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Contrabbandiamo cultura

Fare cultura serve a migliorare il mondo, a diffondere punti di vista diversi, a creare relazioni. Possiamo mettere in discussione le categorie imposte, ad esempio, di artista e spettatore? Ma, soprattutto, possiamo sperimentare alternative al bando? Quello che accade in queste settimane al Nuovo Cinema Palazzo, a Roma, con il progetto Contrabbando – che mette a disposizione spazi per le residenze artistiche proponendo l’esperienza come strumento di partecipazione e di produzione culturale – offre straordinarie e creative risposte a quelle domande. Se il bando è strumento di competizione, di concorrenza, dunque di esclusione, Contrabbando è strumento di partecipazione, collaborazione, condivisione. Se il bando è finalizzato a gestire gli appalti dentro il mercato, Contrabbando si pone fuori dalle logiche del profitto e del più forte. Si tratta di provare forme del governarsi da sé a ogni livello, dice Guastavo Esteva, di liberarsi del virus della subordinazione e prendere in mano le redini delle nostre vite.

Laboratorio Teatrale di Dynamis al Cinema Palazzo

di Nuovo Cinema Palazzo

Questa settimana prima restituzione artistica del “ContraBBando 2017”: Offline di Mirko Feliziani (17 e 19 Febbraio, ore 21.30), una riflessione sulla morte in termini teatrali, ricca di ironia, ai tempi della rete e dei social network.

Dopo l’esperienza della scorsa stagione con la piattaforma “Molodoj” e vista la continua applicazione – da parte delle istituzioni – del bando come strumento risolutivo unico per l’assegnazione di spazi ‘abbandonati’ (spesso già restituiti alla collettività da parte di associazioni e collettivi autogestiti), quest’anno il Nuovo Cinema Palazzo ha elaborato, da esperimento artistico a progetto di natura politica, il ContraBBando: si mettono a disposizione spazi per le residenze artistiche proponendo l’esperienza come strumento di partecipazione attiva e di produzione culturale.

Il ContraBBando si configura come uno strumento politico con il quale il Nuovo Cinema Palazzo propone una modalità di fare cultura, inserendosi, in tutte le sue fasi, nel processo di produzione artistica e permettendo ai soggetti attivi – artisti, collettivo, tecnici e pubblico – di essere parte di questo progetto e di rendere ancora più permeabile l’incontro e la condivisione. La programmazione del Nuovo Cinema Palazzo è infatti costruita sul confronto e sulla relazione, e nello specifico queste esperienze residenziali ci permettono ancor più di entrare nel tessuto, arricchendo lo spazio e consolidando quello che abbiamo già praticato con i festival e le rassegne musicali e teatrali.

Il Nuovo Cinema Palazzo è il luogo del possibile, dove viene riconosciuto il lavoro artistico, l’impegno, il desiderio e la creatività tramite la messa in condivisione di mezzi e saperi e attraverso la valorizzazione dei tempi di produzione, originale ed inedita, in grado di stimolare l’arte, uno dei presupposti della crescita culturale.

L’ambizione del ContraBBando è stata quella di sovvertire il concetto stesso di bando e la normalizzazione dell’utilizzo dello stesso nella gestione politica e amministrativa della città applicando, contrariamente, una modalità volta al superamento dei criteri di mercato e di profitto valorizzando la dimensione complessiva delle realtà che costituiscono l’essenza dell’esperienza stessa.

La possibilità data dal ContraBBando è stata di presiedere uno spazio non escludente, ma comune, permettendo di creare, attraverso la residenza artistica e la restituzione che seguirà tale periodo, uno scambio e un flusso volto a dare spazio e sostegno ai progetti. La restituzione della residenza artistica si traduce con l’apertura al pubblico del progetto, credendo che anche gli stessi fruitori debbano essere parte della mobilitazione culturale che poniamo in essere.

Le serate di restituzione saranno un’occasione per condividere il progetto con il quartiere e la città, oltre che una forma di autofinanziamento dello stesso; in tal modo si potrà parlare di fruizione dell’arte, che con forme libere ed accessibili, si caratterizza come il presupposto per lo sviluppo e la crescita della stessa.

La sottoscrizione consigliata per queste serate è la nostra quota di complicità con la quale, chi usufruisce della messa in scena, contribuisce all’intero ciclo di produzione artistico rendendo sostenibili e riproducibili i meccanismi che realizzano i progetti e le attività, traducendosi nel finanziamento della Residenza Artistica e nell’investimento del Nuovo Cinema Palazzo.

Sono pervenute ben trentasei proposte. Ciò dimostra sempre di più come sia necessario avere più spazi di autonomia dove sperimentare e praticare nuove forme di produzione culturale. Rivendicando criteri di scelta basati né sulla restituzione economica né sul giudizio, l’assemblea ha utilizzato le seguenti linee guida: il desiderio di dar luogo a progetti quanto più differenti e distinti (dal teatro di prosa alle performance di danza, dall’installazione illuminotecnica a progetti di ricerca sociale; favorendo in questo modo una contaminazione dello spazio e del collettivo con diversi linguaggi artistici); l’esigenza di accogliere residenze autonome che possiedano competenze tecniche specifiche all’interno del proprio gruppo, in accordo con il principio di scambio reciproco e la scelta d’autogestione dello spazio e delle attività che vi si svolgono; le possibilità dettate dal pragmatismo di rendere realizzabili i progetti ospitati, intrecciando richieste e necessità del proponente con le attività, i corsi, i laboratori e finanche i limiti di dotazione tecnica del Nuovo Cinema Palazzo.

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Periferie? Possono diventare la marcia in più dell’Italia

Mentre in Francia, Belgio o Germania è alalrme terrorismo, qui le dinamiche sono diverse. Le ragioni? «In Italia il rapporto periferie-centro è regolato da una sorta di flusso caotico, mentre nel centro d’Europa sono isole slegata e autonome rispetto al contorno urbano dentro cui si sviluppano fenomeni pericolosi e poco visibili. Da noi invece proprio le periferie, al netto di tutte le criticità e povertà, stanno diventando anche il luogo delle sperimentazioni più innovative che ci potrebbe dare un vantaggio competitivo decisivo». Dialogo con Mario Abis consulente del Piano città presso la Presidenza del Consiglio

Romamurales

Le periferie? «Sono molto più sexy del centro». Ne è convinto Mario Abis, presidente di Makno, docente allo Iulm di Milano e consulente del Piano città presso la Presidenza del Consiglio. Negli scorsi giorni nel capoluogo lombardo presso la Casa dell’Energia e dell’Ambiente Abis ha tenuto un incontro con alcuni giornalisti milanese sotto il titolo “La città che esclude: panorama europeo ed eccezioni italiane” all’interno di un workshop di formazione professionale (“Raccontare le periferie in città- Disagio e luoghi di inclusione). Questi i passaggi i passaggi più significativi.

