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Napoli: pubblicato il bando di progettazione per abbattere le Vele

Avviso da 672mila euro per la realizzazione del progetto “Restart Scampia”. Scadenza 8 maggio.
Il Comune di Napoli ha pubblicato il bando per la realizzazione del progetto “Restart Scampia”, che prevede l’abbattimento di tre delle quattro Vele e la rifunzionalizzazione della quarta, che svolgerà, in un primo momento, il ruolo di infrastruttura per l’emergenza sociale.

Dopo l’assegnazione, da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, del finanziamento per il progetto presentato dal Comune, gli Uffici hanno lavorato alla predisposizione di due bandi di progettazione.

SCADENZA ALLE ORE 12.00 DEL 08/05/2017. Il primo bando è stato già pubblicato – CLICCA QUI – e prevede 22 giorni di tempo per presentare le proposte e 50 giorni di tempo, al vincitore del bando, per la predisposizione della progettazione esecutiva, che sarà oggetto della successiva gara lavori per l’abbattimento e la rifunzionalizzazione.

Nei prossimi giorni sarà completato e pubblicato il secondo bando, relativo alla progettazione del Piano urbanistico esecutivo dell’area, che andrà a definire in maniera puntuale l’obiettivo di rendere Scampia un elemento di cerniera con i comuni limitrofi, luogo dove si andranno a localizzare alcune funzioni privilegiate e nuove funzioni a carattere urbano e territoriale (metropolitano), in grado di dare una nuova articolazione alla composizione sociale del quartiere.

“Incomincia così a prendere corpo il progetto della nuova Scampia – afferma l’assessore al Diritto alla città Carmine Piscopo – nato dalla collaborazione con le istituzioni universitarie cittadine e dal confronto con i comitati e le associazioni attive sul territorio.”

“Il programma di rigenerazione urbana che vale complessivamente 26 milioni di euro – continua l’assessore – costituisce la coerente proposta dell’Amministrazione di affrontare incisivamente il tema delle cosiddette ‘periferie’ allo scopo di realizzare, con atti concreti, nuove centralità supportate dalla realizzazione di servizi urbani integrati di mobilità, incisivi servizi di assistenza sociale, formazione scolastica, sicurezza, iniziative educative, culturali e sportive.”

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Giù le Vele e poi? Per Scampia un piano vero non c’è

Il progetto, finanziato con 18 milioni di euro, prevede tre casermoni da radere al suolo ed uno che resta in piedi per gli alloggi temporanei di chi aspetta ancora la nuova casa. Niente soldi per le politiche sociali e la lotta alla povertà. Parlano urbanisti e operatori sociali del territorio: se ci occupiamo solo di demolire il cemento Scampia non rinascerà mai.
Buttare giù le Vele non è roba che si sbriga in pochi mesi e, soprattutto, non equivale a fare tabula rasa del disagio sociale. Sono questi gli ultimi temi caldi del dibattito. E così Scampia, dentro il circolo vizioso dei consumati corsi e ricorsi storici, affronta l’ennesima diatriba su cui si gioca il suo futuro. Il progetto “Restart Scampia” non convince tutti. Finanziato dal Governo con 18 milioni di euro tramite il recente bando sulle periferie ed accompagnato dalla promessa, un mese fa, del sindaco Luigi De Magistris dell’abbattimento della Vela Verde prima dell’inizio dell’estate, prevede che delle quattro oggi superstiti ne resterà in piedi solo una, riqualificata e trasformata. Ma dati e date, costi e propositi nelle 70 pagine di relazione tecnica vengono ora passati al setaccio da chi di mestiere e da chi la periferia la vive.
L’urbanista Daniela Lepore: abbattere non basta

«Come al solito continuiamo ad occuparci solo delle pietre – commenta Daniela Lepore, docente di Tecnica e pianificazione urbanistica all’università Federico II di Napoli -. Radere al suolo le Vele e sostituirle con case più carine e dignitose non basta. L’abbiamo già fatto con tre Vele e non mi pare sia andata bene. “Restart Scampia” si limita ad essere un lavoro di computo metrico per capire come demolire tre vele ed aggiustare la quarta, non c’è mezza parola su come migliorare la qualità di vita del quartiere. Andranno a terra, ma a me non è chiaro cosa si è deciso di mettere dopo in quel lotto, chi lo fa e con quali soldi. Servirebbe, invece, una cabina di regia per un programma integrato che, coinvolgendo soggetti pubblici, privati e del terzo settore, metta in piedi politiche non solo di riqualificazione edilizia, ma di welfare e dinamizzazione economica».

Critiche anche sul riciclo della Vela Celeste che accoglierà temporaneamente chi resta in attesa di una nuova casa. «Tenere una Vela in piedi è pura follia – afferma Lepore -. Si spenderanno un sacco di soldi per rendere abitabili, al suo interno, alloggi parcheggio, poi però la svuotiamo per farla diventare sede della Città metropolitana. Ma è noto che a Napoli ciò che è provvisorio diventa definitivo. Inoltre la Città metropolitana ha già tante sedi e come possono alcuni uffici rivitalizzare Scampia? Scampia ha centomila abitanti, non coincide esclusivamente con le Vele, che non sono unico problema di degrado, eppure il soggetto più ascoltato dai politici della città è il suo Comitato. Ben venga, ma se con una botta di soldi pubblici ogni volta si buttano giù pietre per creare altre pietre, allora in questa periferia, a parte il panorama architettonico, non cambierà mai nulla».
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L’architetto Antonio Memoli: ecco il piano.

A rispondere in prima battuta è l’architetto Antonio Memoli, promotore nel 2014 dello studio preliminare per la risistemazione del lotto M, poi alla base del progetto “Restart Scampia” di due anni dopo. «Se il provvisorio diventa definitivo, non sta a me giudicare – replica -. Di sicuro il Comitato Vele lavorerà per evitare che tutto stagni. La vicenda delle Vele è lunga e articolata e a me sembra esemplare l’esistenza di un comitato che per anni ha vigilato e lottato per un diritto di casa e dignità». E spiega: «Nel piano di spesa di “Restart Scampia” c’è, comunque, anche la redazione del PUA per il lotto M (con uno stanziamento di 350mila euro) quando il terreno sarà liberato dalle tre Vele. Su questo lotto si potranno utilizzare 354mila metri cubi, di cui 88mila e 500 come edilizia residenziale (in parte pubblica), e troverà collocazione la sede della Città metropolitana. Quindi i 18 milioni sono soltanto una quota dei complessivi 118 preventivati all’inizio, abbiamo già fatto un’ulteriore richiesta ufficiale di finanziamenti. Se non ci fosse stata l’azione energica del Comitato, non avremmo avuto questo primo stralcio di investimento economico da parte del Governo».
“Ristrutturare le Vele costa più che demolirle”

Finisce sotto esame anche l’aspetto tecnico dell’abbattimento. «Ristrutturare una Vela e renderla abitabile alla luce del loro stato attuale e delle recenti normative è sicuramente più costoso che abbatterla – è la considerazione dell’architetto Enrico Martinelli per 13 anni a capo del Servizio periferie di Palazzo San Giacomo -. L’abbattimento, che è solo una modalità di intervento, a mio avviso è l’unica strada percorribile, ma non si può demolire sic et simpliciter. Occorre un piano preciso e dettagliato, un collaudo specifico che è fotografia dell’attuale stato strutturale degli edifici. Le Vele furono occupate, non ancora ultimate, subito dopo il terremoto dell’Ottanta, e dunque un collaudo ufficiale e complessivo non vi è mai stato. La demolizione va fatta in sicurezza, altrimenti si rischiano crolli pericolosi. Occorrono altresì le gare di appalto. E tutto questo sarà fatto entro giugno? Di quale anno?».

