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La Gig economy: il nuovo caporalato digitale

Spesso confuso con quello della condivisione, il modello del capitalismo delle piattaforme è tutto fuorché sharing economy. Uber, Foodora o Deliveroo promuovono un modello di precarizzazione totale noto come gig (che in inglese significa “lavoretto”) economy.

Quando diciamo economia della condivisione, diciamo qualcosa di preciso e specifico. Non diciamo, ad esempio, Uber. Non diciamo Foodora o Deliverroo, piattaforme che di collaborativo e di condiviso hanno ben poco. Quando parliamo di Uber, Foodora o Deliveroo parliamo, piuttosto, di gig economy. Ma che cos’è, allora, la gig economy? È un modello dove le prestazioni lavorative stabili sono azzerate e, di conseguenza, gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato praticamente non esistono. Le prestazioni lavorative continuative sono un pallido ricordo di quando la classe operaia sognava il paradiso e quella creativa si illudeva di averlo raggiunto.

Non esistono più posti di lavoro – né a tempo determinato, né indeterminato – e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi avviene solo “on demand”, quando c’è richiesta. In sostanza, un caporalato digitale. L’espressione gig economy deriva dal termine inglese “gig”, lavoretto. Nel mondo dello spettacolo “gig” è il cachet. Il precario 4.0 è chiamato gig worker e il modello è quello dell’on-demand (economy), completamente disintermediata grazie a app e piattaforme digitali proprietarie.

Nella gig economy il mercato tra domanda e offerta è gestito online. Ma il “gestore” non è un arbitro imparziale e non innova: distrugge la cornice giuridica e il fondamento di ogni relazione e garanzia di lavoro. Un fenomeno, questo, che gli studiosi hanno già ribattezzato Plattform-Kapitalismus, capitalismo delle piattaforme, che attraverso app solo in apparenza neutrali mette in relazione soggetti che cercano e soggetti che offrono prestazioni temporanee di lavoro.

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Riqualificazione urbana, i progetti candidati al ‘Bando Periferie’

Dieci delle 121 idee che daranno nuova vita alle aree dimenticate delle città italiane
Riqualificazione degli spazi urbani, riconversione di edifici industriali, inserimento del verde e di spazi in grado di favorire la socializzazione. Sono gli obiettivi del bando periferie, che punta a eliminare situazioni di marginalità economica e sociale, degrado edilizio e carenza di servizi.

Sono stati molti gli Enti locali che hanno risposto alla chiamata del Governo presentando 121 idee progettuali, tanto che le risorse inizialmente stanziate (500 milioni di euro) sono state integrate (con 1,6 miliardi di euro) in modo da poter finanziare tutti i progetti.

I progetti sono stati protagonisti di Urbanpromo Progetto Paese, la manifestazione organizzata dall’Istituto Nazionale di Urbanistica che si è svolta alla Triennale di Milano dall’8 all’11 novembre.

Ecco dieci dei 121 progetti che tentano di dare nuova vita alle periferie dimenticate.

Reggio Emilia
Il progetto prevede la riqualificazione del quartiere industriale storico Santa Croce attraverso la riconversione dei capannoni, da destinare a servizi alle imprese e laboratori, il riuso degli spazi abbandonati, da destinare a servizi culturali, educativi e sportivi, e il ripristino delle connessioni col resto della città.

Bari
Il progetto intende riqualificare due quartieri (Libertà e San Paolo) localizzati nell’area nord-ovest. Le zone sono caratterizzate da un arcipelago di nuclei di edilizia residenziale pubblica da riconnettere tra loro e con il resto della città. L’idea progettuale riconosce alla strada il ruolo di spazio pubblico da abbellire con aree verdi per favorire la sostenibilità ambientale e l’aggregazione. Attraverso la strada e forme di mobilità sostenibile si creeranno i collegamenti con grandi contenitori in uso o oggetto di operazioni di riuso in corso (ex Manifattura Tabacchi, ex Gasometro, Istituto Redentore, Chiesa di San Paolo, Parco Romita).

Perugia
La proposta progettuale interessa l’ambito urbano a cavallo della stazione ferroviaria che coinvolge i quartieri di Fontivegge e del Bellocchio. Non si tratta di una periferia, ma di una zona centrale dove, anche a causa della presenza della stazione, si sono nel tempo concentrati fenomeni di grave disagio sociale. Il progetto prevede la riqualificazione di alcuni immobili pubblici e interventi diffusi sul territorio, come l’installazione di sistemi di videosorveglianza e pubblica illuminazione per migliorare il livello di vivibilità, di sicurezza e di decoro dell’area.

Bologna
Il progetto ‘Pilastro’ ha l’obiettivo di mettere in connessione la ricchezza del capitale sociale e culturale del Pilastro con le esigenze economiche esistenti e in via di sviluppo nell’area a nord-est della città. Tutto per trasformare il rione ‘Pilastro’ in nuova centralità della città metropolitana. È anche previsto il recupero di un ex parcheggio multipiano (Giurolo), al momento in disuso, per convertirlo in polo di conservazione e restauro delle pellicole della Cineteca di Bologna. Il progetto interesserà anche i dintorni, teatro di episodi di incuria e vandalismo.

Nuoro
Nuoro si è formata attraverso un’aggregazione di parti urbane distinte, ciascuna delle quali ha apportato a questo processo i propri ambiti periferici, creando situazioni di degrado edilizio, sociale ed economico. Il progetto intende riconnettere queste parti attraverso la cultura, la trasmissione della conoscenza e lo sport. Per questi obiettivi è previsto un percorso di rigenerazione urbana, riuso del patrimonio pubblico dismesso, senza ulteriore consumo di suolo, e la diffusione di spazi pedonali e verdi.