Perché in Italia le periferie (finora) non sono state la culla del terrorismo?
«Per affrontare su questa domanda occorre comprendere le ragioni che hanno dato vita al terrorismo metropolitano in nazioni come la Francia, il Belgio o anche la Germania. Qual è la caratteristica più evidente di una qualsiasi delle periferie di una città del centro Europa? Senz’altro la separatezza. Si tratta di una precisa scelta prima politica e poi urbanistica che in città come Parigi o Marsiglia ha concepito la periferia come un bordo separato all’interno del quale si sono ricostruiti mondi chiusi e indipendenti. Ogni banlieue ha i suoi servizi, le sue scuole, i suoi ospedali e soprattutto non ci sono (o sono davvero pochi) mezzi pubblici che le colleghino al resto della città. È all’interno di questi microcosmi decontestualizzati, dentro questa separatezza che, per stare al caso della Francia, vivono 6,5 milioni di musulmani urbanizzati. Dentro quei fortino ovviamente qualsiasi progetto di inclusione sociale viene automaticamente marginalizzato e soffocato da una visione urbanistica così definitiva.

In città come Parigi o Marsiglia la periferia è stata concepita come un bordo separato all’interno del quale si sono ricostruiti mondi chiusi e indipendenti. Ogni banlieue ha i suoi servizi, le sue scuole, i suoi ospedali e soprattutto non ci sono (o sono davvero pochi) mezzi pubblici che le colleghino al resto della città

In Italia questo ordine monolitico e monocratico non si è mai realizzato. Da noi è difficile distinguere dove finisce il centro e inizia una periferia. Da noi per dirla con una parola non si capisce dov’è il bordo. Prendiamo Roma, da nord a sud ha ingressi alla città di una bruttezza devastante: sono territori spesso desolati, ma poco progettati e quindi “non verticali” caratterizzati da flussi e non da separatezza. Le periferie italiane in questo senso sono un unicum, hanno problemi gravi, ma diversi da quelli del Centro Europa. Il disordine che le caratterizza in un certo senso è una garanzia sociale. È un disordine protettivo, ma non isolato. Naturalmente è una generalizzazione, ma testimonia un dato comune. Un’altra caratteristica delle nostre periferie è il fatto che siano profondamente diverse una dall’altra, sono difficili da catalogare, ma sono presenti non solo ai margini dei grandi centri urbani, ma anche in città medie e piccole e perfino nei paesi di provincia. Anzi proprio le periferie dei centri più piccoli sono in un certo senso le più pericolose. Quelli in cui, penso per esempio al Veneto, si registrano fatti di sangue efferati anche a livello familiare. Le tipiche villette a schiera di quei panorami e di quelle periferie, se ci pensiamo bene condividono con le banlieue quel senso di isolamento e separatezza che invece non hanno le periferie caotiche delle grandi città italiane».
Abis e il suo gruppo di lavoro nelle prossime settimane presenteranno pubblicamente il Piano periferie. Ecco qualche anticipazione.
«I concetti chiave sono due: da una parte, ed è la conseguenza di quello che abbiamo detto fino ad ora, è il potenziamento delle infrastrutture e delle strutture in modo che il flusso centro-periferia sia intensificato; l’altro ancoraggio è invece il tema del rammendo di piccole strutture rilevanti per i territori: non dobbiamo costruire ex novo in Italia il 60% degli immobili sono vuoti, il grande sforzo sarà quello del ripensamento delle loro funzioni. In questo senso dotare le periferie di grandi parchi ben attrezzati che fungano da polmoni della città, la periferizzazione delle strutture sanitarie (pensiamo al caso di Milano con il polo dell’Humanitas a Rozzano) e il trasferimento di poli artistico/culturali (ancora Milano con la fondazione Prada) sono leve decisive. Aggiungo un dato. Milano, Londra, Seul, alcune città americane costituiscono la prova provata che per chi vuole sperimentare nel sociale e nella creatività urbana le periferie sono il contenitore migliore, il più sexy, perché offrono spazi e possibilità introvabili in altri contesti. Concludo con una postilla. In futuro la vera competizione non si farà a livello di Stati, che versano in una crisi profonda, ma di città. Di grandi città metropolitane, per meglio dire. Citta dai 10 milioni di abitanti in su, per intenderci.

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Occorre leggere il territorio, coinvolgere i cittadini

Sul degrado delle periferie il prof Stevan: “Occorre leggere il territorio, coinvolgere i cittadini”. Intervista esclusiva allo storico Preside di Architettura.
Oggi è spesso la violenza, la risposta al disagio, alla convivenza di etnie diverse, alla strisciante criminalità esistenti in alcuni luoghi decentrati che chiamiamo per facilità e per una forma di sintesi imperfetta, periferie. E le periferie ormai, nell’immaginario collettivo, sono diventate sinonimo di degrado ambientale e sociale, un male inevitabile, una realtà irreversibile: uno spazio urbano e umano, insomma, senza speranza. Si potrebbe dire: luoghi dell’ “assenza”, assenza di identità, di storia, di regole. Una parte di città in ombra, in cui spesso sono deficitari i servizi, la Bellezza, la manutenzione, il verde. Perchè? Di chi la colpa?

A queste domande risponde il prof Cesare Stevan, professore emerito di Architettura Sociale e Preside “storico” della Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano.

“Attualmente il problema delle periferie si può dire che sia un problema mal posto. Nell’era in cui è dominante il concetto di rete perde gran parte del suo tradizionale significato il rapporto tra il centro urbano e ciò che sta fuori di esso. E’ per questo motivo che, in generale, preferisco parlare di parti del territorio e della città. Il problema politico quindi non è il “dove” si situano, ma il “come” vengono gestite le varie parti di una città. Il degrado, così come una buona qualità urbana, si possono trovare dovunque, in centro come nelle cosiddette periferie. E’ opportuno superare una generalizzazione che tende sempre e comunque a parlare di “periferie”, aggiungendo d’ufficio il qualificativo “degradate”. Il degrado urbano denuncia sempre una evidente mancanza di capacità politica di gestire la cosa pubblica (il territorio, il patrimonio edilizio, i beni architettonici e ambientali) e una adeguata valorizzazione delle risorse, naturali, ma soprattutto umane di un territorio. Non facciamo d’ogni erba un fascio e analizziamo attentamente le diverse parti di una città considerando con realismo quello che sono e quello che potrebbero essere in un sistema ampio di relazioni. Limitiamo l’uso del termine periferia alle periferie storiche, frutto di esperienze lontane e bisognose di profondi rinnovamenti urbanistici, come è stato nella nostra città il caso delle grandi aree dismesse della Bovisa e della Bicocca. Riconosciamo inoltre l’impegno con cui l’urbanistica (moderna e contemporanea) da più di mezzo secolo ha proposto e sperimentato modelli organizzativi tesi a interpretare le trasformazioni culturali ed economiche che hanno via via mutato il contesto sociale delle nostre città. Così, mentre per il passato si può pensare che sia esistita una differenza sostanziale nel modello urbano tra ciò che veniva considerato il centro urbano e la gerarchia di valori (economici, di servizi e sociali) che ne conseguiva, oggi, e per il prossimo futuro, è utile attenersi a un concetto di rete in cui si può affermare che tutto può essere al tempo stesso “centro” e ” periferia ”. Un sistema a geometrie e centralità variabili. Centralità diversificate in base alle qualità che sanno esprimere e ai progetti di sviluppo che sanno definire. Milano presenta un quadro estremamente interessante di interventi di iniziativa pubblica e di privati, soprattutto per quanto riguarda l’edilizia residenziale, che va dai quartieri di edilizia economico popolare dei primi anni del ‘900 alle esperienze del villaggio dei giornalisti, a Milano San Felice e Milano 2. Abitare lontano dal centro della città non è sempre una condanna, può consentire una qualità della vita migliore, ove esista una classe politica attenta a una corretta gestione: adeguate dotazioni di servizi, collegamenti efficienti, controllo sociale e prevenzione/repressione a partire dalle piccole cose che riguardano il quotidiano di ciascuno degli abitanti. Il caso del quartiere Stadera è degenerato al punto di non ritorno in cui è oggi, perché per almeno trent’anni non si è fatto niente e sono prevalsi atteggiamenti improntati alla tolleranza di violazioni e violenze che non dovevano essere tollerate.