“Qui resta la desolazione”

Dubbi, incertezze che non sono né flemma né sonno né sterile polemica di chi a Scampia vive ed opera. È semplicemente il coraggio di rovesciare il ragionamento: demolire luoghi comuni ed icone negative senza mettere mano al piccone. Ogni giorno, sul campo, in prima linea. «Sono anni che si dicono sempre le stesse cose – afferma Giovanni Zoppoli, coordinatore del centro territoriale Mammut -. Va bene abbattere le Vele perché sono una vergogna, è un inizio, ma qui resta la desolazione. Oggi c’è miseria economica dopo lo smantellamento di buona parte delle piazze di spaccio che davano lavoro, è aumentata la disoccupazione tra i giovani, le scuole al collasso hanno sempre più percorsi speciali, rinunciando alla didattica attiva, il discorso sui rom è regredito a vent’anni fa, l’intervento sociale continuativo è lasciato alle associazioni che sono allo sbando per i continui tagli ai fondi. Le Vele sono la foglia di fico per nascondere i veri problemi alla radice». Il punto è: scassare, rottamare sì, ma innanzitutto l’emarginazione sociale. «Interessante – propone padre Fabrizio Valletti, che da 15 anni dirige il Centro Hurtado – sarebbe un progetto con una partecipazione dal basso di quelle associazioni che già operano sul territorio e possono dar vita ad una reale aggregazione di servizi e di cultura, del resto un modello realizzato con efficacia in altre città e periferie. Purtroppo a Napoli di progettazione urbanistica che non fosse solo per abitazioni ne ho conosciuta poca, le periferie sono concepite come dormitori. La difficoltà strutturale e culturale in questa città sta nel riunire le menti per un programma comune. Le cose si possono fare, ma bisogna pianificarle seriamente e avere il coraggio di investire innanzitutto nelle persone». Altre case popolari nel lotto M liberato? «Per carità – risponde il gesuita -, e poi chi controllerà? L’abusivismo è la regola, spesso avvalorata dagli amministratori. Ci sono, al contrario, possibilità che non vengono sfruttate: un giovane architetto di recente ha tentato di portare il suo piano innovativo per la Vela Celeste, che però è stato bloccato. E invece per fare davvero qualcosa di buono sarà necessario che ci si metta a ragionare. Tutti insieme».

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Corviale, il punto ristoro divide il M5s

Dopo il mercato contadino, a Corviale rischia di chiudere anche il Punto Ristoro adiacente il centro polifunzionale. La proposta di garantirne la prosecuzione dell’attività fino al prossimo bando, divide il M5s
Lo striscione che campeggia fuori il punto ristoro del centro polivalente Nicoletta Campanella lascia poco spazio ai fraintendimenti. L’attuale gestione deve riconsegnare i locali all’amministrazione municipale che appare determinata a metterli a bando. Una decisione che tuttavia risulta meno condivisa di quanto sia lecito aspettarsi.

LA PROSECUZIONE DEL SERVIZIO – Martedì 11, in Consiglio municipale, si è assistito ad un acceso confronto tra maggioranza ed opposizione. Oggetto del contendere, il futuro del punto ristoro. Del bar-ristorante di Corviale, si è infatti interessata la Giunta Torelli. C’è una memoria di giunta che ha legato il destino di quell’attività commerciale all’attivazione di un nuovo bando. Tempi lunghi, durante i quali il servizio verrebbe a mancare. “La scorsa settimana, come Partito Democratico, avevamo presentata una mozione per chiedere venisse garantita la prosecuzione del servizio all’interno del punto ristoro – spiega il consigliere dem Gianluca Lanzi – ci è stato bocciato. Poi però si è svolta una commissione congiunta Bilancio e Politiche sociali, in cui è stato presentato un nuovo documento che abbiamo chiesto venisse portato in aula”.

LA RICHIESTA DI PROROGA – Nel documento citato da Lanzi, si fa riferimento sostanzialmente a due richieste. Da una parte si chiede la pubblicazione di un bando per l’assegnazione del punto ristoro entro il marzo del 2018. Dall’altra si suggerisce di nominare l’attuale gestore “a custode della struttura fino al termine dell’iter previsto per il nuovo bando, in modo da garantire la manutenzione, la custodia e tutti i servizi che attualmente vi vengono svolti”.

L’INDIFFERENZA – La richiesta di discutere la mozione, dopo alterne vicende, è stata messa ai voti. Undici contrari e undici favorevoli. “Ma in casi di parità – spiega Lanzi – prevale il voto contrario”. Tra i favorevoli però, oltre ai nove dell’opposizione, hanno votato anche due consiglieri del M5s. Si tratta di Maria Cristina Restivo e Luca Lauro, presidenti delle commissioni Bilancio e Politiche Sociali. Due voci fuori dal coro. “Dopo aver bocciato la nostra mozione – rimarca Lanzi – si sono rifiutati di discutere anche la mozione dei loro consiglieri”. A parte isolate eccezioni, “Il Movimento 5 stelle dimostra di non interessato al fatto che il punto ristoro all’interno del centro polivalente ‘Nicoletta Campanella’ possa chiudere”. Esattamente come recita lo striscione. Dopo il mercato contadino, Corviale rischia di rinunciare ad un altro punto fermo. Dopo vent’anni d’attività.

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Trullo, un museo a cielo aperto nella periferia di Roma

Tra‘Street art’ e poesia il quartiere rivive di nuova linfa.
Piove. Dai vetri sporchi dell’autobus si intravedono accese note di colore che stridono con il bianco del cielo. Stralci di poesie ed enormi figure campeggiano sui muri scrostati dei palazzi. Sono i murales del Trullo, quartiere periferico a sud ovest di Roma, tra Magliana e Portuense. Un museo a cielo aperto dedicato «agli artisti di se stessi», a quei passanti con il «cuore ballerino», capaci ancora di versare lacrime d’emozione. Un’ ode alla borgata da parte di chi lì, «in quel giardino periferico» (noto più che altro per fatti di cronaca fino a non molto tempo fa) ci è sempre vissuto: «Trullo, l’unico modo di scriverti è viverti sul baratro della strada. Sei l’abbraccio di una madre al figlio in cui perdersi per ritrovarsi come viandanti», si legge su una parete colorata di un giallo tenue come il timido raggio di sole che tenta di affacciarsi tra le nuvole rigonfie di pioggia.