Ferrara
Uno spazio del nuovo quartiere nell’area della Darsena di S. Paolo, prima usato per il marcato ortofrutticolo e oggi come parcheggio, sarà trasformato in un luogo attrezzato per il tempo libero. L’area, che costituisce la principale connessione tra il centro della città, il fiume e la Darsena, si trova nei pressi del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah. La rigenerazione avvantaggerà futuri residenti, turisti e studenti.

Catania
L’intervento prevede lavori di manutenzione e messa in sicurezza antisismica e antincendio di alcuni edifici, il completamento di piazza Montana, il completamento della viabilità nel quartiere S Giovanni Galerno e la riqualificazione di PalaGalerno più il recupero di scuole e l’avvio di interventi per l’efficientamento del trasporto pubblico.

Messina
Il progetto “a consumo suolo zero” parte dalla zona sud della città e mira a risolvere diverse problematiche: la frammentazione del paesaggio edilizio, la sperequazione nella distribuzione della ricchezza e l’emergenza casa. È prevista la riqualificazione edilizia ed energetica del patrimonio edilizio esistente, ma anche il miglioramento dei trasporti e la creazione di servizi ai cittadini.
Vicenza
Il progetto punta sulla riqualificazione dei vuoti, cioè gli spazi dismessi creati dalla delocalizzazione degli insediamenti produttivi, identificati come “energie grigie”. Sono inoltre previsti interventi sui parchi esistenti (energie verdi), investimenti per la mobilità sostenibile (reti) e bonifiche.

Ancona
Il programma prevede la riqualificazione del waterfront urbano, che arriva a toccare anche quartieri periferici. L’area è caratterizzata da marginalità economica e sociale, importanti dinamiche demografiche legate alla immigrazione, diffuso degrado edilizio ed elevati fattori di rischio idrogeologico.

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Periferie e ruolo della Cgil

Ognuna con le sue peculiarità e la sua storia le periferie, figlie di una stagione di edilizia economica e popolare o dello spontaneismo, hanno in comune un risentimento nei confronti delle amministrazioni pubbliche incapaci a trovare soluzioni alle difficoltà e alla domanda di giustizia sociale dei residenti anzi interpretandole spesso più come un problema che un’opportunità. Solo nell’ultimo decennio sono diventate i luoghi dove sempre di più si intrecciano reti informali fatte da associazioni, comitati, movimenti, imprese locali o singole persone che danno risposte in modo pragmatico e non ideologico scombinando gli schemi classici di partecipazione e sviluppo ,dove, per quello che dicevamo prima, anche la pubblica amministrazione è costretta ad assumere un nuovo ruolo che eviti politiche calate dall’alto se non vuole perdere quel poco di autorevolezza rimastole (lo conferma la sempre maggiore astensione o il voto dato a formazioni antipolitiche).
In questa stagione di forti cambiamenti e contraddizioni anche le OO.SS, e con esse la Cgil, hanno vissuto il loro declino rappresentativo privilegiando più un ruolo istituzionale con la politica di territorio, , piuttosto che incidere, essere protagonisti dei cambiamenti e orientare le scelte.
La realtà invece ci dice che manteniamo una forte struttura organizzativa, forse l’unica nel panorama associativo, che siamo capillari ma che spesso ci limitiamo a interpretare il nostro ruolo di prossimità con l’efficienza ed efficacia del nostro sistema servizi delle nostre Camere del Lavoro, delegando la rappresentanza politica allo spontaneismo associativo di quartiere al quale associazionismo vanno riconosciute capacità di ascolto, presenza attiva e competenze specifiche.
Allora il nostro primo impegno è quello di fare il nostro mestiere e di ricollegare il lavoro alle persone e al territorio, perché la periferia diventa sinonimo di abbandono quando in essa il lavoro non rappresenta più il centro delle relazioni sociali ed economiche.
In sintesi la Cgil ha un sistema organizzativo e un personale politico che può prendere di petto i bisogni della periferia romana vecchia e nuova declinandone le differenze e le caratteristiche e come definito nell’ultima conferenza di organizzazione rilanciare con la contrattazione sociale e territoriale un nuovo protagonismo. Le astrattezze accademiche sono utili per un buon bagaglio di conoscenze ma la Cgil come pochi è in grado di intercettare ed elaborare politiche rivendicative che attraverso “la qualità del lavoro” incrocino i temi e le aspettative delle popolazioni residenti .




Smart cities e Urban Transformation: al via il nuovo Fondo investimenti per l’abitare di Cdp

100 milioni di euro per servizi di sharing, laboratori di arti e mestieri, centri sportivi polifunzionali e co-working per l’innovazione
Al via il nuovo Fondo investimenti per l’abitare (Fia2) finalizzato alla trasformazione di 14 grandi città italiane in smart cities: la Cassa depositi e prestiti, in qualità di anchor investor, ha stanziato 100 milioni di euro nel nuovo fondo che sarà gestito dalla controllata Cdp Investimenti Sgr. Alla capitalizzazione parteciperanno anche altri investitori istituzionali di livello internazionale, con l’obiettivo di raggiungere la quota di 1 miliardo di euro.

Il nuovo Fondo ha l’obiettivo di riqualificare e riconvertire i complessi immobiliari in disuso nelle città donandogli una nuova vita grazie a progetti di urban transformation. Residenze in affitto con servizi di sharing, laboratori per apprendimento di arti e mestieri, centri sportivi polifunzionali a costi accessibili, poli di smart co-working per l’innovazione: queste alcune delle nuove destinazioni degli edifici recuperati.