Ma oggi la periferia all’attenzione dei media gode di una pessima fama, la rappresentazione del degrado sociale e criminale. Quale l’origine?

“La fama negativa nasce dalla crisi della periferia storica, quella legata al modello di prima industrializzazione. Si costruivano case dormitorio per gli operai attorno alle fabbriche: nasce così con connotati negativi una “parte di città” priva di quella composizione sociale che rende culturalmente sollecitanti i rapporti tra i cittadini. Quartieri con edifici di scarsa qualità e sovraffollati. Un ambiente caratterizzato da forti tassi di inquinamento, privo di verde e di servizi. Nell’immaginario collettivo si è consolidata questa immagine delle periferie ed è estremamente difficile cancellarla. Anche quando con eccellenti interventi urbanistici si pensa di esserci riusciti, basta un nulla a richiamarla e a farla rivivere come immagine egemone: “la periferia degradata”. Oggi che le fabbriche si sono riallocate sul territorio, che abbiamo trovato una soluzione ai principali problemi creati dalle aree via via dismesse dal vecchio modello di sviluppo della città fabbrica, oggi per sconfiggere irrevocabilmente la fama negativa della periferia dobbiamo puntare su una visione politica di ampio respiro e su un patto sociale che metta al bando ogni speculazione di parte sulle condizioni delle periferie e delle parti degradate della città. Sembra predominante una volontà perversa di non gestire in positivo il quotidiano, di abbandonare, di dimenticare le condizioni di vita intollerabili di alcune parti di città, pensando che renda di più politicamente gestire il disagio o attendere l’occasione che giustifichi oggi anche interventi repressivi. La buona politica, invece, dovrebbe definire una strategia di intervento che parta da una conoscenza adeguata delle diverse situazioni ed evitando di fare di ogni erba un fascio, sappia definire tempi e priorità di un progetto di rinnovamento. Il tutto dovrebbe partire da un atteggiamento molto difficile nel nostro paese, quello che ha consentito qualche anno fa la rinascita di New York: “Tolleranza zero”. Ripristinare la legalità è l’inizio. E’ vero che le scritte sui muri, ad esempio, sono di gran lunga meno gravi di altre violenze che si attuano sulle persone o sulle cose, ma se permetti che i muri, le facciate degli edifici pubblici e delle scuole vengano imbrattate, senza alcun rispetto per gli altri e per l’architettura stessa avrai una ricaduta fortemente negativa sulla formazione e sui processi formativi degli alunni che guardano ogni mattina la loro scuola deturpata nella più totale indifferenza. Addio bellezza! “Tolleranza Zero” non è la soluzione, ma l’avvio di un processo di responsabilizzazione, che per avere successo deve partire contemporaneamente dall’alto e dal basso, coinvolgere i cittadini richiamandoli alla loro storia e sollecitando una loro identificazione con i luoghi dove vivono. I cittadini vanno sollecitati alla difesa del proprio quartiere, aiutati nell’opera di rinnovamento. Si smetta di considerare queste zone, tanto più se degradate, solo un bacino di voti.

Praticamente, nell’immediatezza, che cosa si può fare?

“E’ evidente che occorre prioritariamente ricostruire la storia di un quartiere, dare un’identità ai suoi cittadini. Non è una cosa semplice, soprattutto con un mix di abitanti spesso molto diversi, ma occorre ristabilire questa identità in cui riconoscersi e non tollerare ciò che è intollerabile. Non lasciar spazio a ricati o intimidazioni. Il ripristino della legalità è essenziale, anche con atti repressivi e apparentemente impopolari. Ma importante soprattutto è dare un futuro, definire scenari di sviluppo per il quartiere e per il miglioramento della vita dei suoi abitanti. E’ indispensabile fare un progetto che parte dal cercare i punti di forza, creare una gerarchia di interventi, identificare l’elemento di omogeneità dei cittadini, rifacendosi alla loro storia che sarà centrale nella ricostruzione della loro identità. Le risorse umane ci sono e sono le risorse da cui non si può prescindere. Si devono censire anche le risorse ambientali: rapporto tra parte edificata e verde, rete dei trasporti, restaurare eventuali strutture architettoniche degradate, per evidenziare le potenzialità della zona. La soluzione è saper leggere il territorio e avere una visione strategica del suo sviluppo, formulando in base a questa un progetto da rendere condiviso. Spesso le risorse disponibili sono di più di quelle necessarie. E’ evidente quindi che ci vuole impegno, tenacia e soprattutto la convinzione che il degrado non è ineluttabile e che anche quella parte di città che qualcuno definisce periferia può essere bella e rappresentare una nuova centralità. E ci vogliono idee, invenzioni, fantasia, impegno politico.”

Una lezione che impegna conoscenza e sensibilità, che insegna come non si possa generalizzare se si vuole avere rispetto dell’uomo, della sua identità, della sua storia.

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Bando periferie degradate 2015, entro maggio la graduatoria

Dopo mesi di silenzio ecco le novità: le risorse sono scese da 200 a 78 milioni, ammissibili 400 progetti ma finanziabili massimo 60.
Dopo mesi di lavori dietro le quinte, sta per terminare la fase di valutazione dei progetti candidati al bando periferie degradate; entro il prossimo maggio sarà pubblicata la graduatoria delle proposte ammesse che, però, potranno contare su una dotazione di 78 milioni di euro, a fronte dei 200 milioni stanziati inizialmente.

Queste le principali novità emerse nel corso dell’audizione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri, Paolo Aquilanti, alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla sicurezza e il degrado delle città.

Bando periferie degradate: le risorse scendono a 78 milioni
Il Segretario Aquilanti ha spiegato che il piano di riqualificazione delle aree urbane degradate, previsto dalla Legge di Stabilità 2015, aveva istituito inizialmente un fondo dotato di 200 milioni di euro (50 per il 2015, 75 per ciascuno degli anni 2016 e 2017) per il finanziamento dei progetti risultati in posizione utile in graduatoria.

Il bando pubblicato in Gazzetta aveva già ridotto la cifra iniziale, passando a 194.138.500 euro (44.138.500 euro per il 2015 e 75.000.000 sia per il 2016 che per il 2017).

Aquilanti, però, ha spiegato che le risorse originariamente disponibili sono state ulteriormente ridotte a 78,5 milioni di euro per interventi legislativi successivi.

