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Poveri noi, dossier di openpolis sulla povertà in Italia

Poveri noi, dossier a cura di openpolis e ActionAid sulla povertà in Italia dopo 10 anni di crisi economica.

Openpolis, nota associazione di promozione culturale per la pratica della trasparenza pubblica, ha realizzato e pubblicato, in collaborazione con ActionAid, un mini dossier sulla situazione economica degli italiani a 10 anni dall’inizio della crisi economica.
10 anni di crisi

In pochi anni la popolazione in povertà assoluta, che non è in grado di permettersi un paniere di beni considerato minimo per una vita accettabile, è più che raddoppiata passando da 2 milioni di persone nel 2005 a 4,6 milioni di persone nel 2015. L’incremento più drammatico tra 2011 e 2013: in un solo triennio i poveri assoluti sono passati dal 4,4 al 7,3% della popolazione.
Lavoro e povertà

Una delle cause principali dell’impoverimento delle famiglie è la mancanza di lavoro. Quasi il 20% delle famiglie in povertà assoluta ad esempio ha la persona che solitamente provvedeva al sostenato economico, disoccupato e in cerca di occupazione.

Ma oltre alla disoccupazione influisce molto anche il sistema di occupazione che si è venuto a creare nel periodo di crisi ad influire. Infatti molti lavori sono precari a termine, intermittenti, oppure di poche ore settimanali.
Disoccupazione e povertà giovanile

Altro drammatico aspetto che emerge dal dossier è la povertà giovanile. Se nel 2005 i più poveri erano gli anziani sopra i 65 anni, a distanza di 10 anni di crisi questo dato si è invertito; il tasso di povertà assoluta è diminuito tra gli anziani (sceso al 4,1%), mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni.
Welfare italiano non adeguato

Purtroppo il welfare italiano, la cui spesa per lo Stato è pari al 21,4% del PIL ovvero sopra alla media europea del 19,5% del PIL, non è adeguato alla situazione. Infatti, fa notare il dossier, poca della nostra spesa sociale viene destinata ai soggetti che, con la crisi, hanno subìto maggiormente l’impoverimento. In Italia la tutela dalla disoccupazione e dal rischio esclusione impiega il 6,5% della spesa in protezione sociale, contro il 15,8% della Spagna, il 12,1% della Francia, l’11,7% della Germania e il 10,9% del Regno Unito.

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Iniziativa per il sociale nella periferia romana di Corviale

Coni e Lottomatica assieme per ‘Vincere da grandi
‘Vincere da grandi’, il progetto sportivo, culturale e sociale destinato alle famiglie italiane che vivono in contesti disagiati voluto da Coni e Lottomatica con il brand di Gioco del Lotto, arriva al Corviale, periferia sudovest della Capitale. Il numero uno dello sport italiano, Giovanni Malagò, assieme al presidente di Lottomatica Holding, Fabio Cairoli, e al calciatore della Roma, Alessandro Florenzi, hanno presentato l’iniziativa che fa tappa presso la struttura Ssd Calciosociale del Corviale.

Partito il 23 aprile dello scorso anno, il progetto ha coinvolto ad oggi circa 800 ragazzi 4 tappe: presso il Foro Italico di Roma, a Napoli (Scampia) con Giovanni Maddaloni presidente e maestro dell’Asd Star Judo Club, a Palermo (Zen) con Rachid Berradi, le prossime due tappe saranno Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, e appunto Corviale.

In un contesto sportivo ed educazionale di eccellenza, tutte le attività verranno seguite da tecnici federali e da campioni olimpici che seguiranno da vicino i ragazzi durante i corsi di calcio, atletica, ginnastica ritmica e calcio freestyle. Sono inoltre previsti percorsi e attività specifiche per i giovani con disabilità.

“Scampia e lo Zen di Palermo sanno quanto sia stata vincente l’idea grazie al gruppo Lottomatica che ha deciso di investire nel sociale attraverso il mondo dello sport –sottolinea Malagò durante il suo intervento-. Devo solo dire una parola: grazie, all’azienda Lottomatica. E’ stata una scelta vincente”.

“Questa per noi è una opportunità di realizzare in maniera concreta qualcosa per la collettività –aggiunge il presidente e ad di Lottomatica Holding Cairoli-. Nello specifico farlo per i giovani con la collaborazione del Coni è un onore. Con Malagò ci siamo trovati subito a definire questo progetto e, tappa dopo tappa, ci siamo convinti sempre più della bontà dell’iniziativa. In azienda si dice che una impresa di successo è quella che ha visione, voi qui siete una ambizione realizzata e dovete esserne orgogliosi”, conclude il numero uno di Lottomatica.

“Sono orgoglioso di far parte di questa famiglia, io sono romano. Conosco il lavoro che state facendo, voi bambini avete fatto un applauso a me ma dovete applaudire i vostri genitori, chi si impegna per farvi avere una infanzia felice e chi ha fatto sì che tutto questo fosse possibile”, aggiunge il giocatore della Roma Florenzi.

A prendere la parola è poi Massimo Vallati, responsabile del centro sociale di Corviale. “Questa è una storia che viene da lontano, in questa periferia il calcio sociale sta costruendo qualcosa che vuole cambiare questo quartiere. I ragazzi faranno tante cose imparando gli articoli della Costituzione, vogliamo costruire un futuro diverso per Corviale. L’anno scorso volevano bruciare il ‘Campo dei miracoli’ perché faceva paura, questo progetto è una risposta a chi voleva chiudere questa esperienza per paura della cultura, dei sorrisi e della energia di questi ragazzi”.

Infine Giovanni Maddaloni, padre della medaglia olimpica nel judo a Sydney, Pino Maddaloni che sottolinea come “con queste iniziative lo sport trasforma il futuro di un ragazzo”.