In aggiunta all’opera di riqualificazione, il fondo realizzerà una nuova offerta abitativa in locazione diffusa, proponendo nuove soluzioni di qualità affiancate a servizi integrati che possano rispondere alle esigenze di mobilità e ai nuovi stili di vita della collettività.

Questo nuovo progetto parte facendo leva sul programma di housing sociale, per cui Cdp ha stanziato 3 miliardi di euro finalizzati alla realizzazione di 20.000 appartamenti a canone calmierato e 8.500 posti letto in residenze temporanee.

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Terremoto, Casa Italia: un piano da 75 miliardi di euro in 15 anni

Il Governo illustra il pacchetto di misure già adottate dal governo e presentate al Parlamento nell’ultimo disegno di legge di bilancio per la prevenzione strutturale del Paese: risorse finanziarie, incentivi e bonus, cantieri in corso e programmati, linee-guida per la progettazione
Settantacinque miliardi in 15 anni. Per la prima volta un governo pianifica la prevenzione strutturale del Paese in contrasto al rischio sismico e idrogeologico. Presentate oggi al Cnr di Roma ‘Casa Italia’, il pacchetto di misure già adottate dal governo e presentate al Parlamento nell’ultimo disegno di legge di bilancio per la prevenzione strutturale del Paese: Piani, risorse finanziarie, incentivi e bonus, cantieri in corso e programmati, linee-guida per la progettazione, nuove opportunità per le città, la famiglie e le imprese.

‘Casa Italia’ illustrato nel dettaglio dal direttore di Italia Sicura, Mauro Grassi, che presenta “il fondo pluriennale di 47,5 miliardi per opere di prevenzione e infrastrutturazione del Paese, i 9,8 miliardi per la lotta al dissesto idrogeologico, i 6,8 miliardi per l’edilizia scolastica, 7 miliardi per la ricostruzione post terremoto centro Italia e gli 11,6 miliardi di incentivi per i privati per ristrutturazioni antisismiche e di efficienza energetica”.

Il super-fondo da 47,5 miliardi verrà utilizzato soprattutto per consentire un’imponente opera di prevenzione di lungo periodo, in particolare nei settori del dissesto idrogeologico, della riduzione del rischio sismico e dell’edilizia pubblica, specialmente scolastica.

Queste risorse si affiancano ad importanti fondi già specificamente indirizzati a due settori prioritari nell’agenda del Governo: per contrastare il fenomeno del dissesto idrogeologico sono stati infatti previsti 7,6 miliardi della nuova programmazione 2015-2023, insieme ai 2,2 miliardi recuperati dalla precedente programmazione, 6,8 miliardi sono stati destinati all’edilizia scolastica e consentiranno l’apertura di 5300 ulteriori cantieri rispetto ai 3100 già conclusi. I 7 miliardi per i territori colpiti dal sisma nel Centro Italia daranno il via alla ricostruzione degli immobili pubblici e privati e delle attività produttive. Su tutto il resto del territorio nazionale è da registrare invece il rilevante impegno dello Stato per agevolare i lavori di ristrutturazione dei privati, dalle unità immobiliari ai condomini, con detrazioni fiscali fino all’85% della spesa per chi aumenta la sicurezza antisismica e fino al 70% per chi effettua interventi di efficienza energetica.

Per consentire l’utilizzo più efficace di questi strumenti potenziati, che avevano avuto già un largo successo in passato, in ‘Casa Italia’ è stata prevista anche la possibilità di cedere il credito d’imposta alla ditta che abbia effettuato i lavori o ad altro soggetto e il recupero della detrazione in 5 anni anziché in 10. “Dobbiamo essere primi nella prevenzione- dice il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti- per questo abbiamo messo in campo il progetto Casa Italia”. Per il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Graziano Delrio, “da Italia Sicura a Casa Italia, il Governo ha iniziato da subito a prendersi cura del territorio e delle città, a fianco dei cittadini e dei sindaci, sbloccando risorse e con una programmazione solida e estesa nel tempo. Dalle scuole alle periferie alle strade statali– dice Delrio- stiamo recuperando anni di mancati interventi di manutenzione, per garantire sicurezza, rispetto dell’ambiente e qualità di vita. Sostenere con incentivi rafforzati in Stabilità la rigenerazione energetica e antisismica dei condomini e delle abitazioni degli italiani, va nella direzione del prendersi cura delle nostre comunità, nei centri e nelle periferie, scegliendo la strada del riuso, di una sicurezza durevole e di interventi innovativi e intelligenti”.

Erasmo D’Angelis, capo della Struttura di missione #italiasicura, ricorda che “abbiamo alle spalle una vera ecatombe con circa 170 mila vittime sotto le macerie degli ultimi 40 terremoti dal 1908 e almeno 5800 morti nelle devastazioni di frane e alluvioni degli ultimi 40 anni. Per decenni, dal dopoguerra, abbiamo solo riparato e risarcito danni per 3.5 miliardi l’anno per il dissesto idrogeologico e di 2,5 miliardi l’anno per terremoti, senza aumentare la sicurezza”.

Per Giovanni Azzone, responsabile del progetto Casa Italia, “dobbiamo fare in modo di aumentare sempre più la sensibilità dei cittadini sul problema. Si tratta, per noi, dello sforzo più importante e sentito”, conclude.