Con tali risorse, secondo una stima media del contributo richiesto per ciascun progetto, potranno essere finanziati circa 40-60 dei progetti tra quelli che saranno definitivamente ammessi.

Periferie degradate: l’iter di approvazione dei progetti
Del bando periferie degradate non si avevano notizie dal termine per la presentazione delle proposte (30 novembre 2015); tuttavia il Segretario Aquilanti ha chiarito che il comitato di valutazione, insediato il 4 aprile 2016, si è riunito 28 volte fino alla seduta conclusiva del 31 gennaio 2017.

E’ stato comunicato che nelle prime quattro riunioni sono state definite le modalità operative di funzionamento, approvata la scheda di ammissibilità, discusse alcune delle criticità riscontrate, individuando le soluzioni più idonee; a partire dalla quinta riunione, il 17 maggio 2016, si è proceduto alla valutazione di ammissibilità delle proposte che si è conclusa il 31 gennaio.

Sono stati presentati 870 progetti, di cui 400 ammessi alla valutazione di merito.

Secondo quanto riferito da Aquilanti, ultimata la prima fase, il comitato avvierà la seconda e ultima fase di valutazione di merito delle proposte ammesse che presumibilmente terminerà intorno alla fine del prossimo mese di maggio, in cui sarà approvata una graduatoria di merito.

La durata dell’ultima fase non potrà essere breve, in quanto, oltre ai punteggi che potranno essere attribuiti in modo automatico sino a concorrenza di 40 punti si renderà necessario approfondire gli specifici contenuti di ciascun progetto, valutandone effetti, sostenibilità, quantità e qualità dei servizi erogati, attribuendo un punteggio sino a 60 punti.

Bando periferie degradate Vs Bando periferie
Alla richiesta di unificare il bando periferie degradate con il bando periferie da 500 milioni, il Segretario ha risposto in modo negativo vista la natura molto diversa dei due bandi per platea di partecipanti e per aree d’intervento.

Infatti, il bando periferie degradate era rivolto a tutti i Comuni con aree marginali mentre il secondo è rivolto solo alle periferie delle città metropolitane o dei comuni capoluogo di provincia.

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Sicurezza, al via a Roma gli Osservatori territoriali.

Ma nelle periferie regna il degrado
Il viaggio di Ofcs.report nei municipi abbandonati.
Sette Osservatori territoriali per la sicurezza a Roma. Il 9 gennaio scorso è stato firmato un protocollo tra Prefettura, Comune e forze dell’ordine per la durata di due anni. Da cosa deriva questo bisogno? Lo scorso ottobre nella capitale era stata dichiarata l’emergenza sicurezza: i vigili avevano ammesso di non poter stare dietro a tutte le segnalazioni di aggressioni, furti e violenze ricevute. Ma su quindici municipi, sono solo sette le zone individuate, e alcune coprono aree vastissime. Solo il centro ha il suo Osservatorio privilegiato. Le periferie si sentono abbandonate.

VIAGGIO NEL III MUNICIPIO DELLA CAPITALE: TRA DROGA, RISSE E DEGRADO
Siamo stati proprio in uno di quei municipi penalizzati, accorpati con un territorio dell’Osservatorio troppo grande per affrontare adeguatamente i bisogni del quartiere. Ecco il III Municipio, tra piazza Sempione e Mentana, con più di 200mila abitanti. Abbiamo appuntamento con il preside della scuola elementare di piazza Monte Baldo, la più frequentata dai bambini della zona. Tra gli schiamazzi degli ultimi studenti che escono di pomeriggio, il preside mostra due piani dell’istituto completamente abbandonati. Polvere, calcinacci, metalli sporgenti e una puzza di muffa dominante: “Questo spazio con il teatro doveva essere il punto di ritrovo del quartiere e invece è un pezzo di scuola di cui mi vergogno, ed è anche pericoloso quando qualche bambino passa di qua. Se non ci sono spazi condivisi, i ragazzi non sanno che fare e vedono solo il degrado come possibilità nel municipio”.

Sono le sei di pomeriggio quando usciamo. Le persone rientrano dal lavoro e alla fine di via Nomentana, nella piazza principale, la situazione sembra tranquilla tra un bar con i tavolini sulla strada e le luci di Natale ancora accese. Andiamo verso il mercato rionale, sono in molti a ricordare quando, anni fa, era il fiore all’occhiello di Montesacro. Adesso apre solo la mattina, forse, ma le porte non sono chiuse a chiave. Dentro due clochard si preparano per passare la notte sotto il tetto del mercato. Fuori, nel giardinetto, l’immondizia impedisce il passaggio. Fermiamo una signora con il bastone: “che ci fa qui da sola signorina?”. Incoraggiante.

Proseguiamo, fino a ritrovarci sotto il cavalcavia che gli abitanti del quartiere chiamano “Viadotto dei Presidenti”. Qui, nel 2015, un gruppo di cittadini aveva riconquistato un pezzo di periferia con il progetto “SottoilViadotto”, giovani architetti del gruppo finanziato da Renzo Piano, avevano dipinto e costruito una piazza da zero, coperta dal ponte. Adesso solo sacchi neri con dentro qualsiasi cosa. I pezzi di macchine e tutte le istallazioni che rendevano colorato il posto sono state distrutte, o al massimo usate come case occupate. E’ impressionante tornare solo 12 mesi dopo e vedere in lontananza un gruppo di ragazzi sui 20 anni intenti a drogarsi. Alle sette di sera, nella capitale. Suoniamo al citofono del palazzo più vicino al viadotto: “lì ci sono spesso risse”, spiegano i residenti. Qua è la periferia a essersi ripresa un pezzo buono per lo spaccio. Benvenuti in un quartiere di Roma, lontano dal centro.

PERCEZIONE DELLA SICUREZZA
Appena istituiti, gli Osservatori delle sei zone non centrali avranno già molto da lavorare. Ogni area ha le sue criticità, ma tutti i presidenti dei municipi accorpati nel protocollo degli Osservatori reclamano: “le periferie sono abbandonate”. Il III Municipio è solo un esempio, ma anche Giovanni Boccuzzi, presidente del V Municipio (Centocelle-Prenestino) ha sottolineato “Noi abbiamo 246mila abitanti, una città in pratica. Si tratta di uno strumento azzoppato, che non guarda ai veri problemi di Roma. E’ bello tenere pulito il centro storico, ma i cittadini che vivono in altre zone hanno quasi paura a uscire la sera. Non si può”.

“La percezione dei romani è di una città fragile e minacciata” si legge in una relazione della stessa sindaca Raggi. Una città dove non si vive bene, degradata e dove la giustizia non viene fatta rispettare, soprattutto in certi municipi, che sono poi grandi come una città media italiana. Nel 2015, sotto il Prefetto Gabrielli, con l’esperienza dei “Collegi” ci sono state le prove generali. Ora gli Osservatori esistono davvero. Segnalare criticità e degrado, vigilare in ore particolari se necessario, essere più vicini ai problemi di quartiere con interventi immediati: questi sono i compiti di ogni Osservatorio.