Giovani donne, grandi occhi, animali, madonne, fiori, mare, navi e pesci. Sono questi i soggetti della Street Art del quartiere che rivive di nuova linfa grazie ai versi in romanesco dei Poeti der Trullo («Siamo in sette e siamo un coro che vuole cantare l’amore e la rabbia, l’esperienza e la meraviglia, la provenienza e il viaggio») e alle pennellate vivaci dei Pittori Anonimi del Trullo, un gruppo di residenti che, armati di vernice, hanno deciso di ridare colore a quell’angolo di città (anche qui c’è un monumento dedicato ai caduti della seconda guerra mondiale) sprofondato nell’oblio.
Così, vicino alle finestre, ai panni stesi e ai prati che crescono incolti, sulle saracinesche chiuse dei negozi e addirittura accanto alla carcassa di un vecchia motocicletta, spuntano massime che fanno da didascalie a immagini variopinte. «Oggi dipingo, scrivo e sento di poter cambiare quelle strade facendo parlare il cuore. Sono e rimango uno qualunque, così chiunque potrà fare la mia strada» scrive Giulia, con lo spray nero, su un enorme muro verniciato di rosa.

«La bella che è prigioniera ha un nome che fa paura: Libertà» leggiamo accanto a una donna con un copricapo indiano dalle piume colorate. «Seppelliscimi: augurio di sopravvivere meno di chi si ama per non viverne la mancanza» è impresso, invece, a ridosso di un mare turchese affollato di pesci. Quello stesso mare in cui un uomo e una donna si ancorano «per navigare altrove». Perché, come si legge poco più in là, «il viaggio è la ricerca di un coraggio clandestino che non conosce muri». Un viaggio che diventa esso stesso «meta», «vita», in cui ci capita di incontrare persone che «come stelli cadenti, lasciano a noi qualcosa di grande dando risposte a mille domande».

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Roma, la città raccontata dalla web arts resistances

Tre cortometraggi narrano una Capitale resistente, inclusiva, creativa, dall’esperienza del Trullo, alla creatività che trova ancora difficoltà ad esprimersi delle street artist donne all’esperimento del Maam
Tre cortometraggi per raccontare una Roma insolita, dove l’arte diventa strumento di resistenza e di rinascita urbana: dal Trullo rianimato da poesia e colori di autori anonimi e conosciuti, alla Pineta Sacchetti dove rivivono le storie di un quartiere raccontate sui muri e sulle serrande, alla sfida delle ragazze della street art, che anche all’ombra del Colosseo si fanno strada in un mondo ancora prevalentemente maschile, al MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, unico museo abitato del mondo, dove una variegata comunità multiculturale e autogestita sta trasformando un ex salumificio occupato sulla Prenestina in un presidio di cultura e diritti.

Il laboratorio. I cortometraggi sono stati realizzati da un gruppo di ragazzi e ragazze francesi che hanno preso parte a un laboratorio di giornalismo partecipativo condotto dall’associazione marsigliese Tabasco Vidéo in collaborazione con il web magazine Babelmed nell’ambito del progetto Web Arts Resistances (www.webartsresistances.net), piattaforma di documentazione e reportage sulle esperienze di cittadinanza che, a Nord e Sud del Mediterraneo, usano pratiche artistiche per coinvolgere e farsi sentire.

Vita di strada. I film sono: Vita di strada e che è girato tra il quartiere della Pineta Sacchetti e la borgata del Trullo: racconta la rinascita di questi due quartieri attraverso l’impegno di chi ci vive e la partecipazione degli artisti, tra poesia, street art e danza hip hop, dai Poeti anonimi der Trullo ai Pittori anonimi del Trullo all’associazione Pinacci Nostri.

Maam Musei fuorilegge. Maam Musei fuorilegge racconta la storia dell’ex fabbrica che viene occupata da un gruppo di famiglie – italiane, sudamericane, rom, di diversi paesi dell’Europa dell’Est e dell’Africa – e coinvolto in un esperimento artistico per riflettere sulla privazione dei diritti di chi vive ai margini o è straniero. Inizia un percorso che porta alla nascita di un vero museo, che si arricchisce giorno per giorno di opere e interventi artistici, proteggendo così chi ci vive dagli sgomberi.

[P]ose ta bombe. Il documentario fa parte di un progetto audiovisivo realizzato da Elodie Sylvain e Caroline Ricco che esplora il fare e lo stare nello spazio pubblico delle ragazze e donne che hanno scelto la street art come campo di espressione. Dopo una prima puntata a Casablanca, la seconda tappa del loro viaggio ha toccato Roma.

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L’intorno (le periferie)

Le periferie salveranno il mondo. Quelle delle grandi citta’, le nazioni minuscule o non influenti, le popolazioni emarginate, costrette ad abbandonare la loro terra, per motivi di interessi altrui, guerre, carestie. Tutto quello che accade ai margini, nelle parti liminali delle curve delle distribuzioni, e’ li’ che il mondo cambia, che si rinnova. Abbandonate l’idea che siano le medie a creare le eccellenze e le novita’. Il consenso, la maggioranza silenziosa, servono a dare lavoro a politici e ministri, ma non cambiano il pianeta. Come non cambiano l’Europa. Le esagerazioni, gli asintoti, ci hanno imposto, per anni, ormai, a riconsiderare le scelte future. Il problema e’ quando qualcuno pensa che si possa tornare indietro o che non ci sia spazio per posizioni non ideologiche o di interesse, ma puramente politiche, sociali. Umane.

In questi anni del dopo Lehman, le periferie hanno continuato a trascinare i giorni, uno dopo l’altro, i giorni senza lavoro, senza opportunita’, senza aiuto dal ‘mondo dei medi’. Le periferie dilaniate da guerre fratricide, in Siria, Libia, oggi in Venezuela, forse Macedonia. Le periferie che, una mattina di cinque anni fa, a Londra, sono scese per strada e hanno provato una rivolta dei ciompi, le periferie che si ammassano, che annaspano nelle acque gelide dello stretto di Sicilia, le periferie che spingono, i cui figli vanno in scuole dove si parlano tante lingue, ma tutti comunicano assieme in inglese od italiano. O francese. Le periferie di Parigi, di Londra, di Roma, Los Angeles, Tunisi. Queste folle liminali che cambiano le aspirazioni di una nazione, o che ridisegnano, nei loro riferimenti alla cultura pop della ‘nazione internauta’, quella che ormai discute e si confronta oltre i nostri confini geopolitici. La cultura delle generazioni incipienti (smettiamola di chiamarle giovani) e’ sempre stata un drone. Oggi piu’ che mai.