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ATER: Firmato il bando per la riqualificazione del quarto piano

Il Commissario Straordinario di ATER Roma Dott. Giovanni Tamburrino scrive a Corviale Domani e ci dà la bella notizia: “…il coinvolgimento e la partecipazione delle Associazioni e Comitati di cittadini e inquilini che lavorano sul territorio con i quali abbiamo intenzione di rafforzare e consolidare il dialogo già avviato. Corviale Domani costituisce per ATER, per la sua storia e per l’importante realtà che rappresenta, uno degli interlocutori cui continueremo a prestare la massima attenzione. Colgo, allora, l’occasione per informarLa che è stato appena firmato dal Direttore generale arch. Mazzetto il bando internazionale che porterà alla riqualificazione del quarto piano di Corviale da oltre un decennio, come tante volte da voi denunciato, occupato abusivamente…”

Lettera ATER




Questo referendum non darà risposte all’Italia dei “Robinù”

Senza soluzione – Nell’Italia profonda una società di ragazzini sopravvive a se stessa. Ma né Renzi né nessun Trump li salverà.
Trump ha vinto e tutti credono di sapere il perché. Grillo in particolare, che addirittura si esalta per la vittoria del miliardario americano, parla di una Apocalisse che si è abbattuta sulle élite, sui giornali, sulle televisioni, sui sondaggi e sugli intellettuali. Non avrebbero capito niente dell’America profonda, quella più lontana dalle stanze del potere politico, economico e culturale. Sempre Grillo profetizza che la stessa Apocalisse si abbatterà sull’Italia (non si capisce se con l’aiuto di Salvini e la Meloni, come a Roma) a opera degli eroi del Movimento 5 Stelle dei quali si conoscono, al momento, una diligente attività parlamentare e barricate solo virtuali, oltre che la tendenza alla parsimonia e gli inni all’onestà. Uno tsunami proveniente dalle periferie si preparerebbe a spazzar via la cocuzza Hillary Renzi, tutto il cocuzzaro delle lobby annesse e connesse, e praticamente ciò che resta di una democrazia in crisi, conquistando i palazzi della politica. Al momento non si capisce se il mondo che verrebbe alla luce sarebbe una versione rinnovata della democrazia occidentale o qualcos’altro.

Pur non pretendendo di salire sull’Arca di Noè dei sopravvissuti, vorrei ricordare che la mia squadra ha raccontato la rivolta dei forconi in Sicilia e la sommossa di Nichelino in Piemonte ben prima che il Movimento divenisse così forte. Inoltre il 6 e il 7 dicembre porteremo con una certa emozione nei cinema Robinù, ovvero la descrizione spietata di un vero e proprio stato sociale criminale che a Napoli impiega nello spaccio della droga decine e decine di migliaia di persone. Una realtà sulla quale, nonostante i nostri precedenti lavori e i ripetuti appelli di Roberto Saviano che dedica a essa il suo ultimo libro, si preferisce chiudere gli occhi.

La scuola pubblica continua a espellere vergognosamente, nell’indifferenza generale, ragazzini nell’età dell’obbligo scolastico, violando impunemente la legge e facendo in modo che le classi, ripulite dagli indisciplinati ribelli insofferenti alla didattica, guadagnino tranquillità ed efficienza. Le donne, che la mattina preparano come tutte le altre mamme con amore i loro bambini per andare all’asilo, vendono cocaina diciotto ore al giorno, operaie di una immensa fabbrica illegale, e finiscono in carcere, separandosi drammaticamente dai loro piccoli, per mille euro al mese o poco più; mentre la ricchezza prodotta finisce nel Pil, a beneficio di tutti noi “perbene” e contribuisce al buon andamento della società. Bambini di otto anni sfilano in una via centrale a Napoli, impugnando pistole vere, per fare un’altra “Stesa”, come chiamano le scorribande con gli scooteroni; e muoiono a decine ventenni, diciottenni, sedicenni, nella lotta senza fine per contendersi il territorio e le piazze di spaccio dopo che i vecchi boss sono andati in galera o si sono pentiti.

Tutte le forze politiche girano la faccia dall’altra parte; e solo qualche uomo di Chiesa fa sentire la sua voce per rompere il silenzio. Il dibattito s’accende e l’azione repressiva s’intensifica quando per errore cade una vittima innocente. Poi si torna a parlare de “l’altra Napoli”, delle meraviglie turistiche della città, che vengono usate come lapidi sui morti dimenticati e su una grande questione sociale lasciata nelle mani della criminalità organizzata.

Eppure nelle storie della guerra delle “paranze dei bambini” non c’è soltanto la corsa all’oro, che ci racconta Gomorra, o il non volersi rassegnare a un destino di sottoprecariato pagato spiccioli. Un popolo giovane, il più giovane d’Italia, conduce la sua esistenza tra il quartiere e il carcere come fosse un unicum abitativo, sognando soldi facili, sesso, potere, come tutti i ragazzi di oggi. Per realizzarli non ha altro che coraggio e disprezzo della morte.

Nelle serie televisive i caratteri dei personaggi tendono ad assomigliare a maschere a volte grottesche; i veri baby boss di Robinù, invece, sono altrettanto spietati e cinici ma, contemporaneamente, esprimono una forza sentimentale straordinaria, passione per la vita, amore infinito per la propria famiglia, voglia di far figli già a diciotto anni, gusto del rischio e dell’avventura. Tutte cose che la nostra società ha perduto da tempo. Nel centro storico di Napoli o a Caivano si diventa nonni all’età in cui nella società normale ancora si esita a concepire il primo figlio. E non certo perché si rompe il preservativo.