I PUNTI CALDI PER GLI OSSERVATORI
Il Viceprefetto aggiunto Giuseppe Licheri spiega che “L’Osservatorio è presieduto e coordinato da un dirigente della Prefettura, è composto anche dal direttore di ciascun municipio, dai dirigenti dei commissariati, con il compito anche di coordinare lo sviluppo tecnico–operativo delle determinazioni; dai comandanti dei Carabinieri, da un rappresentante della Guardia di Finanza; da personale di Roma Capitale e dai comandanti dei Gruppi di Polizia locale“. Anche le risorse economiche verranno messe in campo da tutte queste autorità.

Verrà data particolare attenzione a insediamenti abusivi, occupazioni di immobili, prostituzione, spaccio di stupefacenti, abuso di sostanze alcoliche e roghi tossici. Per qualcuno possono sembrare fenomeno lontani dalla realtà, ma sono all’ordine del giorno appena ci si allontana dal Colosseo. Quando si tratta di sicurezza sono tutti coinvolti, “Possono partecipare alle riunioni- continua il Viceprefetto – anche i responsabili amministrativi interessati alle tematiche. Un esempio: per interventi che riguardano i roghi tossici sono chiamati a partecipare anche rappresentanti del Gruppo Carabinieri Forestale. Anche i cittadini hanno un loro ruolo: nella fase operativa possono testimoniare o formare dei comitati appositi”.

Altre città sembrano interessate a prendere il modello degli Osservatori Territoriali per la sicurezza, ma forse prima vanno sperimentati bene i suoi risultati su Roma.

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La nuova ricetta delle periferie: tutti in chat per fermare ladri, buche e rifiuti

Si chiama “Sicurezza WhatsApp”, un quartiere in chat per dire no al degrado. Ladri, buche, cumuli di immondizia, scippi, roghi tossici. A Roma c’è Tor Sapienza, quadrante della periferia est, che da tempo sta cercando nuovi modi per combattere il degrado. “Abbiamo attivato il servizio da qualche giorno, ed è molto usato” spiega Roberto Torre del comitato di quartiere Tor Sapienza.

Lo stesso quartiere dove scoppiò la rivolta contro i migranti nel centro di accoglienza di viale Giorgio Morandi, lo stesso soffocato da anni dai roghi tossici che partono nei pressi del campo nomadi di via Salviati. E lo stesso dove è morta la ventenne cinese Yao Zhang, scippata nella stazione deserta di Tor Sapienza, travolta da un treno mentre tentava di inseguire i ladri. Ci provano ancora, dopo aver creato gruppi su Facebook, aver scritto decine di e-mail al municipio e al Comune. “Siamo abbandonati” l’eco delle parole dei residenti. Ora c’è questo numero (338.6105342) diffuso dal gruppo Fb del comitato di quartiere che invita “tutti i cittadini a memorizzare questo numero e ad inviare foto e segnalazioni sul territorio. Le segnalazioni saranno inoltrate dal Comitato a tutti gli uffici di competenza”.

Ci proveranno, ancora una volta, a sostituirsi al vuoto. Così come hanno fatto tempo fa i residenti delle Cinque Colline. Stavolta siamo a Roma sud, sulla Laurentina al confine con Pomezia. La loro battaglia contro gli incivili che lanciano sacchetti dell’immondizia a terra è stata vinta installando cartelli che avvisano: “Area sottoposta a videosorveglianza”. In attesa che qualcuno installi telecamere, sono i residenti a riprendere con gli smartphome chi abbandona immondizia. Seguono un vademecum condiviso con le forze per l’ordine. Anche loro, i residenti delle Cinque Colline, fanno ovviamente il “controllo del vicinato”.

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Periferie, Ater: “Condivido le lamentele sulla manutenzione”

“Ora si spaccia anche a mezzogiorno, non più solo di notte, eppure questo non viene raccontato abbastanza. Molti di coloro che sono ingaggiati dalla criminalità romana (immigrati) fanno molto più notizia in quanto stranieri che arrivano e non in quanto assoldati dalla malavita”. Così Adriana Goni Mazzitelli, antropologa, autrice della ricerca per l’Università Roma Tre ‘Vincere il confine’, frutto del lavoro di quasi cinque anni a Tor Sapienza. “Che qui la tensione nel 2014 fosse altissima, è verissimo. Ma se da un lato ci si è resi conto della consistenza della mafia di colletti bianchi in politica – precisa – dall’altra si dovrebbe parlare di più della mafia ordinaria legata ai traffici di droga, senza attendere che il pretesto per farlo sia lo straniero”.

Come ridare al territorio un vissuto quotidiano che lo renda abitabile e sicuro?

Mentre percorriamo i corridoi bui dei palazzoni di via Morandi, teatro delle rivolte di due anni fa, il prof. Carlo Cellammare, docente di Urbanistica a La Sapienza, esprime la desolazione per un progetto che si è rivelato fallimentare, quello che qui risale agli anni Settanta: edifici pensati in modo che dovessero essere autonomi dal resto del quartiere, isolati da un vialone difficilmente attraversabile, di fatto mai più dotati dei servizi ipotizzati all’origine. Eppure ci sono giovani che si danno da fare, tra cui Carlo Gori, regista, responsabile del Centro Culturale municipale Giorgio Morandi. Ci racconta che la maggior parte delle persone arrivate qui venivano dalle baracche del Quarticciolo e dalle aree limitrofe. Via via si sono stratificate altre persone, molte delle quali hanno occupato la spina centrale degli edifici e anche i sotterranei. Alcuni angoli evidenziano un’opera di salvaguardia e di decoro grazie al contributo volontario di alcune associazioni come la nostra, ma nella maggior parte di questi luoghi domina il degrado e l’abbandono. “Noi cerchiamo di fare più progettazione territoriale possibile”, spiega. “Con il gruppo teatrale funzioniamo molto bene. Proponiamo laboratori a cui partecipano i migranti, artisti veri. E’ un lavoro prezioso: loro non si stancano mai quando sono in un centro per immigrati, hanno quindi bisogno di impegni per avere una vita pressoché normale. Così dai loro dignità. E’ un mondo estremamente interessante”.

Se ci fosse maggiore e più costante manutenzione…

Raggiungiamo Giovanni Tamburino, Commissario Straordinario ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), già magistrato, il quale condivide le lamentele degli inquilini: “E’ vero che è insufficiente. Io ho voluto indicare nelle linee guida ATER che la manutenzione fosse messa al primo posto per l’anno 2017. Abbiamo aumentato in bilancio di oltre il 30% la quota destinata a questo aspetto. Non sarà sufficiente ma credo che migliorerà la situazione. Vogliamo anche che ci sia un maggior controllo su come questi soldi sono spesi. Deve finire la storia che le aziende demandate alla manutenzione poi non la fanno o la fanno male. Bisogna che la facciano, bene e nei tempi”. E aggiunge l’auspicio “che la collaborazione tra Ater e Comune ci sia e sia piena ed efficace. Altrimenti si rischia di perdere tempo. Per esempio, man mano che recuperiamo gli alloggi, noi li rimettiamo a disposizione del Comune per nuovi ingressi. L’anno scorso circa 400. Ma le nuove assegnazioni sono tardive. C’è qualcosa che non funziona. Il fenomeno delle occupazioni abusive potrebbe così essere superato anche se resta molto complesso giacché persone senza scrupolo fanno commercio di queste case. E’ gravissimo questo e deve essere stroncato. Il fatto è che bisogna ritrovare il senso di una regola comune perché diversamente prevalgono forme di sopraffazione, di violenza e minaccia che ricadono sempre sul più debole. E’ un dato di verità che c’è una guerra tra poveri. Per quanto mi riguarda non è questione di pelle, italiano o non italiano. Io non faccio differenza. Sicuramente ci saranno degli immigrati che starebbero meglio nei loro paesi ma questo vale anche per tanti italiani che si comportano male. Quindi la vera distinzione che dobbiamo fare è tra chi vuole una società secondo le regole e chi non la vuole. Che ci abitino italiani o non italiani a me non interessa, è una enorme sciocchezza per me”.