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La voce del Corviale ora anche in FM

RadioImpegno è la radio sostenuta da Anmil. Ad animarla è un team di associazioni in una sorta di staffetta notturna ai microfoni dalle 24 alle 7.

C’è un miracolo che si rinnova tutti i giorni, anzi tutte le notti, a RadioImpegno, la radio che non dorme mai e che va in onda in streaming, dal quartiere Corviale di Roma, dalle 24 alle 7. Ad animarla è un team di associazioni, che ha voluto rispondere coralmente all’attentato alla legalità sferrato, esattamente un anno fa, il 13 novembre 2015, proprio dove è stata data vita alla web radio al Campo dei Miracoli, dando il proprio in una sorta di staffetta notturna ai microfoni.

Tutto ha avuto vita dove si gioca “Calcio Sociale”, all’indomani di un rogo che ha mandato in fumo una delle strutture sorte su iniziativa di Massimo Vallati che, nato in questo quartiere popolare definito il grattacielo orizzontale più lungo d’Europa, ha voluto fare di questa periferia romana un laboratorio di integrazione. E il messaggio di RadioImpegno – a cui anche l’ANMIL (Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro) ha dato la sua adesione – si rinnova di notte in notte con una sfida a distanza tra chi distrugge e chi sogna un progetto di rigenerazione urbana per costruire un futuro di bellezza e giustizia per i nostri ragazzi. Un messaggio che viene lanciato proprio di fronte a quel serpentone senz’anima che si snoda per un chilometro, dove la vita resta imprigionata dentro il grigiore dell’asfalto.

E allora avanti con informazione, poesia, musica e spettacolo.

Tanti, tantissimi i testimonial che si avvicendano da mesi a RadioImpegno per dare voce a chi non ce l’ha o non ha spazio per farsi sentire. Un impegno che, da alcune settimane, non va più in onda solo in streaming ma anche in Fm, sulla frequenza 103.3, dalla mezzanotte sino alle 8.30.

E, di mese in mese, si moltiplicano le notti che l’ANMIL promuove al Corviale per diffondere la cultura della sicurezza sul lavoro e l’obiettivo di azzerare quel terribile numero di tre morti al giorno che ancora oggi macchia di sangue il nostro Paese.

Al microfono la giornalista Luce Tommasi, affiancata dalla responsabile dell’Ufficio Comunicazione e Relazioni esterne Marinella De Maffutiis, mantiene sveglie le coscienze di quanti, non solo nel mondo del lavoro, ma anche in quello della scuola, non hanno ancora acquisto una vera cultura della prevenzione.

“Qualcosa cambierà” recita uno dei testi che il talentuoso rapper Skuba Libre ha dedicato all’ANMIL per catturare l’attenzione soprattutto dei giovani e, prima di lui, la cantautrice Mariella Nava aveva regalato all’Associazione una magnifica canzone, “Stasera torno prima”, per raccontare l’inutile attesa di una bambina che non avrebbe più visto tornare a casa il padre al termine di una giornata di lavoro. Anche questi due artisti rinnovano puntualmente il loro impegno al Corviale, regalando ad ogni nuova “notte bianca” dell’ANMIL emozioni in musica.

“Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi e impegnati possa cambiare il mondo. In fondo è così che è sempre andata”, recita una delle frasi guida di RadioImpegno, che riprende i principi rivoluzionari di libertà, uguaglianza e fraternità. Ma al Campo dei Miracoli, al primo posto, è stata messa la solidarietà.

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Sala presenta il piano periferie: annullare il divario con il centro

Previsto un piano di investimenti complessivi da 356 milioni di euro, di cui la maggior parte, 296 per gli “ambiti strategici” e 60 per gli interventi diffusi.
Annullare il divario tra centro e periferie: è questo l’obiettivo per Milano annunciato dalla giunta guidata dal sindaco Giuseppe Sala, che ha presentato ieri il suo programma di governo per i prossimi quattro anni e mezzo.
Previsto un piano di investimenti complessivi da 356 milioni di euro, di cui la maggior parte, 296 milioni per gli “ambiti strategici” e 60 per gli interventi diffusi. Per la riqualificazione degli scali ferroviari dismessi gli interventi di rigenerazione partiranno dal 2019, ma nel prossimo biennio 2017-2019 la giunta punta ad inaugurare gli usi temporanei delle aree e a partire con i concorsi internazionali di progettazione. Nell’ambito delle politiche sociali, si punta ad estendere il sistema di welfare dai 24mila cittadini di oggi a 50mila entro fine mandato. Il nuovo piano infanzia è invece di 11 milioni di euro e comprende bonus tata e interventi per la socialità nei quartieri. L’anno prossimo saranno stanziati 35 milioni di euro contro le povertà, il 75% da bilancio comunale, mentre da gennaio parità anche il reddito di maternità. In cima alla lista, comunque, restano le periferie, di cui Sala sin dall’inizio del mandatosi è assunto le deleghe. Sono cinque i quartieri periferici interessati: da quello di Lorenteggio – Giambellino (117 milioni di euro, dove arriverà nei prossimi anni la nuova metropolitana “blu”, M4) al quartiere Adriano – via Padova (63 milioni), da Corvetto – Rogoredo – Porto di Mare (49 milioni) a QT8 – Gallaratese (32) fino a Niguarda – Bovisa (35). Un piano ambizioso, come hanno confermato il delegato del sindaco sulle periferie, Mirko Mazzali, e l’assessore alla Casa e Lavori pubblici Gabriele Rabaiotti: “sarà il più grande intervento di riqualificazione urbana dal dopoguerra”. Gli interventi riguarderanno la manutenzione straordinaria degli edifici popolari, il recupero di circa 800 alloggi sfitti di edilizia pubblica. Sono previsti inoltre 60 milioni di euro per i cantieri a valenza sociale per le periferie, e saranno lavori che riguarderanno anche luoghi di aggregazione e socialità. I fondi per le periferie arrivano dal bilancio comunale, dal governo, dall’Europa e da Fondazione Cariplo. Resta comunque il nodo delle risorse. Tanto che sul patto per Milano siglato a metà settembre con Matteo Renzi “sono pronto a armi sentire da subito con il nuovo presidente del Consiglio” ha detto Sala a margine della presentazione del programma (ovvero i fondi promessi da Renzi per lo sviluppo della città da 1,3 miliardi, tra cui il prolungamento della metropolitana fino a Monza). “Oggi i fondi sono finanziati per poter arrivare agli studi tecnici e quindi essere in condizione di partire ­– ha spiegato il sindaco –. Nel patto poi c’è l’impegno del governo a reperire i fondi. Le metropolitane si riescono a fare nella misura in cui il governo finanzia al 60-65%, altrimenti non è possibile. Ma questo è scritto con chiarezza nel patto”. E ha poi rassicurato: “non credo ci siano rischi che il patto e sul fatto che possa diventare lettera morta con un nuovo governo. Certamente richiamerò con forza e farò sentire la voce di Milano”.