I giovani, quelli che in Italia non hanno votato Si al referendum (manco fosse una colpa), quelli che incroci, che lavorano come camerieri, i giovani che ti mandano il CV, dove ti raccontano ogni piccola esperienza di lavoro in termini complicati, ma dove, in controluce, leggi semplicemente che hanno voglia di fare, di imparare. Un ragazzo serbo me lo ha scritto, nella lettera di presentazione: I want to learn. I want to grow. Voglio imparare, voglio crescere, voglio aumentare la capacita’ di vedere e capire il mondo, di usarlo, di piegare le correnti, i flussi finanziari e non, per costruire altro. Per creare spazi nuovi. Le periferie che ci guardano, le citta’ mediterranee con tetti e case accalcate una sull’altra, l’est di Londra, o tutti i villaggi e paesi del pianeta dove chi ci abita magari conosce tutti, ma sa, e’ consapevole che quello che rende giustizia al proprio destino e’ il muoversi, accettare la provocazione delle cose.

Oggi, quel mondo delle periferie sta creando una sua etica particolare. Le periferie abbandonate dai massimalismi della politica, dagli investimenti e dalle attenzioni, i giovani in fuga per la vita, verso il centro nevralgico del pianeta, stanno reinventandosi la morale, in un mondo senza divinita’ se non un senso di sacro per valori propri, l’amicizia, la fede nel futuro. Nasce da qualche parte l’impronta del nuovo. In una mensa della croce rossa in Germania, dove ho visto un signore siriano parlare animatamente con uno del Sudan. Signori, non profughi, persone, non immigrati. Muovendo le mani, spostando parole in tre lingue diverse, reinventavano il mondo.

Questa visione, di cambiamento, di impellente necessita; di emergere, di fare le cose attorno comode, magari non eccelse, ma personalmente utili, il tanto dal poco, se non dal nulla. Il mondo in un’ottica punk, anarcoide, ma dove rinasce il rispetto, dove si nascondono immagini di mondi futuri dove torna a trionfare l’umano. Come nella musica del collettivo Rudimental, a est dell’Hipsterborough di Hoxton, come nelle declamazioni in salsa glitch-hop di Kate Tempest, la Patti Smith della Generazione XYZ, come nei video che raccontano l’altro lato dell’immigrazione francese dei The Blaze. Guardatelo il video di Territory, perfetto nella sua storia di un ragazzo nordafricano che torna a casa in nave, la famiglia che lo attende, il suo ballo sfrenato sui tetti del pianeta, quel pianeta che cambia ogni giorno. Esempi del magma che si agita, da sempre, negli intorni della media.

‘There is no place like my home, since I was born’, cantano i The Blaze.

E, per chi viene dalle periferie, la casa e’ il mondo, perche’, se si vive lungo i bordi, tutto il dentro, tutto quello che si trova al suo intorno e’ luogo familiare. Tutte queste persone sono in cerca di una voce, di eroi, di modelli da seguire, di idee forti e pesanti a cui affidarsi. O, alla fine, ce la faranno da soli, come il ragazzo mutilato che torna a usare lo skateboard. L’apparente emarginazione, una recisione del corpo sconosciuto della societa’, nonostante tutto, continua a lottare per affermare la sua esistenza. La periferia. Culla del dissenso, dell’abbinamento inusuale e della liberta’ personale.

Soundtrack

The Blaze – Territory

Rudimental – Waiting all night

Kate Tempest – The Beigeness

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I ragazzi dimenticati nelle periferie d’Italia

Dallo Zen di Palermo a Quarto Oggiaro, discariche di questioni sociali irrisolte. Viaggio alla fine dello Stato, dove le istituzioni sono assenti. A cominciare dalla scuola alle porte di Roma, dove regna il degrado e si può morire in una sparatoria
I ragazzi dimenticati nelle periferie d’Italia
Il piccolo Totò, se fosse il sindaco, renderebbe il suo quartiere irriconoscibile. «Vorrei che non ci fossero più omicidi, che i ragazzi non spacciassero e realizzerei subito una piazzetta con il divieto di buttarci la spazzatura». Totò, 12 anni, è nato e vive allo Zen 2 di Palermo. Quartiere difficile, come lo sono, del resto, le altre periferie italiane. Difficili, spesso brutali, soprattutto per chi è minore. Esclusione, marginalità, povertà, non solo economica ma pure educativa. Assenza costante delle istituzioni.

«Qui la politica è venuta sempre e solo a chiedere i voti nelle campagne elettorali, promettendo grandi rivoluzioni, per poi scomparire», ci racconta indignata una mamma dello Zen, che ogni pomeriggio manda suo figlio nell’unico centro di aggregazione presente in questo agglomerato urbano di palazzi chiamati padiglioni, realizzato durante l’era di don Vito Ciancimino e Salvo Lima, all’epoca del famigerato “Sacco di Palermo”.
Centro di aggregazione che esiste grazie all’impegno dell’associazione Zen Insieme e Save the Children, che da qualche anno svolge un ruolo fondamentale nelle periferie del nostro Paese. Dove la latitanza pressoché totale delle istituzioni ha lasciato che questi luoghi diventassero discariche di questioni sociali irrisolte.
Dallo Zen 2 a Quarto Oggiaro, periferia milanese. Da San Luca e Platì, in Calabria, roccaforti della mafia più potente al mondo, a Ponte di Nona, sobborgo della Capitale deturpato da spaccio e degrado. L’Espresso è andato nei luoghi dimenticati dallo Stato, dove monta la rabbia sociale, a parlare con chi l’emarginazione la vive quotidianamente sulla propria pelle. E che ha trovato nelle associazioni del territorio, supportate da Save the Children, l’unico appiglio di normalità in un contesto dove anche solo un campetto da calcio è una grande conquista.

Totò e i libri

A casa di Totò, tolti i testi scolastici, non ci sono libri. Se fosse esistita una biblioteca pubblica ne avrebbe già letti parecchi. Così in mancanza di una pubblica, è nata quella al primo piano del punto luce di Save the Children dello Zen 2. Una giovane bibliotecaria da settimane sta archiviando i titoli e alcuni ragazzini coetanei di Totò la aiutano nell’impresa. «A fine mese arriveranno altri mille libri», ci spiega seduta senza staccare gli occhi dal grande registro in cui elenca i nuovi testi appena sistemati. È in questa grande stanza dalle pareti bianche e rosse che Totò sconfigge la timidezza e inizia a leggerci il suo programma elettorale, scritto durante il laboratorio “Se io fossi sindaco”. «Farei in modo che le persone si vogliano bene. Basta con la violenza che ha rovinato tante famiglie. Un grande parco giochi, l’ospedale, un campetto. Basta con lo spaccio».