E’ solo una questione di usare la Forza pubblica?

“L’intervento della forza pubblica alle volte non è possibile – sottolinea Tamburino a proposito delle richieste, che pure emergono da diversi abitanti, circa l’impiego più massiccio della Polizia, vista come paralizzata, a garanzia della sicurezza del territorio – perché le conseguenze sarebbero ingestibili. Chi ha il difficilissimo compito dell’ordine pubblico, in una città come Roma, si deve confrontare con gli effetti di una azione. Conosciamo per esempio circa un migliaio di appartamenti dove vi sono persone che non ne hanno il diritto, ma non si può procedere contro di loro in modo indiscriminato. Le conseguenze vanno preparate e vanno predisposte. Togliere delle persone quando non ci sono strutture alternative causerebbe problemi di ordine sociale. Si tratta purtroppo di situazioni insolubili. Procediamo per approssimazioni progressive”. E intanto annuncia la fase esecutiva della trasformazione del quarto piano di Corviale dove ci si avvia verso una riconfigurazione generale dando un centro a quel modulo abitativo, “il cui famigerato quarto piano non ha funzionato nemmeno per un giorno”. A fronte dell’impegno di tanti abitanti, e non, per creare socialità e integrazione in territori difficili come questo, forse manca un anello di congiunzione con le istituzioni, mancano sostegno e risorse. “Se mancano – conclude Tamburino – vanno cercate, costruite e pretese”.

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Le start up di successo? Nascono in periferia e sono fondate da donne

A Milano la maggior parte nasce per iniziativa di donne, under 35. Dalla ciclofficina con bar all’hamburgeria con carne di struzzo, la fantasia delle nuove imprenditrici non ha limiti. Dal 2012 al 2015 complessivamente in città sono nate 382 imprese e l’83% è ancora in attività. Danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti

Anche in periferia possono nascere start up di successo. I fratelli gemelli Veca, uno apicoltore e l’altro disegnatore, a Baggio hanno avviato un progetto di animazione nelle scuole sulla difesa della biodiversità, con tanto di “Ape canterina” che accompagna gli incontri con i bambini. Luca e Riccardo, ingegneri ma con una grande passione per la corsa, al Parco Nord hanno creato, insieme ad altri amici, la prima (e per ora unica) Runstation della città: “La42” un negozio in cui non solo si possono acquistare scarpette, tute o integratori, ma dove è anche possibile fare la doccia o lasciare in deposito oggetti di valore (dal cellulare al pc) prima di fare la solita corsetta durante la pausa pranzo o prima di cena. Sono due tra le 570 imprese e start up sorte dal 2012 a oggi a Milano. Alcune grazie a specifici bandi dedicati alle periferie. L’ultimo, chiamato “Startupper” e chiuso l’estate scorsa, ha messo a disposizione 1,5 milioni di euro: ne sono nate così 21 imprese di periferia. La maggior parte fondate da donne (16), under 35 e in possesso di laurea o diploma. Le nuove realtà che aprono sono sei in Corvetto, quattro a Villapizzone, tre in Lorenteggio e Giambellino, due in Barona e in Bicocca-Greco una a Morsenchio, a Bruzzano, in Bovisa e in Certosa. La fantasia dei novelli imprenditori va dalla produzione di pasta fresca a una moderna ciclofficina con annesso bar, passando da elementi d’arredo esterno realizzati in marmo a un’hamburgeria dove gustare sapori esotici come carne di canguro e struzzo, sino a uno studio specializzato nella realizzazione di spazi abitativi sostenibili, come giardini e orti urbani.

Secondo i dati del Comune, presentati oggi dall’assessora al Lavoro e Commercio Cristina Tajani, su 382 start up monitorate e sostenute attraverso gli otto incubatori d’impresa o con i diversi bandi dedicati come “Risorse in periferia”, “Tira su la clèr”, “Tra il dire e il fare” e “Agevola Credito”, l’83% è ancora attiva a 5 anni dalla nascita, quando il tasso di sopravvivenza nazionale è del 44%. Sono imprese che danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti. Dal 2012 al 2015 hanno fatturato circa 314 milioni di euro, mentre i finanziamenti ricevuti ammontavano a 7,1 milioni di euro. Questo vuol dire che ogni euro dato tramite bando ha generato circa 43 euro di fatturato. “I risultati raggiunti costituiscono la miglior cartina di tornasole per giudicare l’efficacia delle politiche attuate dall’Amministrazione”, ha sottolineato con un certo orgoglio l’assessora.

Tra le imprese sostenute in questi anni dal Comune ci sono anche quelle nate o che operano all’interno delle carceri milanesi. Ne è nato anche un consorzio, Vialedeimille, che raccoglie cinque cooperative con 100 persone -detenute o in misura alternativa- assunte e un fatturato di produzione di circa 1,5 milioni di euro in diversi campi d’intervento, dalla ristorazione alla meccanica, dall’artigianato alla botanica.

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La sfida di Made expo, rigenerare le città dalle periferie

Il salone internazionale dell’architettura e delle costruzioni che si terrà dall’8 all’11 marzo in Fiera Milano con 1.400 espositori punta sulla ripresa del mercato delle costruzioni. Quattro settori specialistici e un progetto per la riqualificazione urbana del futuro
La sfida dei prossimi anni per l’architettura e l’edilizia si chiama “rigenerazione urbana” e parte dalle periferie con l’obbiettivo di ridurre il consumo del suolo e riqualificare aree urbane con fabbricati spesso caratterizzati da scarsa qualità architettonica e costruttiva e spesso privi di requisiti antisismici.

Con attenzione, per quanto riguarda le politiche urbanistiche, alle aree di aggregazione, ai servizi e ai parchi con l’obbiettivo di riqualificare anche il capitale sociale delle periferie. E’ questa la parola d’ordine lanciata alla presentazione di Made expo, fiera internazionale dell’architettura, del design e dell’edilizia che si terra dall’8 all’11 marzo nei padiglioni di Fiera Milano. Un grande hub per il mondo dell’architettura e dell’edilizia.

Dibattito al quale hanno preso parte, oltre al presidente di Made Expo Roberto Snaidero, l’architetto Stefano Boeri, John Foot professore di Storia italiana all’Università di Bristol, Cristina Tajani assessore al Commercio del Comune di Milano, responsabile del progetto Sharing Cities.