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Le periferie e la «nuova questione sociale»

Di alcune zone delle città ci si occupa con superficialità, il più delle volte solo per casi di cronaca, tralasciando la ricchezza di progettualità delle associazioni e dei comitati di quartiere. La chiave è dare spazio alle nuove forme di cittadinanza

Periferia è divenuto un termine squalificante, una sorta di specchio in cui si riflettono le contraddizioni del modello neoliberista le quali si inscrivono, e si rendono oltremodo visibili, territorialmente. Le dinamiche di espulsione dal processo produttivo, la precarizzazione lavorativa, la riduzione delle risorse di welfare state, l’erosione dei diritti di cittadinanza, sono i caratteri preminenti ampiamente analizzati che incidono sulle traiettorie di vita degli abitanti delle zone periferiche. In tal senso, l’esclusione tende sempre più a manifestarsi in rapporto allo spazio e alla concentrazione delle nuove “classi pericolose” quale surplus di umanità difficilmente integrabile alle necessità del nuovo assetto socio-economico.

L’interazione tra processi di esclusione e segregazione spaziale alimenta un circolo vizioso che enfatizza una logica d’emergenza. In tali contesti la presenza di nuclei immigrati rappresenta un ulteriore fattore critico che rafforza l’idea stigmatizzante di uno “spazio altro”. Il segno tangibile di questa stigmatizzazione territoriale è rinvenibile nella varietà dei toponimi utilizzati nella letteratura sociologica per identificare questi badlands: quartieri sensibili, quartier d’exil, quartieri difficili, quartieri sfavoriti, ghetti. Lo stesso vocabolario amministrativo si modifica enfatizzando la coincidenza tra spazio segregato e problemi sociali, come nell’esempio francese delle “zone urbane prioritarie”, che consolida l’immaginario di uno spazio definito esclusivamente dalle sue mancanze.

Su questo orizzonte di crisi si è compiuta la metamorfosi della questione sociale in questione urbana. Le politiche pubbliche a partire dagli anni ottanta si spostano progressivamente dalle “persone verso i luoghi”, enfatizzando l’indirizzo verso la ricomposizione del legame e la coesione sociale. Si presuppone che in questi territori vi sia una socialità patologica colpevole di creare essa stessa le condizioni di marginalità e di conflitto. Conseguentemente, l’intervento prefigura un’azione diretta alla mescolanza sociale tra differenti gruppi e categorie sociali. Gli obiettivi inclusivi di questa ingegneria sociale si incentrano sulle supposte virtù taumaturgiche del social mix che garantirebbero ai soggetti problematici di apprendere stili di vita, comportamenti e valori delle famiglie dotate di maggiori strumenti culturali, sociali ed economici.

L’imponente sforzo messo in campo da questo orientamento “iperlocalistico” per riqualificare socialmente le periferie, nella maggioranza dei casi, sembra non aver inciso in modo significativo sulla riproduzione dei meccanismi di esclusione. Gli scarsi risultati ottenuti, infatti, mostrano chiaramente i limiti di una razionalità amministrativa che, da un lato, rinvia il trattamento delle disuguaglianze intervenendo sullo spazio e mettendo in secondo piano le politiche macroeconomiche che hanno favorito il loro aggravamento; dall’altro, si ritiene legittimo imporre amministrativamente un modello relazionale alternativo che sostituisca il preesistente ritenuto disfunzionale, il quale, a volte, viceversa sopperisce al deficit di risorse e di aiuto.

A fronte di tale situazione, le differenti periferie delle principali aree metropolitane, non sono sempre marcate esclusivamente dalla passività e dal risentimento. Questa rappresentazione suona stonata, non corrispondente del tutto alla pluralità dei vissuti che si sperimentano quotidianamente. Tale sguardo è l’esito, in parte, di analisi affrettate, le quali inconsapevolmente rafforzano il paradigma dell’emergenza e perseguono nella logica della stigmatizzazione di quei luoghi. Ciò non significa banalizzare, o peggio occultare, le tangibili problematiche di illegalità, abusi e degrado che si sono concentrate nell’indifferenza generale dentro le periferie. La periferia non è solo e soltanto una terra di nessuno, una sorta di “eccezione” di cui ci si occupa soltanto quando questa diventa cronaca e su cui si deve intervenire con strumenti “eccezionali”.

In quegli spazi periferici si palesa, il più delle volte inascoltata, una ricchezza di progettualità, di associazioni, di comitati di quartiere, che concorrono a contrastare, nei limiti possibili, l’abbandono delle istituzioni pubbliche e i processi di esclusione. Si potrebbe affermare la necessità di una visione eccentrica, nel suo significato etimologico di spostare lo sguardo fuori dal centro. Una eccentricità sia socio-spaziale, le periferie come territori privilegiati d’intervento culturale e politico, sia di azione pubblica, nei termini di creare, sostenere, favorire una pluralità di centri con le proprie autonomie e connessi tra loro attraverso l’effettivo coinvolgimento del citato associazionismo locale.