Dopo che questa infinita campagna referendaria sarà finita e avrà vinto il Sì di Renzi ci si occuperà finalmente di questi bambini che sono stati fino a oggi “dimenticati” dal Partito democratico? Non ne ignoravano certo l’esistenza ma erano incapaci di concepire un piano di vero risanamento sociale che richiederebbe un’idea di come redistribuire la ricchezza e di chi e come debba pagare il prezzo di questa redistribuzione.

Ma anche se vincesse il No non ci sarebbe ragione di essere ottimisti. La rivolta che corre nella Rete e travolge il vecchio ordine sociale, di cui Trump o Grillo o Salvini si fanno portavoce, è dominata dall’idea della tolleranza zero, da un’ansia di ordine e sicurezza che prova a tornare alla patria-nazione, qualche volta a una patria ancora più piccola, a chilometro zero, abitata da nostri simili a somiglianza dei social. Una comunità con pochi stranieri, “solo se servono e sono comunque indispensabili” (sicuramente per pulire le case e il culo dei vecchi costretti sulle sedie a rotelle), darebbe vita a una autarchia ecologica, come sognava in Austria il neonazista Haider, con meno scambi, spostamenti, viaggi e molto tempo passato sul proprio computer o nell’orto a produrre lattuga con fertilizzanti naturali.

Un mondo talmente noioso da avere sempre bisogno di ricchi da spiare, di potenti corrotti da cacciare, di nemici da inseguire e giustiziare. Per il momento a colpi di clic. Far lavorare i baby boss non avrebbe alcun senso in una società in cui il lavoro sarebbe considerato una ideologia del passato. Solo piccole opere essenziali, senza nuvole, senza archistar, senza inutili ponti e inutili treni che corrono a inutile alta velocità, senza avventure spaziali e altre Olimpiadi. Così come stiamo potremmo star meglio, soltanto risparmiando e riducendo le spese inutili e le macchine blu e gli stipendi dei parlamentari. E se qualcuno non si accontentasse del salario di cittadinanza e si ostinasse a delinquere? In galera! Naturalmente.

Ce lo vedete un simil Trump a occuparsi veramente degli abitanti di Quarto Oggiaro, di Secondigliano, di Tor Bella Monaca o dello Zen di Palermo, quelle periferie dove si urla “Prima gli italiani!”? Se si urlasse “Prima le periferie!” sarebbero disponibili quelli che, non essendo zingari, immigrati, clandestini, abitano negli altri quartieri e oggi applaudono entusiasti? Per Renzi e per i suoi avversari è più comodo parlare di tagli, risparmi, riduzione delle tasse e lotta alla corruzione che studiare il modo di indirizzare parte della ricchezza accumulata, senza necessariamente espropriarne i proprietari, verso quelle parti della società a cui è stata sottratta, usandola e investendola nell’interesse di tutti.

Oggi a occuparsi delle grandi ingiustizie restano in maniera aberrante quelli dell’Isis e i Robinù, che li imitano a modo loro, sia pure rivolgendo la violenza prevalentemente contro se stessi. Gli arrabbiati si affidano ai miliardari evasori fiscali per scatenare l’Apocalisse. Ma se si spegnessero i giornali e le tv, gli intellettuali smettessero di pensare, e i sondaggisti di sondare, dopo la vittoria di Trump, il mondo sarebbe migliore, la democrazia sarebbe più forte e le periferie conterebbero di più? Non mi entusiasma dover scegliere tra questo sì e questo no al Referendum, come non mi entusiasmava la candidatura di Hillary. Ma, non so voi, io a New York sarei in strada a manifestare. E scusate se è inutile.

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Primavalle, la montagna del sapone

Storia di una tra le più controverse borgate ufficiali di Roma
Edificata a partire dal 1936, la borgata Primavalle è oggi un quartiere tutto da scoprire: da sempre caratterizzata da povertà, ignoranza, degrado e criminalità, è tuttora un’area difficile da percorrere, ma con una volontà di riscatto che si fa sempre più urgente.
“Io venivo da Borgo, prima m’hanno mandato a Shangai e poi a Primavalle. Perché Mussolini voleva così, a lui serviva di fare il centro, di fare l’impero, e lì doveva essere tutto libero…libero da noi poveracci”

Dal film Primavalle, la montagna del sapone, di Riccardo Zoffoli

Tutta la zona limitrofa al quartiere di Primavalle a Roma è sempre stata caratterizzata da povertà e criminalità. Basti digitare ancora oggi su Google il termine “Primavalle” per vedersi rispondere “quartiere malfamato”, “spaccio”, “quartiere polveriera”. C’è ancora molta strada da fare per abbattere i muri dello stigma rispetto a questa zona, ricordata anche per la vicina Valle Aurelia, dove negli anni Ottanta Maria Immacolata Macioti condusse ricerche sul ricordo della comunità dei fornaciari.

Ma qual è la genesi di questa “borgata ufficiale” della capitale? Col piano regolatore del 1931 firmato Marcello Piacentini, Benito Mussolini decreta la divisione tra classi della città di Roma, operando una vera e propria gentrification ante litteram. Al momento dell’approvazione del piano del 1931 gli abitanti della città eterna erano quasi 800.000. Il Piano prevedeva una città di 2 milioni di abitanti, con una espansione “a macchia d’olio” di cui Roma ancora porta le cicatrici, soprattutto nella periferia Est. Nel centro storico, tra la Suburra, il Palatino, Borgo Pio, il piano regolatore del fascismo progetta e realizza pesanti sventramenti per favorire i flussi di traffico di attraversamento e isolare i monumenti e le aree archeologiche a scapito dell’edilizia storica minore. Per fare di Roma una immagine museificata e ferma nella storia.