“In Europa viviamo sempre di più in città diffuse, disperse e frammentate, i cui tessuti urbani aumentano ogni anno il proprio diametro, pur generando deserti al loro interno, città in cui centro e periferia sono parole dure e difficili da definire. Non perché non ci siano centri o non ci siano periferie, ma perché oggi, per i fenomeni demografici e di immigrazione, per la polivalenza di culture che abitano le nostre comunità urbane, la questione è diventata irriducibile a una semplice opposizione tra centro e periferia – ha spiegato Stefano Boeri -. Si stanno formando anticittà non contrapposte alla città ma che le erode dall’interno distruggendo il fare città”.

“In Italia abbiamo città dove questo tipo di periferia è nel cuore stesso della città: i Quartieri Spagnoli a Napoli così come il centro storico a Genova sono luoghi di sofferenza e di assenza di servizi o come via Gola, a Milano: vicino alla Darsena. Le politiche urbane – ha proseguito l’architetto Boeri – non possono semplicemente essere politiche che riducono le distanze centro-periferia o intervengono localmente per portare servizi. Occorre promuovere condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni. Si tratta di creare spazi di aggregazione, di cui le singole comunità possano appropriarsi e che possano gestire e spazi di interazione, dove le diverse comunità possano incontrarsi”.

“Le città e le società occidentali hanno attraversato profondi cambiamenti nell’ultima trentina d’anni. La fabbrica non è più il centro della vita urbana o economica.

– ha esordito il professor John Foot -. Gli immensi spazi che si sono liberati sono stati riempiti con nuovi progetti a destinazione mista, aree residenziali, centri commerciali, zone ricreative, musei, parchi. Questo cambiamento rivoluzionario ha inciso sul funzionamento della città, e quindi sul ruolo dell’architettura e dell’edilizia, oltre che del design. Adesso si lavora tutto il tempo, e la giornata è scandita da internet e dai social media. Non esiste un orario lavorativo: la vita – come l’orario di lavoro – è flessibile. Ritmi, tempi e griglia delle attività urbane non sono più quelli di uno spazio industriale. I luoghi del lavoro e del tempo libero sono mescolati tra loro, non più separati da muri, cancelli e divise da lavoro che fanno vedere a tutti qual è la nostra occupazione. Questi mutamenti sono stati accompagnati e spinti dalla globalizzazione che ha portato l’immigrazione di massa e spostamenti di popolazione in tutto il globo, coinvolgendo persone qualsiasi in cerca di lavoro, ma anche professionisti – architetti, designer, costruttori – che sono chiamati a trasportare altrove le loro capacità di innovazione e le loro competenze, in ambienti e culture diverse”. Per questo, ha spiegato ancora Foot, “dobbiamo andare oltre la retorica della periferia, la rapidità del cambiamento fa sì che la periferia di oggi possa diventare il centro di domani”.

“E’ un cambiamento epocale – ha spiegato l’assessore Cristina Tajani – dove cittadini, amministrazioni e progettisti dovranno collaborare in maniera sempre più stretta per favorire uno sviluppo territoriale attraverso l’ottica dell’innovazione. Essere una Smart City non significa puntare esclusivamente sulla tecnologia quale strumento per migliorare la qualità della vita dei cittadini ma soprattutto favorire la condivisione e l’innovazione. E’ un processo virtuoso che unito alla trasformazione di porzioni di città già urbanizzate come gli ex-scali ferroviari in aree di aggregazione, servizi e parchi urbani, ci proietterà nelle città del futuro. Ed è qui – ha concluso – che la Made expo gioca un ruolo da protagonista grazie alla sua capacità di attrarre innovazione e ricerca proponendo soluzioni e materiali che avranno un ruolo fondamentale in questo processo di trasformazione”.

“Questa edizione di Made expo – ha dice Roberto Snaidero – rappresenterà un fondamentale momento di confronto tra imprese e istituzioni per dare un contributo alla crescita economica e alla trasformazione del nostro Paese e delle nostre città. Grazie a un mix unico di innovazione e competenza la manifestazione presenta e mette a disposizione del mercato gli strumenti indispensabili per portare avanti questo ambizioso progetto. Anche quest’anno Made expo sarà un grande evento esperienziale, un luogo fisico dove scoprire, vedere, conoscere, toccare, decidere. Un grande evento in grado di spingere verso i mercati internazionali e far ripartire quelli nazionali. Grazie ai quattro Saloni tematici specializzati e al palinenseto di iniziative mirate, i visitatori potranno conoscere in anteprima materiali e soluzioni in un momento di inizio ripresa del mercato delle costruzioni che, secondo stime di Ance, nel 2017 registrerà un incremento dell’0,8% degli investimenti in edilizia”.

La fiera, con circa 1.400 espositori offre una visione multi-specializzata su materiali, sistemi costruttivi, serramenti, involucro, finiture e superfici. Quatto i Saloni.

Made costruzioni materiali (padiglioni 6-10) – Presenta soluzioni costruttive e tecnologie innovative, materiali performanti, attrezzature più all’avanguardia per un’edilizia sostenibile e sicura. In scena sistemi costruttivi e strutture in legno (di grande interesse per il boom delle case in legno), laterizio, calcestruzzo e acciaio, materiali, manufatti, prodotti performanti nei settori dell’impermeabilizzazione, isolamento, protezione, risanamento e rinforzo strutturale, colore e pitture, sistemi di misura, prova e controllo, soluzioni per il cantiere e per la sicurezza. Made involucro e serramenti (padiglioni 1-2-3-4) – Rappresenta tutta la filiera in tema di serramenti, tende, sistemi di oscuramento, protezione, involucro edilizio e coperture. Made interni e finiture (padiglioni 5-7) – Propone soluzioni ad alta qualità e prodotti innovativi per pavimenti, rivestimenti, porte, maniglie e accessori, controsoffittature, partizioni interne, pareti attrezzate, scale e finiture. Made software tecnologie e servizi (padiglione 10) – Mette in mostra le ultime novità in ambito software: dalla progettazione e calcolo strutturale alla progettazione architettonica ed ingegneristica, e del Bim. E poi stampanti 3D, realtà aumentata, tecnologie e servizi innovativi funzionali a progettare, costruire e gestire edifici ed ambienti.

Da segnalare infine Carousel for Life, il progetto che FederlegnoArredo ha deciso di lanciare a Made expo generato da una ricerca condotta sull’architettura per l’infanzia, finalizzato a orientare una nuova visione che definisca criteri qualitativi di progettualità e produzione, mettendo i bambini al centro del mondo.

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Stefano Boeri: l’edilizia verde che porta la Natura nelle città e il lavoro nelle comunità terremotate

Il tema dell’edilizia sostenibile è all’ordine del giorno non solo tra gli addetti ai lavori ma anche a livello governativo, economico e sociale: gli edifici del prossimo futuro dovranno sfruttare fonti rinnovabili, sprecare meno energia possibile e integrarsi con l’ambiente circostante per consentire alle persone una migliore qualità di vita.