L’ipotesi su cui ragionare è di attuare, quindi, una revisione del governo territoriale verso l’assunzione responsabile del ruolo di regia, coordinamento e ascolto delle distinte socialità e dei distinti attori con il loro portato ambivalente di conflitto e di dialogo. Non si tratta di delineare un modello valido per tutti i casi che sociologicamente trattiamo come periferia. Le specificità contestuali determinano l’ampiezza e la qualità necessarie al processo di cambiamento e alle inedite relazioni tra il “centro e la periferia” che possono determinarsi. Pur nel riconoscimento di questa differenza, rimane decisivo per riaffermare i diritti di cittadinanza contrastare gli effetti persistenti dell’emarginazione e creare arene deliberative in grado di attivare e di sostenere il metabolismo civico ancora presente nelle periferie. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche.

Tale innovazione, tuttavia, appare ancorarsi alle peculiarità e alle scelte del centro. Conseguentemente, si può innescare un’ulteriore separazione nelle città, non soltanto tra le periferie e il centro, ma anche tra le stesse periferie, quelle “buone” e quelle “cattive”, con esiti alquanto discutibili sul piano della cittadinanza. Infatti, si può immaginare che le fratture dentro la città si allarghino, ostacolando la pluralità dei centri in periferia e il rafforzamento delle capacità dell’attivismo e della socialità diffusa a livello locale per fronteggiare la multidimensionalità del degrado.

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Luoghi come le periferie, mai più non-luoghi, al centro del dibattito sulla “costruzione” della salute mentale

Al di là delle facili battutine degli amici, mi sono chiesto perché avrei dovuto intervenire all’invito ricevuto dal Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Bari, promotore del Festival della salute mentale, svoltosi a Bari alcune settimane fa. Mi hanno chiesto di parlare sapendo che mi occupo di periferie e di degrado paesaggistico ed ambientale e mi hanno spiegato che tutto ciò influisce sulla qualità della vita. Ho allora rifatto un tuffo nei percorsi tecnici per la formazione dei contratti di quartiere, un altro tuffo nei PIRP (i Piani Integrati per la Riqualificazione delle Periferie), nei PIRU (i Piani Integrati per la Rigenerazione Urbana), nei processi per la costruzione dei tanti Piani: tutto mi ha ricordato che ho parlato con la gente, ne ho richiesto il contatto, sono stato attento a sentire i loro bisogni, le proprie sofferenze. Poi ho fatto scelte tecniche.
periferie salute mentale

Ricordo quando mi hanno parlato della vita difficile in quartieri periferici, come nelle periferie dei Centri Storici che sono afflitte dall’abbandono. In verità sostengo che a volte anche nei quartieri “alti” ci sono momenti di abbandono, in cui non si sta bene con se stessi e si diventa cocainomani o peggio, ovvero irascibili a tal punto da distruggere rapporti umani e familiari. Ho allora ricordato che in un PIRP abbiamo progettato in forma partecipata case a misura d’uomo, abbattendo le previsioni di palazzi alti per favorire case più basse, con spazi verdi, a contatto con parchi: insomma più umane. Abbiamo suggerito verde attrezzato, insediamenti di contenitori culturali o attività economiche, favorito la formazione di orti urbani assegnati alla gente, sostituendoli alle grandi aree verdi mai decollate e perennemente incolte.

Ho così scoperto che è stato facile parlare: il mio percorso di vita è attinente con la salute mentale, con le sofferenze della gente con le aspettative di recupero e di rinascita. Strano come tutto questo si fonda: la salute con la città, la natura, l’uomo, il lavoro. Si intersecano tutte le sfere che attraversiamo lungo il nostro percorso di vita.

Allora ho deciso di continuare a raccontare dei migliori contributi ai processi di costruzione delle città e di riqualificazione delle periferie: i migliori sono venuti dai bambini, incontrandoli nelle scuole, apprendendo, con la sociologa che mi assisteva, che i bambini, con i propri scritti semplici o con i disegni su fogli di carta riciclata (perché in alcuni posti mancano i fogli bianchi), sono in grado di manifestare bisogni, dolori, desideri, aspettative, obiettivi. I bambini parlano della propria vita e disegnano percorsi di futuro che ci farebbero rinascere e darebbero respiro al nostro paese.

Ho poi parlato dei colloqui con i “saperi colti”: alcuni li posseggono veramente mentre altri li millantano trincerandosi in parole difficili ed incomprensibili. Ed ho poi parlato con le mamme di figli meravigliosi o che delinquono e delle mogli di mariti buoni o carcerati. Ho raccontato di averli incontrati nelle parrocchie insieme a preti meravigliosi ed ho visto la loro capacità di aprirsi e raccontare ciò che tutti dovremmo sapere prima di progettare le città o di alterare la natura. Ecco: dovremmo vivere in un luogo prima di pensare come modificarlo.

Qualcuno mi ha ricordato alcune parole che ho pronunciato: “La periferia è emarginazione? Forse sì, quando abbiamo progettato le città senza cuore ed affetto, oppure quando siamo stati politici ed abbiamo pensato alle vie dei salotti dimenticando le vie in cui c’è anche la gente semplice. O quando da giornalisti abbiamo parlato delle periferie solo in senso negativo, tralasciando di raccontare quando la gente richiede aiuto, manifesta difficoltà, chiede case, acqua, fognatura, illuminazione, giochi, contenitori per favorire la presenza di vita attiva.” Penso che per questo abbiamo “partorito”Ambient&Ambienti, per parlare di Ambiente ma anche dei tanti Ambienti che ci circondano e contribuiscono al complesso equilibrio che ciascuno di noi cerca.