Nello stesso tempo vengono costruite “case rapide e rapidissime” come nel quartiere Tor Marancia, definito Shangai o “piccola Corea” per evidenziarne le condizioni misere. E soprattutto vengono istituite 12 borgate ufficiali di cui Primavalle fa parte. La borgata si trova nel quadrante Ovest-Nord-Ovest della città, all’interno del Grande Raccordo Anulare (GRA), tra Via Boccea e Via Trionfale.

Gli abitanti di Primavalle provenivano, per la maggior parte, dalle zone dove vennero realizzate Via della Conciliazione e Via dei Fori Imperiali. Romani “de Roma”, come si dice ancora oggi per stabilire una demarcazione tra chi è nato a Roma da più generazioni. L’edificazione del nuovo quartiere dormitorio fu iniziata a partire dal 1936 dall’allora Istituto Fascista Case Popolari (IFCP). La borgata venne inaugurata nel 1939 e si sviluppava lungo l’asse viario centrale di Via di Primavalle; venne poi completata negli anni Cinquanta e successivamente subì anche uno sviluppo edilizio abusivo, soprattutto nella parte Nord del quartiere, e finì per essere soprannominata “la montagna del sapone” per via dell’estrema povertà del quartiere e (estrema ignoranza, dettata dall’analfabetismo che caratterizzava molti quartieri popolari anche centrali come Testaccio e San Lorenzo) degli abitanti, e fu set del film Europa ’51 di Roberto Rossellini, con la bellissima Ingrid Bergman che gli abitanti ricordano anche molto generosa nel regalare denaro in quell’ambiente di estrema povertà.

La zona è emblematica di povertà, ignoranza e degrado anche per il regista Ettore Scola che tra valle Aurelia e Monte Ciocci gira il film Brutti Sporchi e Cattivi (1976) con Nino Manfredi, che racconta la storia di una famiglia di baraccati attraverso le riprese originali nei luoghi in cui vivevano gli operai della “Valle dell’Inferno”.

Sembra che il nome della “Valle dell’Inferno”, come è stata chiamata per decenni la zona, sia da attribuire proprio al salire del fumo dai comignoli delle varie fornaci per la produzione di mattoni. Ma come per tutte le leggende metropolitane, però, mancano fonti che attestino l’origine del nome. A partire dal ‘400, con la costruzione della fabbrica di San Pietro, le fornaci ebbero uno sviluppo intenso e sorsero a decine, addirittura a centinaia, su terreni che erano per lo più adibiti a scopi agricoli, fino a occupare uno spazio vastissimo nell’area compresa tra il Gianicolo, il Colle Vaticano, Valle Aurelia, Monte Mario e Monte Ciocci.

Il film di Scola immortalò su pellicola la situazione, ancora nella metà degli anni Settanta, di tanta parte della periferia romana. Negli anni Cinquanta, inoltre, si consumò un terribile delitto, a sfondo sessuale, su una bambina, Anna Bracci, alla quale è intitolato un parco (questo un articolo sulla vicenda pubblicato da Il Tempo).

La “montagna del sapone” nelle cronache, è stata anche tristemente nota per il rogo di Primavalle che nel 1973, in pieni anni di piombo, ebbe come obiettivo la casa di Mario Mattei, dirigente del partito di destra Movimento Sociale Italiano. Nel rogo della sua casa persero la vita i suoi due figli, rispettivamente di 22 e 8 anni. Mattei era segretario della sezione Giarabub di Primavalle. In Via Bernardo da Bibbiena sono stati a lungo visibili i segni dell’incendio. Gli autori vennero identificati in esponenti della sinistra extraparlamentare Potere Operaio.

Primavalle è una borgata ancora molto difficile da percorrere, dove la volontà di riscatto si fa però sempre più urgente e dove negli ultimi anni è nato Muracci Nostri, un progetto popolare nato dal basso, in collaborazione con artisti e realtà locali, per portare in periferia opere bellissime di street art. Il nome del progetto cita “Le parole non sono che muri”, incipit di una famosa e bella poesia di R. M. Rilke. Alla street art è votato anche il successivo progetto Pinacci Nostri, che prevede la realizzazione di 56 opere nel parco della Pineta Sacchetti.

La street art è però solo uno dei tasselli del complesso mosaico per la costruzione di comunità e identità e la loro auto rappresentazione che le periferie del mondo hanno a disposizione, e quelle romane non fanno eccezione. Tutti possiamo ammirare queste opere di arte di strada su Instagram e su Pinterest.

Nelle periferie, però, i muri innalzati dalla solitudine e dal pregiudizio si possono combattere solo aprendole al mondo e portandoci dentro tutta la città, da tutti i quartieri e da altre città.

Non può essere solo la street art a rendere attraenti e cool le periferie, bisogna andarci e visitarle interrogando i luoghi e camminandoci attraverso, insieme alla gente che le abita, per conoscerne la loro vera storia e identità. Senza assolutamente dimenticarne la genesi. Quella testimoniata dalle strade e dai palazzi, dai parchi e dai monumenti e da quello che i luoghi sanno raccontarci molto di più e meglio di quanto possa fare qualsiasi opera d’arte che li ritragga.

Abbiamo iniziato questo nostro viaggio nei quartieri che cambiano a Roma e che sono o iniziano ad essere toccati dalla gentrification, seguendo la metafora del viaggio da Brooklyn al Bronx, a Coney Island, intrapreso dalla gang The Warriors nel film del 1979, diretto da Walter Hill. Dopo la via Casilina, la Prenestina e Primavalle, proseguiremo nei prossimi mesi per scoprire altri segreti della Roma che cambia.