Ne abbiamo parlato con un personaggio di spicco dell’architettura italiana, Stefano Boeri, noto al grande pubblico per essere l’artefice del cosiddetto “Bosco Verticale”, un nuovo complesso residenziale a Milano in cui le forme tipiche dei grattacieli sono state integrate ed arricchite da piante ed alberi disposti su più livelli. Boeri è stato recentemente incaricato di ricostruire con criteri moderni e sostenibili alcuni luoghi pubblici di Amatrice. L’intervista è andata in onda in “A Conti Fatti” rubrica di EconomiaCristiana.It trasmessa ogni domenica da Radio Vaticana 105.0.

Architetto Boeri, il suo bosco verticale non è solo un nuovo stile architettonico ma anche un nuova filosofia edilizia che porta l’ambiente a diretto contatto con gli edifici. Può raccontarci la genesi, l’essenza e la filosofia di questa idea?
Le torri di Milano, il “Bosco verticale”, sono due edifici alti 120 e 90 metri che ospitano sulle facciate circa 21 mila piante: 850 alberi e 5 mila arbusti; le restanti 15 mila sono piante rampicanti, perenni ecc. L’idea è contribuire fortemente a cambiare il rapporto tra artificio e natura all’interno di una grande città. Portare l’equivalente di due ettari di bosco su una piccola superficie nel centro di una città vuol dire, da un lato, produrre ossigeno e assorbire CO2 grazie a foglie, alberi e piante; dall’altro assorbire le polveri sottili del traffico e creare condizioni climatiche che riducono fortemente i consumi energetici.
L’altro grande contributo di questi edifici, che stiamo verificando e studiando in questi mesi, è rispetto alla biodiversità: non solo ci sono più di 100 diverse specie di piante ma hanno anche nidificato più di 15 specie di volatili; significa che molte specie che erano lontane dei cieli di Milano, sono tornate a nidificare grazie a questo esperimento. Io credo che sia un prototipo, un esperimento che sta dando dei frutti interessanti.

Le due torri milanesi sono edifici di pregio, destinati a persone benestanti. Si può conciliare l’edilizia sostenibile con quella popolare?
L’investimento importante fatto per queste due torri ci ha permesso di fare una serie di ricerche e trovare delle soluzioni tecniche che prima non avevamo a disposizione. Oggi noi siamo in grado di utilizzare queste conoscenze per realizzare architetture che hanno una destinazione molto diversa. In Cina, Francia, Svizzera e Albania stiamo facendo delle architetture, non così alte, anche con funzioni diverse, tutte però con la presenza degli alberi sulle facciate, come elemento caratteristico. Quindi, assolutamente si: oggi si può pensare anche ad un’edilizia sociale che porti la natura a contatto diretto con gli abitanti.

In un recente seminario a Pavia, organizzato per discutere di architettura alla luce dell’enciclica ambientale di papa Francesco, la “Laudato si’”, le ha dichiarato che gli architetti hanno ora anche un ruolo attivo nella salvaguardia dell’ambiente e nel miglioramento delle condizioni sociali nelle città.
Credo che la “Laudato si'” sia un testo di grandissima importanza perché pone con forza il problema di un’etica della responsabilità nei confronti del rapporto con la natura. Senza ipocrisie chiama, non solo gli architetti, ma tutti quelli che hanno a che fare con le trasformazioni dello spazio, a fare i conti con le grandi questioni dell’ecologia; l’ecologia integrale, olistica, a cui oggi è importante guardare, come il Pontefice sottolinea più volte.
Credo che, da questo punto di vista, il lavoro dell’architettura sia importante, perché si tratta di immaginare una città che stabilisca un rapporto diverso con la natura. Non dimentichiamo che le città producono circa il 70% dell’anidride carbonica che viene poi immessa nell’atmosfera, e le foreste e i boschi ne assorbono il 45%. Quindi portare i boschi, la foresta, dentro la città, significa in qualche modo andare a combattere il nemico dov’è più forte; oppure, in altri termini, immaginare un nuovo modo di conciliare la città con la presenza della natura. E’ davvero una sfida importantissima per il futuro, e questo richiamo a una visione ecologica integrale mi sembra importantissimo.

Il nostro paese è pronto a questa sfida, dal punto di vista politico, amministrativo, finanziario ed economico?
L’Italia ha delle caratteristiche particolarissime. E’ un paese dove il consumo di suolo, la crescita delle città a scapito dell’agricoltura e della natura non si è mai arrestato. Contemporaneamente è un paese dove sono cresciute le foreste e i boschi perché l’abbandono delle campagne, l’abbandono dell’agricoltura, l’abbandono dei piccoli centri appenninici ha determinato una crescita delle foreste spontanee. Io credo che oggi dovremmo ragionare molto bene su questa condizione e capire, ad esempio, che investire sui boschi e le foreste, che sono una risorsa di tutto il territorio italiano, dalla Valle d’Aosta al Trentino, dal Lazio agli Abruzzi, alla Calabria, potrebbe portarci non solo a immaginare un paesaggio dove la forestazione, anche urbana, è più importante, ma immaginare anche un modello economico. Come nel secolo scorso il carbone e l’acciaio sono stati risorse materiali che hanno, in qualche modo, ispirato e governato un intero modello produttivo, credo che il legno il legno dei nostri boschi possa diventare una risorsa fondamentale per pensare a un sistema di distretti del legno nelle diverse regioni italiane che in qualche modo coprano tutta la filiera: dal taglio, perché sappiamo che la selvicoltura cura e aiuta le foreste e la biodiversità, fino alla fabbricazione, agli arredi, al riciclo del legno come materiale ecologico. E’ un investimento importante. Un po’ provocatoriamente mi è capitato di dire che in Italia servirebbe un ministero del legno e dei boschi.

Un’applicazione pratica di questo concetto è la nuova mensa di Amatrice, realizzata in gran parte in legno, per cui lei ha prestato gratuitamente la sua opera. Può raccontarci il progetto e il suo impegno futuro per le zone terremotate?
Siamo stati chiamati dal Corriere della Sera e dal TG La7 a immaginare uno spazio che fosse una mensa scolastica ma, come il Sindaco di Amatrice ci ha subito chiesto, fosse anche un luogo pubblico, per eventi; un luogo d’incontro della comunità ma anche, mi piace dire, un luogo di lavoro: abbiamo finito di costruire l’edificio della mensa, stiamo finendo l’edificio di altri otto ristoranti, e a pasqua dovremmo inaugurare una piazza che, di fatto sarà, un polo dell’alimentazione, dell’agro alimentare, che darà lavoro a circa 130 persone, quindi a 130 famiglie. Io credo che l’attenzione alla ricostruzione dei luoghi di lavoro sia la condizione perché le comunità non si disperdano. L’effetto di un sisma è che in pochi secondi annulla secoli di storia e decenni di memoria collettiva; si perde il rapporto col presidio del territorio che solo il lavoro può dare: quando dico lavoro intendo pastorizia, zootecnia, enogastronomia, turismo, artigianato. Quando si perde quell’elemento, si perde il senso del fare città, del fare comunità sul luogo. Quindi penso che sia fondamentale partire dal ricostruire, inventare luoghi di lavoro, che permettono alle comunità di non perdere il rapporto con quel territorio.

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