Per questo abbiamo parlato delle “visioni” di città (per vedere oltre, dove pochi vedono ma che rappresentano la guida) e abbiamo parlato della progettazione partecipata, ottenendo adesione e ricevendo quel conforto che giustifica la voglia di continuare a costruire le città del futuro, con i servizi che servono per generare ricchezza da distribuire a chi ne ha bisogno. Questi sono gli Ambienti in cui operiamo. Forse anche l’ambiente è una medicina che contribuisce alla salute, compresa quella mentale: interviene per farci stare meglio con gli altri e con noi stessi.

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Periferie, da Milano all’Europa

Un tema caldissimo che si discute nel nuovo incontro di “Poliedrico Itinerario”. Breve intervista all’architetto Marco Ermentini.

Architetto nel team del G124 creato da Renzo Piano, Marco Ermentini stasera sarà al MAC di Milano in dialogo con Fulvio Irace, per raccontare in un nuovo incontro promosso dall’Associazione Necchi Cerchiari, e intitolato “Una nuova architettura per una nuova società”. Il tema? Caldissimo. Le periferie. Sono la città che lasceremo alle generazioni future, i luoghi della speranza, sono quelle strade dove “accade” la street art e dove si integrano e scontrano culture, sono i brandelli vivi di una città. Abbiamo chiesto a Ermentini di raccontarci, in concreto, qualche esempio. Per esempio di quel che è successo al Giambellino, proprio a Milano, da un anno “preso” dagli stessi giovani del G124, pronti non tanto a cambiarlo, quando a sostenerlo e a farlo mutare.
Che cosa è successo al Giambellino, da un anno a questa parte?
«Da quando ce ne siamo occupati al Giambellino sono successe molte cose: il comune assieme alla regione sta sviluppando un grande progetto di Master Plan redatto da Infrastrutture Lombarde del valore di ben 80 milioni di Euro, la nuova metropolitana quattro sta avanzando con due stazioni e il capolinea, il nuovo sindaco Giuseppe Sala ha indetto la prima giunta dopo le elezioni proprio al Giambellino e ha indicato come sua “ossessione” il tema delle periferie. Proprio in questi giorni l’Amministrazione presenterà il proprio piano sulle periferie. Speriamo bene».
Nell’introduzione all’incontro si mettono in parallellelo periferie (tema rovente, per il quale la Direzione Generale guidata da Federica Galloni recentemente ha coinvolto anche una serie di fondazioni per l’arte contemporanea, disponendo progetti per il prossimo anno) e zone sismiche. Più che nella “conservazione”, dove si situa il punto comune tra questi luoghi?
«Il tema del “rammendo” proposto da Renzo Piano ha efficacemente aperto nuove porte per un’azione coordinata tra le discipline. In effetti il nostro paese ha bisogno di una grande azione per abbattere le separazioni . Se siamo in grado di rammendare qualcosa saremo in grado di riparare anche i rapporti umani. È una necessità terapeutica per ricucire, allo stesso modo la ricucitura delle parti della città vuole dire connettere le parti separate, non solo quelle fisiche, ma anche eliminare le separazioni che danneggiano. Le separazioni tra le discipline: gli architetti debbono dialogare con gli economisti, i sociologi, gli ambientalisti. Le separazioni tra teoria e pratica che hanno provocato gravi danni al nostro territorio. Le separazioni tra gli enti che decidono il governo del territorio e che si contrappongono provocando disfunzioni e paradossi. Le separazioni fra le parti delle città che costruendo muri fra i luoghi hanno favorito la segregazione. Le separazioni tra i vecchi e i giovani: nessuno è più interessato a essere l’anello di congiunzione tra le generazioni e a sentirsi parte di un passato condiviso. Le separazioni tra le funzioni: da una parte la produzione e dall’altra la residenza. Le separazioni tra gli abitanti di diversa origine etnica e condizione sociale. Insomma, ricucire le separazioni vuole dire recuperare il significato delle cose a partire dalla loro connessione. L’architettura è la sintesi di tutto il sapere e del suo rapporto concreto con il mondo, quindi recuperare l’arte della tessitura ci può essere, in questo momento difficile, di grande aiuto; non dimentichiamoci che per gli antichi greci oltre che al tessere propriamente gli abiti, significava anche la tessitura del destino delle nostre vite. L’azione sulle periferie del G124 nel prossimo anno si sposterà sul tema del grande progetto per mettere in sicurezza il grande patrimonio edilizio a rischio sismico. Un’attività decennale che riguarderà molta parte degli edifici lungo gli appennini dal Nord al Sud. Sia il progetto sulle periferie che quello sul rinforzo sismico non sono progetti di conservazione ma azioni per aumentare la qualità della vita degli abitanti».
C’è differenza tra le periferie italiane e quelle di altre città europee? Sono meglio o sono peggio?
«La situazione in Europa ha molte analogie, ma in sostanza le periferie italiane sono alquanto differenti. Ad esempio , per fortuna, da noi non ci sono stati massicci progetti di aree di edilizia economico popolare come in altri Paesi. Questo fatto ha comportato alcuni casi incresciosi ma non troppo estesi. Ad esempio in Francia si sono realizzati grandi agglomerati che ora presentano gravissimi problemi di tutti i tipi. Questo non vuole dire che nel Belpaese tutto vada bene; al contrario ci sono tante ferite ma sono abbastanza localizzate. Renzo Piano ha avuto il merito di mettere al centro il problema delle periferie che, in fin dei conti, sono la città del futuro, nonostante tutto. Lo si legge anche nel primo “Diario”, che parla proprio dell’esperienza del Giambellino, edito in questi giorni da Skira».

