiche, usiamole e pratichiamole. Nelle aree interne dell’Appennino devastate dal terremoto, dove la voglia di comunità dei senza casa e senza paese si fa dolore e nelle città metropolitane in divenire, come a Bologna, dove nei quartieri è stato promosso un progetto di sviluppo di comunità per delineare la smart city che verrà.

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Servizi di buon vicinato: arriva Toctocdoor, social network di quartiere

Accade a Torino, dove una piccola startup ha lanciato un’applicazione che servirà a scambiarsi servizi e consigli con gli altri utenti registrati nella stessa zona: per localizzarli e accedere agli annunci basterà registrarsi, visualizzandoli poi su una mappa.
Quasi ogni genitore ci è passato, almeno una volta nella vita: sono le 8 del mattino e ci sono due figli da accompagnare in due diverse scuole, ma di accendersi l’automobile non vuol proprio saperne. La lista delle possibili opzioni, tutte più o meno inefficaci, comprende ad oggi: compulsare l’agenda telefonica per trovare un “collega” che faccia all’incirca lo stesso tragitto; prendere un taxi spendendo spesso l’equivalente della riparazione della vettura, o magari farsi assalire da una crisi di panico da riversare presto su figli, consorte e chiunque capiti a tiro, mentre i ragazzi si avviano con gran gusto a perdere almeno una mezza mattinata di lezione. A offrire una soluzione più incisiva, però, potrebbe essere molto presto il mondo dei social network: a Torino un team di creativi e sviluppatori ne sta sperimentando uno pensato per mettere in comunicazione i residenti di uno stesso quartiere, in modo che possano scambiarsi beni, servizi, favori e consigli di buon vicinato. Si chiama Toctocdoor e al momento è attivo in una porzione del Capoluogo che comprende la centralissima via Giolitti e tutte le strade limitrofe, da via Po a via Vittorio Emanuele, passando per il lungofiume. A idearlo è stata una squadra proveniente dalla città di Foggia, e composta dai fratelli Lorenzo e Antonio Trigiani – esperto in pubbliche relazioni il primo e sviluppatore il secondo – e da Viviana Tiso, a sua volta esperta in social media e comunicazione. Un altro aiuto arriverà presto dal centro servizi per il volontariato di Torino, che nel weekend presenterà l’iniziativa alla cittadinanza nel corso di una conferenza pubblica.

Il funzionamento è quanto di più semplice: “durante la registrazione – spiega Tiso – all’utente verrà chiesto di specificare l’indirizzo di residenza. Da quel momento, oltre a visualizzare su una mappa il numero esatto e la collocazione degli utenti attivi in zona, si potrà accedere a post e annunci pubblici divisi per categorie contrassegnati secondo una logica di utilità, molto simile a quella delle banche del tempo ma anche dei semplici rapporti di buon vicinato”. Un modo per portare la pervasività dei social network in una dimensione locale, insomma, analogamente a quanto già fatto da servizi come “Last minute sotto casa”, una app che – riunendo una cordata di supermercati e negozi alimentari – pare stia dimezzando lo spreco di cibo in più di una città italiana. Con la differenza che, in questo caso, la platea di utenti, seppur delimitata da specifici quartieri, sarà decisamente più estesa: al momento, le categorie attivate per la fase sperimentale riguardano gli annunci gratuiti, la compravendita, una sezione per gli oggetti persi e ritrovati e una relativa a crimini e sicurezza. Vale a dire che, con cinque semplici marcatori semantici, c’è già un’infinità di operazioni e servizi che gli eventuali “vicini di social” possono scambiarsi. “Prendiamo la categoria ‘crimini e sicurezza’ – illustra Tiso -: se sentissi arrivare dei rumori sospetti dall’appartamento del mio dirimpettaio in ferie, con un semplice click potrei avere la possibilità di allertare lui, oltre alle forze dell’ordine”. Nel già citato caso dei bambini da portare a scuola, invece, secondo Tiso basterebbe “pubblicare o guardare gli annunci nell’area ‘genitori e figli’, e con un po’ di fortuna si troverebbero diverse mamme e papà che potrebbero offrirsi di dare un passaggio ai bimbi”.

Attivo dallo scorso marzo, al momento TocTocDoor è agli sgoccioli di quella che viene definita “fase beta”: man mano che gli utenti sperimentali – o beta tester – ne saggiano funzioni e caratteristiche, suggeriscono agli sviluppatori migliorie e nuove funzionalità. Il prossimo venerdì, comunque, l’applicazione verrà presentata al pubblico sabaudo: l’appuntamento è per le 17 alla sede del Centro servizi per il volontariato di via Giolitti 21. Segno che, a breve, l’iniziativa potrebbe essere pronta ad abbracciare l’intera cittadinanza.

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Ragazzi di vita e le periferie di Roma

Cosa è cambiato nella periferia romana? Ragazzi di vita va in scena al Teatro Argentina, adattamento teatrale del romanzo di Pier Paolo Pasolini con la regia di Massimo Popolizi.
Mentre il Riccetto scendeva giù per via di Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, che «piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare», Pier Paolo Pasolini scavato in volto, con gli occhiali scuri, silenzioso e partecipe gli camminava a fianco. L’architettura pasoliniana di Ragazzi di vita – ripresa e sviluppata scenicamente dall’adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi e dalla regia di Massimo Popolizio – è tutta lì, nell’affiancare ai personaggi una presenza che osserva, racconta, passo che incede ma non si sovrappone. In quella capitale disseminata di piccoli quartieri, Pasolini attinge dalle borgate romane restituendo al lettore la semiologia di un universo umano; un narratore interno che racconta la povertà del Secondo Dopoguerra, la miseria vissuta allora dai ragazzi come immanenza della vita stessa da portare nello stomaco, sulle labbra, come uno stornello o una canzone di Claudio Villa.