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Più valore dal recupero delle periferie

Progetti fisici, rivolti a riqualificare nel concreto edifici pubblici o di edilizia pubblica, a rinnovare il volto di spazi di aggregazione e piazze, a incidere sul miglioramento delle infrastrutture di mobilità urbana, a ridurre i consumi di risorse e suolo, in ottica smart. Al tempo stesso, programmi immateriali, che hanno alle spalle, spesso, ore e ore di confronto e concertazione con il territorio e che propongono attività per il recupero sociale, la formazione, l’accompagnamento verso nuove forme imprenditoriali.

Piani che lavorano su un nuovo concetto di periferia, individuato in ambiti degradati, ma non per forza marginali rispetto ai centri storici delle città: anche per questo, l’impatto atteso per ogni trasformazione ha, quasi sempre, numeri ampi e promette di propagarsi ben al di là del confine delle azioni in campo, incidendo in modo profondo sia sulla vivibilità di un luogo, che sul valore (anche immobiliare) di porzioni vaste di tessuto urbano.

Sono i contenuti dei progetti presentati dalle amministrazioni comunali italiane in risposta al bando per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie dei capoluoghi di provincia, lanciato in primavera dal Governo e a cui concorrono 121 progetti. La graduatorie dei programmi che saranno finanziati è attesa per fine novembre: sul piatto, ci sono ufficialmente risorse per 500 milioni e negli annunci del premier Renzi (ma non risultano ancora in alcun documento ufficiale) per 2,1 miliardi.
Diciotto proposte fra quelle presentate, da Vicenza ad Ancona, da Bari a Messina, sono oggi sotto la lente di ingrandimento di Urbanpromo, la tredicesima edizione dell’evento organizzato dall’Istituto Nazionale di Urbanistica e da Urbit a Milano, per riflettere sulle politiche di governo e sviluppo del territorio, all’insegna dell’hastag #progettaitalia. «Leggiamo le città – spiega la presidente dell’Inu, Silvia Viviani – e cerchiamo di comprendere se e quanto le occasioni di finanziamento a pioggia, promosse in più occasioni dallo Stato, abbiano contribuito all’affermarsi di una nuova politica di progettazione urbana. La logica della rincorsa al finanziamento, che in passato ha indotto le amministrazioni a rispolverare all’ultimo progetti chiusi nei cassetti, va superata. Fare urbanistica oggi significa vagliare le risorse disponibili, approfondire i progetti esistenti e saperli coniugare nel quadro di programmi complessi, che dimostrano di avere alla base una strategia e una visione di futuro».

Dal confronto fra ciò che i capoluoghi hanno presentato emergono una serie di tendenze interessanti. «A partire – commenta Marisa Fantin, vicepresidente dell’Inu – da come è stato interpretato il concetto di periferia. Il bando, su questo punto, non dava un criterio per l’individuazione di un luogo preciso. Ma il degrado, il senso di insicurezza o abbandono non è detto che siano appannaggio dei quartieri che sono ai margini della città. Anzi, spesso riguarda zone inserite nel tessuto consolidato e non lontane, o addirittura parte, dei centri storici. Aree che, specie nei capoluoghi medio-grandi, sono ricche di valori, in termini di patrimonio costruito e di memoria e su cui diventa una priorità investire». Fra i casi che meglio dimostrano questa tendenza, quello di Perugia, che si occupa del quartiere operaio intorno alla stazione, o quello di Vicenza, dove il programma sviluppato dal Comune, insieme all’Ance e all’Ordine degli architetti, insiste sulla Spina ovest della città, un insieme di zone ex produttive che connettono le mura medioevali con i nuovi insediamenti e che necessitano di un rilancio.

«Altro aspetto comune a tutti i progetti esaminati – spiega Carlo Gasparrini, docente di Urbanistica all’Università Federico II di Napoli e coordinatore del convegno di Urbanpromo – è il grande peso dato alla questione ambientale. Rigenerazione dei suoli, riciclo delle acque, mobilità dolce, sviluppo di iniziative di agricoltura urbana sono leit motiv comuni, che ritornano nei documenti delle città». Ad esempio, il progetto di Bologna, uno fra i più strutturati, lavora proprio sugli spazi aperti e sul recupero di edifici esistenti o sulle interconnessioni. Cosi anche quello di Nuoro è incentrato sul tema della corona verde.

Sempre in tema di recupero del costruito, oggi a Urbanpromo, Cdp Investimenti Sgr, che gestisce il Fondo investimenti per la valorizzazione del patrimonio pubblico, fa il punto sul riuso di ex ospedali e caserme. In particolare, si è concluso lo scorso 4 novembre con 42 progetti partecipanti laprima fase del concorso per la riqualificazione a Firenze dell’ex nosocomio militare San Gallo: a giorni sara annunciata la shortlist dei tre finalisti. A breve partirà invece il concorso per l’ex caserma Sani di Bologna.

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Rammendare le periferie non basta

Dopo il caso Milano si riapre il dibattito sulle periferie. L’intervista all’antropologo e architetto Franco La Cecla. «È l’idea stessa di periferia che va eliminata. Perché figlia di un’urbanistica che si è dimenticata di essere una scienza umana e ha affidato i suoi destini ai tecnici»

Che cosa sono le città?, si chiedeva Shakespeare. E la risposta, per lui, era semplice: gente. Le città non sono altro che gente. Le città sono essenzialmente il luogo in cui si gioca la convivenza umana.
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Nato a Palermo nel 1956, è antropologo e insegna Laboratorio di ricerca sulle città al Dams di Bologna. È consulente del Renzo Piano Building Workshop

Sono il luogo in cui, nonostante tutto — nonostante terrorismo, stress, paura e crisi — le persone riescono a trovare un modo per convivere.