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San Basilio, ripartiamo dalla domiciliarità contro il degrado delle periferie

“Non vogliamo negri nè stranieri qui, ma soltanto italiani”. Questa frase è rimbombata forte nelle strade del quartiere San Basilio, a Roma, dove in tanti sono scesi in strada, presidiando l’accesso del civico 15 di via Filottrano, per evitare che una famiglia marocchina prendesse possesso di un appartamento.

Quell’appartamento spetta a quella famiglia, che l’ha ottenuta dopo regolare aggiudicazione, ma nessuno, o quasi, la vuole lì. Eppure quello stabile fino a poco tempo fa era occupato, abusivamente, e poi era stato sgomberato per mettere ordine nelle aggiudicazioni dei vari appartamenti. Si tentava, insomma, un difficile quanto necessario percorso verso la legalità. Ma dopo la protesta la famiglia ha rinunciato alla propria casa e andrà a vivere altrove.

Questa vicenda ci dice una parte di quel malessere, quello che attraversa le periferie delle città, di difficile soluzione. Ci dice, leggendo in controluce quella frase minacciosa urlata dai cittadini del quartiere, che l’integrazione qui è una chimera, che la guerra tra “poveri”, non necessariamente dal punto di vista materiale, registra ogni giorno la sua battaglia.

Ma ci dice anche molto di più. Un elemento, su tutti, emerge prepotentemente: l’isolamento negli appartamenti (un “appartarsi” dai legami di strada e di quartiere) espressione tipica della periferia delle città degli anni ’80-’90, si è trasformata in barricamento. Volontà di chiusura che si mescola a paura del diverso, a rifiuto del confronto con chi viene considerato “pericoloso” perché può “intaccare” l’equilibrio che si è creato non solo all’interno della propria abitazione, ma anche in quella rete parallela, che nasce e si sviluppa tra chi vuole far prevalere la dimensione del branco per difendere il proprio spazio.

Lo stare insieme, dimensione tipica del quartiere, si declina sempre più come collante che non genera solidarietà ma alimenta nemici, spettri, pericoli che seppur esistenti – come quello della mancata sicurezza – vengono spesso amplificati nei vissuti di precarietà e chiusura.

Il barricarsi è sinonimo appunto di una chiusura difensiva. E in questa chiusura si alimentano la violenza, l’intolleranza, il razzismo. Quella famiglia, schernita e offesa per le sue origini, è l’emblema di un bersaglio che viene costruito per sfogare un malessere che ha origini profonde e che esula, molto spesso, dalle condizioni materiali soltanto.

Se scendiamo in profondo per comprendere questo malessere troviamo una discultura delle emozioni dove risiede l’origine di atteggiamenti che considerano la chiusura è l’egoismo come la sola soluzione ai problemi. L’incapacità di riconoscere e gestire i sentimenti di solidarietà, di amicizia, di accoglienza, di curiosità verso il diverso, porta a comportamenti e azioni irrazionalmente difensive, dove si diffonde la cultura di respingimento, di esclusione.

Le periferie non possono essere abbandonate a loro stesse. Bisogna lavorare sul piano dell’educazione, ma occorre necessariamente e in modo prioritario intervenire a livello sociale. Promuovere una nuova idea di quartiere, di relazioni, è fondamentale. Occorre ricostruire rapporti tra le famiglie dove a fare da elemento di unione sia l’aiuto, la solidarietà, non il fare muro contro il nemico di fianco a casa.

Soprattutto bisogna riconsiderare l’idea di domiciliarità, restituendo a essa un’accezione positiva. Domiciliarità significa comunicare, condividere, compartecipare, incontrarsi, conoscersi, scambiare. Implica, per le famiglie e per i servizi, un’apertura all’esterno, una valorizzazione delle differenze, poiché ciascuna famiglia e ciascun servizio è portatore di diverse prospettive ed esperienze.

La domiciliarità così intesa ha bisogno di servizi che osservino e si sforzino di capire che cosa succede dentro e intorno a loro. È compito dei servizi conoscere e riconoscere le risorse plurime presenti nella società civile, nel volontariato, nei nuovi soggetti delle risorse informali, per saperle poi raccordare. Un sistema di welfare-mix fondato sulla collaborazione tra i servizi può alimentare una domiciliarità che non si appiattisca su risposte standardizzate, ma sappia rispettare le differenze all’interno della concezione di un territorio-laboratorio.

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Pietralata, via al Piano di recupero: pronti 57 milioni per opere pubbliche