Nelle richieste del piccolo Totò c’è il grido d’aiuto di un intero quartiere. Tra chi prova a dare speranza a questi giovani c’è il preside dell’istituto comprensivo Leonardo Sciascia. Giuseppe Granozzi dirige una scuola di frontiera. La dispersione scolastica è alta, alcuni bambini, mentre parliamo nel cortile, si aggirano fuori dai cancelli con una palla in mano. Sulla destra, collegato alla scuola, c’è un grande edificio di cemento, è la palestra. Finestre rotte, all’interno macerie ovunque, ferro arrugginito. Vandalizzata da 14 anni.
Intere generazioni di studenti non l’hanno mai potuta utilizzare. Un vero spreco, qui si potrebbero fare anche molte attività extrascolastiche. Per fortuna, ci dice Granozzi, a breve, finalmente, dovrebbero ristrutturarla. «Se è vero come sostengono che lo Zen è il serbatoio di manovalanza di Cosa nostra, allora forse sarebbe il caso di investire molte più risorse in queste scuole. È nelle periferie che si vince la sfida educativa, realizzando non solo scuole che funzionano, ma anche belle, accoglienti», riflette il preside.
La bellezza contro il degrado. Ricetta basica, economica, ma a Roma, nei palazzi dove si fanno leggi e si stabiliscono finanziamenti, hanno un’altra idea della “buona scuola” necessaria.

All’istituto Sciascia fanno il tempo pieno, nonostante manchi la mensa. I ragazzi si arrangiano con un panino. «Non me la sento di lasciare andare a casa i ragazzi, dove passerebbero le loro giornate? Non c’è un teatro, non ci sono piscine, né centri sociali, né un centro di aggregazione pubblico», si congeda con un sorriso amaro Granozzi. Storie reali, che confermano dati e statistiche raccolte dall’organizzazione umanitaria Save the Children: La Sicilia è la regione con la più alta percentuale italiana di alunni senza mensa a scuola (8 su 10), ha il 24 per cento di ragazzi che abbandonano precocemente gli studi (la media nazionale è del 14,7 per cento), meno di 1 bambino su 10 può andare all’asilo nido, il tempo pieno è assente in 9 classi primarie su 10 e più di 4 giovani su 10 non utilizzano internet.

Gli angeli dell’Aspromonte

Per lungo tempo sono stati i paesi dell’anonima sequestri. Poi sono diventati i feudi di una ’ndrangheta leader nel narcotraffico. San Luca e Platì, paesi d’Aspromonte. Raccontati meravigliosamente da Corrado Alvaro, che a San Luca era nato. Arriviamo qui seguendo la blacklist di dati e numeri fornita da Save the Children: il 38 per cento dei minori calabresi è in povertà relativa. In Calabria i servizi garantiti per l’infanzia coprono solo l’1 per cento dei bambini. E 3 classi su 4 delle scuole elementari e medie non hanno il tempo pieno.
Quasi 1 ragazzo su 5, inoltre, abbandona gli studi prima del tempo e il 78 per cento dei bambini e ragazzi non partecipano ad attività culturali e ricreative.
La Locride è una delle zone studiate dall’Ong. E dove spesso la ’ndrangheta è l’unica vera alternativa. A San Luca, per esempio, non è facile la vita di una sedicenne. Per una ragazza è consigliabile il matrimonio non oltre i vent’anni. Matrimoni combinati. Accade ancora, come ci conferma anche Carmela Rita Serafino, la preside della scuola elementare e media di San Luca. «È un dogma, persino le madri più giovani, invece di desiderare una vita diversa per le proprie figlie preferiscono che seguano le loro orme».
Le periferie italiane: simbolo di uno Stato che non c’è
Miriam, invece, ha scelto la strada più bella e difficile. A sedici anni vuole essere libera. Ha già scritto due libri. Il primo si chiama “Angels, la vita segreta di un angelo nascosto”. Stampato da una piccola casa editrice, il genere è fantasy. Ambientato in una Londra piena di fascino e di mistero. Miriam frequenta il punto luce aperto qualche settimana fa da Save the Children a San Luca, in collaborazione l’associazione Civitas solis. Una villetta, all’interno completamente ristrutturata e con ampi spazi dove i ragazzi si dividono tra studio e laboratori. Una novità assoluta per San Luca. Che sembra aver suscitato la curiosità dei genitori, anche quelli più riservati e più diffidenti. Anche qui, prima dell’apertura di questo luogo a parte la piazza del paese e qualche bar sala giochi, i bambini non avevano un posto dove fare attività ricreative dopo la scuola. Perciò o restavano a casa oppure vivevano la strada, con tutti i rischi che ne conseguono. «Mancano vere opportunità, e già il fatto che non esistano strutture né per i giovani né per gli adolescenti è un segnale del disinteresse delle istituzioni», spiega Miriam, che parla solo in italiano.
Può sembrare una banalità, in realtà la maggior parte dei suoi pari dialogano in dialetto, anche a scuola. Per questo da qualche tempo persino i dirigenti scolastici hanno imposto che si parli in italiano. «I giovani devono capire è la lingua a metterli in connessione con il resto del Paese, è un modo per aprirsi al mondo», ci spiega Carmela Rita Serafino. Lo stesso vale per Platì, il paese che l’attuale ministro dell’Interno, Marco Minniti, definì la Molenbeek della ’ndrangheta. Se la lotta alle ’ndrine si fa con le armi della cultura, qui la guerra dello Stato non è mai iniziata. «Ogni anno cambia il preside», racconta scoraggiato Fortunato Surace, reggente dell’istituto, «siamo in una scuola di frontiera, senza una palestra e senza molto altro da offrire. Oltretutto il Comune di Platì per 10 anni non ha avuto amministrazione, tra scioglimenti per mafia e elezioni saltate per mancanze di liste».
Surace non nasconde l’amarezza per il degrado educativo che tocca con mano in paese. Molti padri vivono al 41 bis, lontani dalle famiglie. E poi terminate le medie, chi vuole proseguire gli studi deve svegliarsi massimo alle 6 di mattina, correre a prendere l’unico autobus che porta ai comuni della costa. Lo stesso vale per chi vive a San Luca. Un viaggio che Miriam fa ogni giorno.