La versione teatrale dei quadri che compongono i capitoli del romanzo pasoliniano è affidata al corpo dei diciannove attori che sciamano sul palco come tra le borgate anni Cinquanta verso il centro – di Roma, e di sé stessi – seguendo e determinando silenziosamente l’unico arco narrativo che coincide con il contenuto morale del romanzo: il Riccetto (in carne e parola di Lorenzo Grilli), quel protagonista-pretesto per la descrizione del sottoproletariato romano, che all’inizio dello spettacolo si getta in acqua per salvare una rondine e alla fine della lunga messa in scena resterà a guardare un altro ragazzo, Genesio (Alberto Onofrietti), che muore annegato nell’Aniene. Tutta qui l’evoluzione da regazzini a giovanotti, verso lo sguardo smaliziato di una Roma che si piegherà all’individualismo portato dal boom economico.

La scelta registica della terza persona che accompagna i discorsi diretti e le descrizioni, e l’allestimento scenico che asseconda l‘energia dei “ragazzi”, esaltano la vocazione del romanzo; la reinvenzione linguistica intercetta la contaminazione tra il romanesco dei parlanti di allora, quelli di oggi e quel codice con cui Pasolini è intervenuto nel tessuto romano; Lino Guanciale da narratore-poeta riesce a vestire i panni di Pasolini e a sposare intenzioni (registiche e attoriali) di Popolizio, la carnalità degli attori è persuasiva nel lasciarsi seguire, così come le scene di Marco Rossi. La recitazione di alcuni interpreti parte però dall’eccesso, la dinamica dei volumi cede a volte al “gridato” soprattutto nelle prime scene, salvo ritrovare poi una propria armonia; l’autonomia dei diversi quadri, la struttura stessa del testo letterario e forse la mancanza di una vera partecipazione emotiva vanno, alla lunga, a scapito dell’attenzione dello spettatore, ché il teatro non gode del privilegio di un libro di poterne chiudere le pagine e di riaprirle poi.

Intanto però il pubblico ride, i frammenti si susseguono ironici e godibili lasciando al dramma pochi stralci di testo tra un’invettiva romana, un froscio, un tuffo dar Ciriola o un furto sull’autobus. Tanto che avvolti nelle poltrone del Teatro Argentina ci si chiede quale sia dell’indagine sociale, costata a Pier Paolo Pasolini l’oltraggio al pudore, l’arco narrativo che ci conduce all’oggi: oltre l’ennesimo omaggio a PPP cosa ha ancora da dire a noi questo testo? A fine spettacolo, davanti all’uscita di servizio degli artisti, è uno degli studenti di italiano di un centro d’accoglienza della periferia romana, venuto a vedere Ragazzi di Vita con il progetto Spettatori Migranti/Attori Sociali (percorso di educazione alla cittadinanza che passa attraverso la spettatorialità teatrale come atto di partecipazione sociale, di formazione linguistica e di integrazione culturale, attivato da Teatro e Critica con il Cas Casilina) che mi anticipa e formula la sua domanda per Francesco Giordano, uno degli interpreti che si ferma a parlare con noi: «cosa vi spinge a fare questo spettacolo?» «Le problematiche che ci sono state nel ’55 le possiamo incontrare ancora. La povertà prima e la globalizzazione poi che ha avuto la meglio sulla persona».

Gli undici ragazzi della periferia romana di oggi, che Pasolini non poteva ancora immaginare, arrivati anche loro al centro, al Teatro Argentina, dopo lo spettacolo sono entusiasti. Si rivolgono senza remore a Francesco Giordano, a Paolo Minnielli e a Silvia Pernarella «Genesio muore nel fiume? », «perché i ragazzi rubavano?», «la situazione è cambiata in Italia, oggi non si ruba più?», «come si diventa attori?», «perché in scena ci sono solo 3 donne?» e poi «perché non ci sono attori neri in scena? Perché non prendete degli attori neri insieme a quelli bianchi e li fate recitare assieme così da creare una grande famiglia?». A rispondere a quest’ultima domanda, e così alla mia e a tutte, è Lino Guanciale: «Noi dobbiamo fare progetti come tu dici; ma, stavolta, questa storia è tutta italiana, non c’erano africani nelle nostre borgate negli anni Cinquanta e io penso che la forza di questo progetto sia proprio questa: dire che adesso c’è la stessa miseria di allora, anche se a volte sembra aver cambiato colore, per questo motivo dobbiamo assolutamente trovare una soluzione nella relazione, perché quella di oggi è la stessa miseria di allora che persiste».

I “ragazzi” di Pasolini sono personaggi emarginati dalla città normale, degna e patinata. Agguantano la vita a piene mani e a pieni polmoni da un universo di fibrillazioni e vitalità anarchiche che è totalmente altro rispetto ai contesti borghesi, ai micro-cosmi protetti e istituzionali di lavoro o scuola.

A casa, mentre rileggo le note di regia, mi viene voglia di chiedermi ancora, e di continuare a farlo: a chi il teatro, oggi, deve riuscire a parlare?

RAGAZZI DI VITA
di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale
e Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
canto Francesca Della Monica
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
assistente alla regia Giacomo Bisordi

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