Più altri 34 milioni di euro per edilizia privata. Lo fa sapere l’assessore all’Urbanistica del Campidoglio, Paolo Berdini, che contesta il confronto tra Roma e Milano: «Al governo propongo un patto: con tre miliardi questa città cambierebbe molto» di shadow 0 0 2 Il Print di Pietralata è stato firmato. Il primo Piano di recupero urbano in assoluto, che prevede opere pubbliche per 57 milioni di euro e 34 milioni di edilizia privata, atteso da più di 10 anni, ha finalmente la firma dell’assessore all’Urbanistica. Paolo Berdini non lo annuncia ufficialmente all’annuale Assemblea dell’Acer – l’ Associazione dei costruttori romani – ma lo fa sapere comunque. Eppure per i costruttori è una buona notizia. Che forse avrebbe un po’ sopito i tanti attacchi di ieri all’Auditorium, dove sullo sfondo di una grande riproduzione del dipinto «La città ideale», si inizia con la ricerca del Cresme «World Cities Vision 2030-2050 – Come le città stanno ridisegnando il loro futuro». E dove, attraverso le parole di Lorenzo Bellicini, si sottolinea «la drammatica situazione in cui versa Roma», rispetto le previsioni di altre metropoli europee come Parigi, Londra o Amburgo. Si prosegue: «Avevamo invitato fin da luglio Virginia Raggi». Ma la sindaca non è presente «a causa di impegni istituzionali concomitanti e improcrastinabili». «Mi rendo contro degli impegni del primo cittadino – ha detto il presidente dell’Acer, Edoardo Bianchi – ma non posso nascondere un pizzico di delusione. Abbiamo creduto e continuiamo a credere nell’importanza del confronto costruttivo tra amministrazione e forze produttive». A rappresentare Virginia Raggi è così l’assessore all’Urbanistica e Lavori pubblici, Berdini, che per prima cosa contesta il confronto con Milano: «Propongo un patto al Governo – dice -, Milano ha avuto un miliardo e mezzo per l’Expo e un altro miliardo e mezzo dal “Patto”. Se io avessi tre miliardi questa città cambierebbe molto. Ed è la cifra che avrei avuto per le Olimpiadi». Così, con la richiesta dei tre miliardi al Governo Paolo Berdini annuncia la proposta di un «Patto per Roma», in una visione di «grande centro dell’eccellenza della cultura e luogo di elezione universitario»; «nuove – leggere – infrastrutture su ferro per superare questo diluvio di auto» e un «ripensamento del Piano di edilizia residenziale pubblica». Bianchi non legge una relazione ma parla per quasi tutto il tempo a braccio. Non vuole più sentire parole come «rigenerazione urbana» o «riqualificazione», le vuole vedere attuate. Lo stadio Flaminio? «È una vergogna». E che «fine ha fatto il progetto di riqualificazione di via Guido Reni? Approvato nell’agosto 2014 e poi forse abbandonato in un cassetto di qualche ufficio comunale…». Ancora: «È arrivato il momento di assumere decisioni sulla riqualificazione dell’area dell’ex Fiera di Roma». Non mancano contestazioni anche al Bilancio del Campidoglio, che stanno esaminando in questi giorni: «I 481 milioni messi a disposizione in tre anni per i lavori pubblici dei quali 280 per la metropolitana, sono insufficienti. Con questi fondi non si può gestire la città». Ma il principale attacco è sull’Ufficio Condono: «Ci sono 200 mila pratiche pendenti – spiega il presidente dell’Acer -, che significano per le casse comunali almeno un miliardo di introito. Soldi che i cittadini verserebbero contenti pur di chiudere: ma al ritmo di 8.000 pratiche l’anno ci vorranno ancora venti anni…». E alla fine – a Giubileo concluso – entrano di nuovo in scena i 37 milioni di euro di opere giubilari non spesi. Così il presidente dell’Anac Raffaele Cantone puntualizza: «Non c’è stato nessun ritardo dei lavori giubilari ascrivibili all’Anac. Ci sono ancora moltissimi lavori che possono essere fatti utilizzando i fondi giubilari – aggiunge -. E da parte dell’autorità non c’è nessuna opposizione. Il nostro obiettivo non è bloccare ma il contrario: provare a far lavorare chi deve nel rispetto delle regole. E crediamo nel codice degli appalti».] Più altri 34 milioni di euro per edilizia privata. Lo fa sapere l’assessore all’Urbanistica del Campidoglio, Paolo Berdini, che contesta il confronto tra Roma e Milano: «Al governo propongo un patto: con tre miliardi questa città cambierebbe molto»

Il Print di Pietralata è stato firmato. Il primo Piano di recupero urbano in assoluto, che prevede opere pubbliche per 57 milioni di euro e 34 milioni di edilizia privata, atteso da più di 10 anni, ha finalmente la firma dell’assessore all’Urbanistica. Paolo Berdini non lo annuncia ufficialmente all’annuale Assemblea dell’Acer – l’ Associazione dei costruttori romani – ma lo fa sapere comunque. Eppure per i costruttori è una buona notizia. Che forse avrebbe un po’ sopito i tanti attacchi di ieri all’Auditorium, dove sullo sfondo di una grande riproduzione del dipinto «La città ideale», si inizia con la ricerca del Cresme «World Cities Vision 2030-2050 – Come le città stanno ridisegnando il loro futuro». E dove, attraverso le parole di Lorenzo Bellicini, si sottolinea «la drammatica situazione in cui versa Roma», rispetto le previsioni di altre metropoli europee come Parigi, Londra o Amburgo.

Si prosegue: «Avevamo invitato fin da luglio Virginia Raggi». Ma la sindaca non è presente «a causa di impegni istituzionali concomitanti e improcrastinabili». «Mi rendo contro degli impegni del primo cittadino – ha detto il presidente dell’Acer, Edoardo Bianchi – ma non posso nascondere un pizzico di delusione. Abbiamo creduto e continuiamo a credere nell’importanza del confronto costruttivo tra amministrazione e forze produttive». A rappresentare Virginia Raggi è così l’assessore all’Urbanistica e Lavori pubblici, Berdini, che per prima cosa contesta il confronto con Milano: «Propongo un patto al Governo – dice -, Milano ha avuto un miliardo e mezzo per l’Expo e un altro miliardo e mezzo dal “Patto”. Se io avessi tre miliardi questa città cambierebbe molto. Ed è la cifra che avrei avuto per le Olimpiadi». Così, con la richiesta dei tre miliardi al Governo Paolo Berdini annuncia la proposta di un «Patto per Roma», in una visione di «grande centro dell’eccellenza della cultura e luogo di elezione universitario»; «nuove – leggere – infrastrutture su ferro per superare questo diluvio di auto» e un «ripensamento del Piano di edilizia residenziale pubblica».