Roma è lontana

La grande rivoluzione a Cinque stelle a Ponte di Nona, estrema periferia di Roma, non è ancora arrivata. Solo Papa Francesco si è spinto fin qui, per visitare la parrocchia. Per l’occasione il parco che divide in due la strada è stato ripulito da erbacce alte quanto alberi. Ora è tornato al degrado di prima.
C’è una grande vasca che doveva raccogliere l’acqua piovana trasformata in discarica e un ponticello di legno con due pedane sfondate, dal quale i bambini rischiano di cadere se provano ad attraversarlo. Crescere a Ponte di Nona vuol dire fare i conti con l’indifferenza delle istituzioni. Anche in questo caso tolto il punto luce di Save the Children, gestito dall’associazione Santi Pietro e Paolo, e la scuola resta poco. Il centro è nel cuore della zona dello spaccio. A pochi metri da qui due anni fa c’è stata una sparatoria, due ragazzi sono morti. Erano del quartiere. I loro volti sono raffigurati su un murales. C’è, poi, una seconda area verde. Nell’aiuola che scorre in mezzo alla scalinata invece dei fiori c’è una distesa di sacchetti bianchi e azzurri della spazzatura. Il resto è abbandonato. «Chi vive qui non si sente di Roma», spiega Maria Rosaria Autiero, la preside dell’istituto comprensivo “Ponte di Nona-Lunghezza”, «per raggiungere il centro storico è un viaggio e anche nel lessico che utilizzano per indicare la città si percepisce questa distanza». Tanti ragazzi vivono con un solo genitore, molti padri sono in carcere. «È fondamentale lavorare con questi minori, perché vivono la situazione familiare con disagio, sono fragili e hanno una bassa autostima», racconta un’insegnate che da 20 anni lavora in questa scuola.

L’altro volto di Milano

Luca ha 13 anni e vive a Quarto Oggiaro, periferia milanese. Molti coetanei abbandonano la scuola, e molte famiglie non arrivano a fine mese. Vive in una piccola casa popolare, con le sorelle, la nonna e la mamma, che da sola si occupa di tutti, pur non avendo un lavoro fisso. Fa enormi sacrifici saltando da un piccolo lavoro saltuario a un altro per poter garantire ai suoi figli almeno i libri scolatici, cibo e vestiti. La sua più grande preoccupazione è poter dare un futuro ai propri ragazzi, lontano dalla strada. La vita di strada anche in questa periferia del Nord non è poi tanto differente dal resto d’Italia. Anche qui c’è una grande piazza di spaccio. Anche qui la criminalità cerca carne fresca da mandare al macello.
Luca fugge da tutto questo. Da un anno frequenta il Punto Luce di Save the Children, gestito dall’Acli di Milano. Qui è al sicuro, lo seguono nei compiti, viene sostenuto, e col tempo matematica, chimica e italiano, non sono più incubi ma materie da studiare per crescere. Il pomeriggio si dedica all’orto urbano che gli educatori hanno piantato nel suo quartiere. Ma la vera passione di Luca è la musica. Ha così iniziato un corso di pianoforte. Uno spartito lo salverà. Basta poco, in fondo.

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Aubervilliers, le startup delle banlieue

Uber, sviluppatori, scuole: il futuro che nasce nei ghetti.
Superate le vetrine di boutique cinesi sull’avenue Pékin, la fila si riconosce da lontano. Non è difficile orientarsi nel Fashion Center di Aubervilliers, periferia Nord di Parigi. “Tutti sanno dov’è Uber” ci avverte al telefono Badia Berrada. La giovane responsabile comunicazione del gigante americano apre le porte del centro dove si svolge un incessante pellegrinaggio. Ogni settimana 4500 giovani vengono a bussare per trovare un lavoro. La maggior parte si sposta di appena qualche chilometro, vive nelle banlieue-ghetto della regione come Yanis, 24 anni, che sogna di essere presto alla guida della sua berlina nera. “Ho tanti amici driver – spiega – voglio provare anche io”.

Nel Paese del colbertismo, delle 35 ore, delle barricate alzate l’anno scorso contro il Jobs Act del governo socialista, ci sono ragazzi pronti a lavorare fino a 60 ore a settimana senza un padrone, senza contributi e per un reddito medio non garantito di 1700 euro. Uber è diventato il più grande reclutatore della zona. Ogni quattro nuovi posti di lavoro in tutta l’Ile de France, la regione parigina, uno è creato nel settore delle auto con conducente. “Dieci anni fa i giovani delle banlieue bruciavano le automobili per protestare, oggi sono al volante, portano la cravatta e sono servizievoli con i clienti” sintetizza Berrada facendo riferimento agli scontri che avevano incendiato le periferie nel 2005. La responsabile comunicazione di Uber fornisce un profilo tipo dei 17mila driver: più della metà ha meno di 35 anni, per il 55% si tratta di un primo lavoro, un altro 40% era iscritto sulle liste di disoccupazione.

Con due milioni di clienti, la Francia è uno dei mercati europei più importanti per Uber. Ironia del destino, il fondatore Travis Kalanick ha avuto l’intuizione di creare la sua piattaforma proprio durante un soggiorno nella capitale francese, dopo aver cercato invano un taxi. Nonostante il successo, la relazione tra Francia e Uber è tutt’altro che serena. La Ville Lumière è stata teatro di scontri e violenze dei tassisti contro gli autisti del gruppo americano. Dal 2009 sono state votate tra le polemiche ben quattro riforme per mettere più paletti alla licenza Vtc (voiture de transport avec chauffeur), l’equivalente del Ncc, noleggio auto con conducente. Da qualche mese è in corso l’ennesimo tentativo di mediazione del governo, stavolta dopo la protesta dei driver contro il calo delle tariffe.
La Francia della new econony riserva molte sorprese. A Parigi c’è un record di nuove imprese nelle nuove tecnologie, sono state lanciate piattaforme di successo come Blablacar, Vente-Privée, il motore di ricerca Qwant. La capitale è uno dei principali mercati per AirBnb e tra qualche settimana aprirà nel tredicesimo arrondissement Station F, il più grande incubatore al mondo di start-up, nuovo progetto avveniristico di Xavier Niel. L’imprenditore delle telecomunicazioni, che sbarcherà presto in Italia, ci aspetta rilassato, jeans e barba lunga. L’appuntamento è Porte de Clichy, non lontano da Aubervilliers, per visitare l’École 42. L’istituto che forma sviluppatori informatici è aperto sette giorni su sette, giorno e notte. Accoglie ragazzi senza pretendere requisiti. “Chiediamo solo nome e cognome, data di nascita. Quasi metà dei nostri alunni non ha la maturità” racconta Niel, che tre anni e mezzo fa ha investito 30 milioni nel progetto, senza sovvenzioni dello Stato. Oltre la metà degli alunni viene dalle banlieue più povere. Un quarto ha precedenti penali. “Offriamo una seconda chance. La scuola si svolge come un enorme gioco, davvero accessibile a tutti”. È un modello alternativo all’Ena, la scuola dell’élite francese? “Siamo un’altra cosa, evitiamo paragoni” risponde Niel diplomaticamente. Ogni anno 70mila persone tentano di iscriversi con i test online. Meno di un terzo è poi selezionato nei locali della scuola con esame continuativo davanti al computer, oltre quindici ore al giorno per un mese di fila. Nei corridoi si vedono materassi, panni stesi, ci sono docce a disposizione.Il nome in codice di quella che assomiglia a una prova estrema di resistenza psico-fisica è “La Piscine”. Meno di mille candidati restano a galla, prescelti per frequentare gratuitamente “42”, il numero che secondo un libro culto di Douglas Adams è la soluzione a qualsiasi domanda esistenziale. Gli alunni non hanno lezioni né professori, costruiscono da soli il proprio percorso interagendo dentro al sistema informatico. Frequentano come e quanto vogliono, si danno i voti gli uni con gli altri, e alla fine del corso non ricevono neppure un attestato. Non ce n’è bisogno. “Trovano lavoro già prima di finire la scuola” racconta il patron di Free che rappresenta un’eccezione nell’élite francese: ha solo la maturità, si è fatto da solo, non viene da nessuna aristocrazia industriale. “Quel che proponiamo – aggiunge – è atipico ma funziona, corrisponde a ciò che chiedono le imprese”. Una succursale è stata appena aperta nella Silicon Valley. L’École 42 è stata visitata da François Hollande, l’ex ministro Emmanuel Macron è venuto più volte. Niel, tra gli editori del giornale Le Monde , fa attenzione a non sbilanciarsi sul leader di En Marche: “La politica non può tutto – sostiene – è giusto che, a un certo punto, la società civile prenda l’iniziativa per cambiare il Paese”.