Ma le città non si salveranno dalla catastrofe sociale e dal mutamento che avanza, ci spiega Franco La Cecla, se non cambieranno la loro idea di periferia. E, di conseguenza, la loro idea di centro. Anzi, aggiunge La Cecla, antropologo e architetto che insegna alla Naba di Milano e ha da poco pubblicato un avvincente saggio, Contro l’urbanistica (Einaudi), forse è proprio l’idea di periferia che deve essere cancellata. A tutto vantaggio di un altro sguardo, che ricollochi al cuore della città — il cuore come un centro diffuso — l’uomo e le sue pratiche di relazione. Con gli altri e con gli spazi che, in comune, abitiamo.

Professor La Cecla, dobbiamo sbarazzarci delle periferie?
Dobbiamo sbarazzarci di un’idea. Chi parla di periferie spesso lo fa partendo da un pensiero sbagliato, un errore di fondo che compromette anche le migliori intenzioni. Le periferie sono il pensiero sbagliato di un’urbanistica che ha mitizzato la condizione operaia, ma le ha negato il centro della città.

Quindi l’errore sulle periferie non è formale, ma di sostanza…
Esattamente. Non si tratta — o, almeno, non c’è solo questo — di cattiva qualità degli edifici, di pessima progettazione e via discorrendo. La periferia contiene in sé un’idea pericolosa, facilmente mitizzabile, pensiamo ai tanti discorsi pietistici sugli slums , o strumentalizzabile, per esempio lasciando intere parti di città in una situazione di perenne emergenza. Se le periferie ci devono interrogare, devono interrogarci alla radice, nel profondo.

Si tratta di far uscire questi spazi dall’emergenza, quindi?
Le periferie non bisogna, come dice il mio amico Renzo Piano, “rammendarle”. Le periferie bisogna eliminarle. Un errore così grosso non può essere “aggiustato”, né migliorato. Sono luoghi, le periferie, a tal punto stigmatizzati che anche migliorandoli non se ne può cambiare la valenza.

Proprio da questi “luoghi”, ossia dalla periferia, arrivano però altri pensieri. Le cosiddette periferie sono vive, spesso più di tanti presupposti “centri” (amministrativi, finanziari, intellettuali)…
Si tratta semplicemente di uscire da un pensiero che ritarda una presa d’atto necessaria, che è poi quella che ci dovrebbe spingere a ripensare la cittadinanza dei luoghi. Oggi è questa la sfida: innervare la cittadinanza nei luoghi e nelle pratiche. Molti credono ancora possa esistere una residenza come funzione separata dall’abitare in una città. Chi abita una città, al contrario, vive la città, “è” la città. Per questo, vedo speranze in un futuro che va nella direzione di città riidentificate, dove la gente torna al centro. Proprio per questo, l’urbanistica non va lasciata nelle mani dei tecnici. L’urbanistica è una scienza umana, non un apparato tecnico-burocratico, ossia una disciplina che ha bisogno di tutti gli strumenti di osservazione della realtà sociale. Ma, di certo, non ha bisogno di tutte le formulette inventate dagli urbanisti negli ultimi cinquant’anni. L’urbanistica si è data un tono di essere una tecnica, invece è una scienza umana che si è dimenticata di essere tale. Ma prima ancora di prescrivere, l’urbanistica dovrebbe avere, soprattutto, la capacità di osservazione. E se ricominciasse a osservare comprenderebbe che è a tutt’oggi un miracolo che, nelle società occidentali, dove l’individualismo impera, la gente trovi nonostante tutto un modo di convivere.

Oggi, ripartire dalle periferie può significare questo: sbilanciare l’egocentrismo sociale…
Può significare che dobbiamo farla finita con le periferie e ripensare la città non a misura di urbanista, ma a misura di urbanità. L’urbanità è una dimensione olfattiva e visiva, tattile e materiale, non una mera congettura. La ritroviamo nei mercati di strada che sono una forma importantissima di convivenza, convivialità e relazione. E, non a caso, spesso sono avversati da regimi politici di varia natura, in tutto il mondo, ma anche da un’ideologia da world city che, per fare spazio alle proprie manie di grandezza e alla propria immagine da cartolina, distrugge la forza viva delle relazioni nei luoghi.

Il cibo, in questo caso, non è solo esposto, ma praticato. Nei mercati torna a essere relazione, di dono e di scambio…
Io credo che una città sia definita proprio dalle occasioni pubbliche di cibo che offre. Questo perché il cibo venduto e cotto per strada è una chiave dei luoghi. Il cibo come convivialità istituisce un paesaggio fatto di ritmi quotidiani-urbani. Non solo la vitalità, ma l’economia informale e la rete solidale che nascono attorno alla presenza del cibo per strada sono un tratto importante dell’urbanità. Pensi a quanta gente vive, grazie a ciò che trova o compra nei mercati, con dinamiche spesso informali di credito, baratto, scambio… La Fao, recentemente, ha fatto un convegno sui mercati di cibo di strada e ne è emerso, dati alla mano, che l’economia o, meglio, le economie formali e informali che si diramano attorno al cibo e ai mercati di strada sono importantissime. Importantissime perché, da un lato c’è un tramite diretto tra il mondo dei produttori e quello dei consumatori, dall’altro si è constatato che dove si uccidono i mercati di strada, crescono la miseria, l’impoverimento e la città degrada, perché non viene vissuta, ma subita.

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