Bianchi non legge una relazione ma parla per quasi tutto il tempo a braccio. Non vuole più sentire parole come «rigenerazione urbana» o «riqualificazione», le vuole vedere attuate. Lo stadio Flaminio? «È una vergogna». E che «fine ha fatto il progetto di riqualificazione di via Guido Reni? Approvato nell’agosto 2014 e poi forse abbandonato in un cassetto di qualche ufficio comunale…». Ancora: «È arrivato il momento di assumere decisioni sulla riqualificazione dell’area dell’ex Fiera di Roma». Non mancano contestazioni anche al Bilancio del Campidoglio, che stanno esaminando in questi giorni: «I 481 milioni messi a disposizione in tre anni per i lavori pubblici dei quali 280 per la metropolitana, sono insufficienti. Con questi fondi non si può gestire la città». Ma il principale attacco è sull’Ufficio Condono: «Ci sono 200 mila pratiche pendenti – spiega il presidente dell’Acer -, che significano per le casse comunali almeno un miliardo di introito. Soldi che i cittadini verserebbero contenti pur di chiudere: ma al ritmo di 8.000 pratiche l’anno ci vorranno ancora venti anni…».

E alla fine – a Giubileo concluso – entrano di nuovo in scena i 37 milioni di euro di opere giubilari non spesi. Così il presidente dell’Anac Raffaele Cantone puntualizza: «Non c’è stato nessun ritardo dei lavori giubilari ascrivibili all’Anac. Ci sono ancora moltissimi lavori che possono essere fatti utilizzando i fondi giubilari – aggiunge -. E da parte dell’autorità non c’è nessuna opposizione. Il nostro obiettivo non è bloccare ma il contrario: provare a far lavorare chi deve nel rispetto delle regole. E crediamo nel codice degli appalti».

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“Gojo” è risultato vincitore della categoria Street Art “Arvalia in Mostra”

È questa l’ultima fase del progetto che ha visto già numerose iniziative a partecipazione attiva dei cittadini, avviate nella primavera scorsa in virtù dell’affidamento alla Iside, da parte del Municipio Roma XI – Arvalia Portuense, di alcune attività per la conoscenza e valorizzazione del territorio, attraverso il linguaggio dell’arte e creatività contemporanea.

In particolare, il concorso aperto a tutti gli street artist, prevedeva l’ideazione, e la successiva realizzazione nella parete esterna del Mitreo con ripresa live e pubblicazione del video on line, di un bozzetto sul tema: “Il MitreoIside di Corviale un luogo di trasformazione e creatività nel Municipio XI”.

Lunedì 21 Novembre 2016 sono stati quindi avviati i lavori, che si protrarranno per diversi giorni, e che tutti potranno seguire, oltre che recandosi presso il Mitreo, attraverso foto e riprese video pubblicate sulla pagina Facebook “Mitreo-ArteContemporanea”.

Scrive l’artista vincitore, nato e cresciuto sul nostro territorio, riguardo al proprio progetto:

“L’opera rappresenta le divinità Mithra e Iside, alle quali si ispira il centro culturale del Mitreo, in quanto divinità “rinnovatrici”, che danno nuova vita.

In questa immagine Mithra è intento nella tauroctonia, come nella quasi totalità delle opere che lo ritraggono, ed è circondato da una fauna al suo servizio: un cane, un serpente, un corvo ed uno scorpione. Ogni personaggio della rappresentazione evoca le omonime costellazioni: toro, scorpione, corvo, serpente e Mithra stesso, che richiama la costellazione che oggi conosciamo come “Perseo”.

Iside invece sta accudendo suo figlio Horus. Entrambi sono rappresentati con i simboli che li definiscono: l’Ankh (croce ansata simbolo della magia e chiave della vita), il Wadj (scettro con il fiore di papiro, simbolo di vigore e dell’eterna giovinezza e rappresentazione del delta del Nilo), le corna di mucca della dea Hathor (a cui spesso Iside era associata) con al centro un sole; sopra la testa, nel disco solare, vi è rappresentato un trono, in quanto Lei base della potenza del Dio Sole e fonte del potere del faraone.

La colorazione si ispira a quella del Corviale e delle zone circostanti: il grigio del bètonbrut che caratterizza il brutalismo architettonico presente nella locale Hunité d’habitation ispirata a Le Corbusier, il rosso e l’azzurro presenti nelle imposte e nei particolari dell’edificio (così come i rilievi diagonali presenti sulle lastre cementizie simili al sand casting nivoliano), il verde ed il giallo imperanti nella natura del luogo.

I personaggi non sono rappresentati con interesse realistico fotografico, ma iconico, e fusi con il luogo tramite decostruzione”.

Quindi un’opera fortemente simbolica che annuncerà dall’esterno, con la forza e l’energia del colore e la maestria di Gojo, la Mission del Mitreo e della Iside, rispettivamente luogo dell’azione e strumento operativo, voluti dalla sua ideatrice per la rinascita di una funzione sociale e spirituale dell’Arte, dell’Essere Umano e dei suoi talenti, e per la rigenerazione ed il rilancio di un territorio come quello di Corviale, al fine di testimoniare che nulla è impossibile e che ogni realtà è prima di tutto imMAGInAzione.

La chiave di ogni Nuova CreAzione, il nodo da sciogliere che la Dea Iside custodisce in seno, sta nel riconoscimento che morte e vita, luna e sole, femminile e maschile, negativo e positivo, sono polarità di una medesima unità con numerose polarità, a seconda del punto di vista, intimamente collegate fra loro e che il coraggio della conoscenza delle luci (il potere personale del Sé superiore simboleggiato dal sole e dal trono) e delle ombre (il toro dell’inconscio e delle pulsioni primordiali, dominato dal Dio Mithra), il prendersi cura (il figlio Horus) e l’esserne consapevole (Horus stesso), nonché l’agire per unire ciò che è stato separato (la Iside ricomporrà il corpo del suo sposo Osiride frammentato e disperso per il mondo dal fratello Set, come in un puzzle), permette a potenzialità e virtù di manifestarsi in tutta la loro esplosiva meraviglia, trasformando luoghi interni ed esterni, relazioni e visione (la Dea Iside ha le ali per sollevarsi ed osservare da un’altra prospettiva), a vantaggio di tutta una collettività

Il Mitreo è in via Marino Mazzacurati 61/63