Molti politici non sanno come approcciarsi alla rivoluzione della new economy. Solo Macron – che alcuni hanno paragonato a Uber in politica – propone di riconoscere uno statuto per i lavoratori indipendenti e non inquadrati come driver, fattorini. “Sono proposte modeste, purtroppo Macron è molto più timido da candidato che da ministro” commenta Denis Jacquet, promotore insieme ad altri imprenditori del movimento dei Pigeons per far togliere al governo l’imposta sulla plusvalenza della vendita delle start-up. “C’è uno straordinario sfasamento tra una parte del Paese reale e la politica” commenta Jacquet nel suo ufficio, un gigantesco loft boulevard Haussmann da cui si vede tutta Parigi. “La Francia ha ancora un ottimo sistema di educazione, buone infrastrutture. È un Paese che crea talenti, ma molte energie restano bloccate”. La parola “digitale”, osserva, è assente da quasi tutti i programmi. “Nessuno cerca di fare chiarezza su dove ci sta portando la new economy: né sugli aspetti più inquietanti, proponendo soluzioni, né su quelli più positivi che possono portare benefici alla società. È disperante”.

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Green economy per la città futura

green-economy-150x150Presentato il Manifesto in 7 tappe.
Organizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile in preparazione degli Stati Generali della Green Economy 2017.
Un percorso programmatico in 7 punti per disegnare la città del futuro, integrando qualità ecologica, sociale ed economica, attraverso l’interlocuzione della green economy con l’architettura e con l’urbanistica, intese come chiave per il rilancio del protagonismo delle città italiane. Il Manifesto della green economy per la città futura, presentato in occasione del Meeting di Primavera, organizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, e in preparazione degli Stati Generali della Green Economy 2017, vede questa interlocuzione da una parte come un arricchimento della cultura, della vision, delle scelte e dell’’impostazione della progettazione architettonica e della pianificazione urbanistica e, dall’altra come una leva formidabile per lo sviluppo di una green economy nelle città. Proprio nelle città vive, infatti, oltre il 50% della popolazione mondiale, si produce l’80% del PIL e il 70% delle emissioni di gas serra e sono anche i luoghi dove si concentrano investimenti – che le Nazioni Unite stimano in 1,3 trilioni di dollari al 2019 – e si creano opportunità di nuova occupazione attraverso politiche di green economy.

A livello europeo e internazionale sono già molte le città che hanno avviato programmi e iniziative in direzione green. Ecco alcuni esempi: Copenhagen, nel 2009, ha fissato l’obiettivo di diventare carbon neutral entro il 2025; Amburgo ha pianificato una rete ciclo-pedonale alla quale sarà riservata la circolazione nel 40% della città entro il 2035; negli Stati Uniti, nell’era Trump, 25 città riunite nel Sierra Club hanno adottato un programma per arrivare a consumare solo energia rinnovabile, puntando a raggiungere l’adesione complessiva di 100 città; il “Programme National de Rénovation Urbaine” della Francia che ha attivato la rigenerazione di 530 quartieri in tutta la Francia, con circa 4 milioni di abitanti, con un fondo economico, in partnership pubblica e privata, di oltre 40 miliardi.

In Italia invece, dopo una certa vivacità con il movimento delle Agende 21 locali nato con la Conferenza ONU del 1992, dopo il Protocollo di Kyoto del 1997 e con l’adesione al movimento del Covenant of Mayors, lanciato dalla Commissione Europea nel 2008, abbiamo avuto un periodo di stallo e di scarsa iniziativa delle città italiane che, a parte rarissime eccezioni, sembrano poco coinvolte nel fervore green che invece caratterizza molte città a livello europeo e internazionale.

Per contribuire a rilanciare il dibattito su un futuro sostenibile per le città, nel 2016, la V edizione degli Stati generali della green economy ha dedicato un gruppo di lavoro – composto da oltre 60 esperti, tra cui docenti di oltre 20 Università italiane, imprese del settore edile, enti di ricerca, associazioni di imprese, associazioni ambientaliste – alla elaborazione di un manifesto della green economy per l’architettura e l’urbanistica: “La Città Futura”.

Il Manifesto – ha dichiarato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile – vuole aprire un’interlocuzione con l’architettura e con l’urbanistica, come chiave per il rilancio del protagonismo delle città italiane. Tale interlocuzione, infatti, non solo arricchisce la cultura, la vision, le scelte e l’impostazione della progettazione architettonica e della pianificazione urbanistica, ma può diventare anche un traino formidabile per lo sviluppo di una green economy nelle città.

Al Manifesto della green economy per la città futura hanno già aderito architetti di fama internazionale dai 5 continenti con le rispettive organizzazioni tra cui Richard Meier, Richard Rogers, Thomas Herzog, Ken Yeang, Albert Dubler in qualità di Presidente dell’International Union of Architects, Georgi Stoilov in qualità di Presidente dell’International Academy of Architecture, l’intera Fondazione di Architettura Australiana), autorevoli architetti italiani tra cui Paolo Desideri, Luca Zevi, Francesca Sartogo, due dei principali sindacati Italiani con l’adesione di Susanna Camusso per la CGIL e Annamaria Furlan per la CISL, associazioni nazionali del settore quali l’ANCE, Federcasa e ANIEM, le principali organizzazioni di imprese della green economy italiana componenti del Consiglio Nazionale della green economy, Enti e Istituti di ricerca e di urbanistica e architettura tra cui la Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Silvia Viviani e il Presidente dell’ENEA Federico Testa e, nel corso della presentazione è arrivata anche l’ adesione di Enzo Bianco, sindaco di Catania che ha anche annunciato anche che si farà promotore in Anci perché tutti i sindaci delle città italiane lo sottoscrivano.

Il Manifesto è stato aperto alle adesioni proprio in occasione del Meeting di Primavera cui hanno partecipato il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti , il Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile Edo Ronchi, Thomas Herzog uno dei principali architetti bioclimatici a livello internazionale, il Presidente del Consiglio Nazionale dell’ANCI Enzo Bianco, il Prof. Fabrizio Tucci della Sapienza Università di Roma, la Presidente nazionale di Legambiente Rossella Muroni, il Direttore del CRESME Lorenzo Bellicini, il Vice Presidente di ANCE Filippo Delle Piane, il Vice Presidente di ANIEM Marco Razzetti, la Presidente di Politecnica e membro della Direzione nazionale di Legacoop Produzione&Servizi Francesca Federzoni e la Presidente del Dipartimento Progetto sostenibile ed efficienza energetica dell’Ordine degli Architetti di Roma e provincia Patrizia Colletta. Il Meeting è stato realizzato in collaborazione con il DiPSE (Dipartimento Progetto Sostenibile ed Efficienza Energetica) dell’ordine degli architetti di Roma e provincia. Questa la road map contenuta nel Manifesto.

Il Manifesto della green economy per la città futura è aperto all’adesione di tutti coloro che vogliano sostenere il movimento delle città italiane verso uno sviluppo sostenibile, a partire dal 5 aprile, è possibile sottoscriverlo accedendo al sito web: www.statigenerali.org/manifesto

Manifesto-Citt-Futura-IT

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Smart city: uno strumento per le Comunità Intelligenti

Lo strumento chiave per avvicinarsi a politiche e progetti che possano davvero sviluppare una smart city è quello di seguire un processo di Pianificazione Strategica.
La presentazione della pubblicazione OICE “Smart City: uno strumento per le Comunità Intelligenti”, risultato dell’attività di più un anno del gruppo di lavoro dell’Associazione avviato dall’ex consigliere OICE Giorgio Galli e poi coordinato dal consigliere OICE con delega per l’ambiente Francesco Ventura.

In apertura dei lavori – coordinati da Francesco Ventura – dopo i saluti introduttivi del Presidente Gabriele Scicolone, è intervenuta l’Assessora “Roma Semplice” del Comune di Roma, Flavia Marzano che ha illustrato l’impegno del Comune negli interventi finalizzati a semplificare le attività dei cittadini attraverso la creazione della “casa digitale del cittadino”. Quattro le linee di azione dell’Assessorato: open government, competenze digitali, servizi digitali e connettività; l’Assessorato sta anche rispondendo a un bando europeo sulla mobilità, sulla base di indicazioni giunte on line da tutti i cittadini ribadendo come partecipazione e trasparenza siano alla base di queste iniziative. L’Assessora ha anche posto in evidenza che nei giorni scorsi è stato approvato, con delibera di Giunta, il Forum Innovazione di Roma Capitale che riguarderà anche le smart city.

PIANIFICAZIONE STRATEGICA. E’ stato Riccardo Di Prete (VDP) a illustrare nel dettaglio i contenuti della pubblicazione OICE. OICE ritiene che lo strumento chiave per “avvicinarsi” a politiche e progetti che possano davvero sviluppare una smart city sia quello di seguire un processo di Pianificazione Strategica, che vede ed interpreta la città secondo una prospettiva sistemica ed integrata, con una visione “olistica” del processo di pianificazione che consente di evitare, o quantomeno minimizzare, le forti inefficienze che vengono generate da analisi disaggregate dei vari settori.

Il processo di Pianificazione strategica proposta si basa su un percorso ciclico articolato in 6 fasi, sul modello PDCA – Plan–Do–Check–Act (pianificare, attuare, verificare, agire), dove l’obiettivo è quello di prevedere, programmare e intraprendere azioni volte a migliorare in continuo il livello smartness della città.

Mario Nobile, Direttore Generale per i sistemi informativi e statistici del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, ha annunciato che è ormai in fase di definizione finale il decreto ministeriale che definirà gli standard per le smart roads di interesse nazionale e ha sottolineato come il costo degli investimenti in tecnologie legate alle infrastrutture è comunque ancora molto basso. Per Nobile: “È la mancanza di standards a rendere difficile il decollo delle smart city e in prospettiva occorrerà porre molta attenzione all’integrazione delle infrastrutture naizonali con quelle delle città”.

Andrea Gumina, Expert on Innovation, G7 Sherpa Unit, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha illustrato le linee di azione sulle smart city che si stanno portando avanti nell’ambito del G7 evidenziando l’impatto che le tecnologie possono avere sui profili sociali e sulla pianificazione delle città che, in questo ambito, sono veri e propri laboratori in cui si misurerà l’evoluzione degli stili di vita futuri. “Occorre però – ha detto Gumina – visione, strategia e, poi, scelte politiche che abbiano un orizzonte temporale non a 5, ma a 30 anni per evitare strappi in una società non ancora matura e questo necessita un’accorta Cabina di regia che coordini tutti gli interventi”.

Luigi Carrarini, Responsabile Infrastrutturazione Tecnologica ed Impianti ANAS, ha illustrato i dettagli del programma smart roads di ANAS che fino al 2020 investirà 160 milioni su 3000 km di rete (circa 1/10 del totale).

Alessandra Porro, collaboratrice di Valentino Sevino, Direttore dell’Agenzia Mobilità pianificazione Ambientale AMAT di Milano, che ha contribuito con Filippo Salucci alla stesura di un capitolo del libro, ha invece illustrato quanto fatto dall’Agenzia per la mobilità del Comune di Milano nel settore della mobilità e dei trasporti.

Andrea Pasotto, collaboratore del Prof. Carlo Maria Medaglia di Roma Servizi per la mobilità, ha presentato la Centrale della Mobilità dell’Azienda capitolina come “il cuore di un sistema integrato, avente le principali funzioni di monitoraggio, gestione e controllo del traffico urbano, gestione dei processi sanzionatori e infomobilità”; ha poi descritto i principali progetti di Roma Servizi per la mobilità: dal car sharing al servizio Chiamataxi, dalla mobilità elettrica ai servizi di mobility management, mirati ad offrire soluzioni e strumenti di mobilità sostenibile e alternativi all’auto privata.

Giorgio Martini, Autorità di Gestione del PON METRO – Agenzia Coesione Territoriale, ha esposto i contenuti del programma PON metro che destina 900 milioni per interventi dei comuni sui temi dell’agenda digitale e delle smart city con una particolare attenzione al tema della mobilità.

I lavori sono stati conclusi dall’intervento di Anna Donati, Coordinatrice Gruppo mobilità, Kyoto Club, che ha raccontato alcune interessanti esperienze vissute come assessore alla mobilità per indicare quanto sia importante l’integrazione e il coordinamento dei piani nel complesso cammino verso la smartness nelle nostre città.

Il volume è on line al link http://www.oice.it/adon.pl?act=doc&doc=516146

Smart-city-PRESENTAZIONE_per_OICE

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