1

Bologna: benvenuti in via Fondazza, la prima social street italiana. Scopri cos’è

solidarietaUn’idea tanto banale quanto geniale: perché non trasformare le amicizie su Facebook in amicizie vere? E perché non aiutarsi come si faceva un tempo? Ecco le risposte. Che diventano anche una soluzione anti crisi
Via Fondazza, a Bologna, è la prima social street italiana. Non ne hai mai sentito parlare? Ecco che cos’è e come funziona: ce lo spiega chi ci vive.
A COSTO ZERO – Dall’estraneità alla condivisione. Dal senso di solitudine al «buongiorno vicino» indirizzato al dirimpettaio. Dall’isolamento, alla consapevolezza di far parte di un gruppo che ha energia e potenzialità contagiose. Le finestre aperte di via Fondazza, la strada bolognese che è diventata la prima social street italiana, non si richiuderanno tanto facilmente. Grazie ad un’intuizione a costo zero, un gruppo su Facebook, Federico Bastiani ha trasformato la sua via, una strada della vecchia Bologna, in una palestra di buone pratiche, una community di buon vicinato, dal successo contagioso.
TUTTO NASCE DA FACEBOOK – «Mi ero accorto che, dopo tre anni, eccetto qualche negoziante, non conoscevo nessuno dei vicini», racconta Federico, 36 anni. «Ai primi di settembre, ho creato un gruppo su Facebook e ho affisso sotto i portici volantini con l’invito ad aderire. La risposta mi ha sorpreso: una valanga. Aspettavo venti adesioni, in tre settimane eravamo cento; adesso siamo 500. Volevo soprattutto trovare coetanei di mio figlio Matteo, 2 anni e mezzo. Ma i fondazziani mi hanno travolto».
IL PORTICO – Via Fondazza, una strada nel centro storico di Bologna, con l’immancabile portico, conta novantuno numeri civici: palazzi affiancati a case più semplici, molte botteghe di alimentari kebab e verdure, gestite da immigrati, che si intrecciano a qualche artigiano, il calzolaio Antonio, il tappezziere, i falegnami, una legatoria. In un ex convento ristrutturato, aule della facoltà di Scienze Politiche. Residenti di lungo corso, novantenni nati nella stessa casa nella quale vivono tuttora, come fece per tutta la vita, al 36, Giorgio Morandi, il pittore delle bottiglie e degli scorci dei giardini, studenti fuorisede o da Erasmus, giovani coppie.
IL BENVENUTO AI NUOVI ARRIVATI – In pochi giorni la bacheca del gruppo Residenti in via Fondazza è diventata un tripadvisor a km zero, una lavagna di benvenuto per i nuovi arrivati, con uno scambio vivacissimo di informazioni, richieste, suggerimenti. A 360 gradi. «Dalle domande sulla focacceria migliore, alla ricerca del veterinario che venisse a domicilio nel week end. Il passaggio dalle informazioni allo scambio di servizi è venuto da sé. Due studenti cercavano una lavanderia a gettone e Sabrina li ha invitati a usare la sua lavatrice in cantina. Laurell cercava una baby sitter e Veru ha proposto di assumerne una sola per tutti i bambini di età simile della strada. I negozianti hanno offerto prezzi scontati, il cinema ha invitato tutti i residenti a un’anteprima, il bistrot francese ha preparato un menù riservato ai residenti».
AMICIZIA REALE, NON VIRTUALE – Presto hanno deciso di conoscerci di persona, racconta ancora Bastiani: «L’idea di trasferire l’amicizia virtuale nella vita reale si è fatta largo rapidamente. Ci siamo dati appuntamento di domenica mattina, nella piazza più vicina, per guardarci in faccia». La scintilla era scattata. Dagli incontri in piazza sono nate belle abitudini, il caffè assieme la mattina, le feste di compleanno nel bar sotto casa, i tanti progetti per il futuro.
ANTISPRECO, ANTICRISI – La community dei fondazziani ha dimostrato subito una spiccata vocazione antispreco e anticrisi. «Le possibilità sono infinite», dice Bastiani. «Da una sorta di banca del tempo dove ci si scambiano le competenze, al gruppo di acquisto solidale, il gas della strada, facile da gestire. Oppure lezioni di pianoforte in cambio di un’ora di inglese, il materasso che dalla cantina di Michele si è spostato a casa di Paolo, l’ SoS per il computer infettato da un virus, e dopo 5 minuti trovi davanti alla porta, in ciabatte, il vicino di casa informatico smanettone. Federica doveva fare traslocare da sola, e ha trovato tre amici mai visti prima che l’hanno aiutata a spostare tutti gli scatoloni. A me serviva il seggiolino da auto per Mattia? Ho messo un annuncio e Saverio me l’ha prestato». Oppure per evitare sprechi alimentari: «Parto, e ho il frigorifero pieno di cibi che non posso congelare? Metto un post e invito i vicini a venire a prenderseli», spiega Laurell, moglie di Federico.
SOLUZIONE AI BISOGNI – La social street è nata così, per condividere bisogni e offrire soluzioni. «Abbiamo capito che siamo una forza. Un gruppo di persone come noi può fare un sacco di cose», dice Luigi Nardacchione, manager neopensionato, uno dei più attivi del gruppo, nominato sul campo, “vice” di Bastiani. «Risolvere problemi quotidiani di tutti, ma anche migliorare la qualità e la vivibilità della strada, tenerla pulita, aiutare le persone in difficoltà, come gli anziani che vivono soli, candidarsi per far visitare al pubblico la casa museo del pittore Morandi, che in questa via visse e lavorò, dotarsi della banda larga e metterla a disposizione di tutti. E organizzare momenti ludici, cene, una festa della strada».
UN NUOVO CLIMA – Tra le priorità della social street, la più pressante è trovare i modi per coinvolgere tutti quelli che non usano Facebook. Al primo incontro pubblico, organizzato per farsi conoscere e per presentare il sito, ha partecipato quasi un centinaio di persone. Molti venuti da altri quartieri a osservare quest’oggetto misterioso dalla identità incerta. Il sito, creato per rispondere alle decine di richieste che arrivano da tutta Italia, spiega la filosofia dell’iniziativa e contiene le indicazioni per creare altre social street. «Anche il sito è rigorosamente made in Fondazza, a costo zero, grazie a Filippo, che di mestiere progetta siti, e a Laura, la grafica che ha disegnato il logo, scelto, ovviamente, on line. «La cosa più importante, però, non è l’interesse suscitato, ma è il nuovo clima che abbiamo creato», dice Nardaccchione. «Dal virtuale siamo passati presto alla vita reale perché abbiamo avuto il desiderio genuino di conoscerci. Grazie alla spontaneità si è creato tra noi un senso immediato di fiducia reciproca».
COME UN PICCOLO PAESE – Nel successo della social street c’è qualcosa di molto legato al momento che viviamo, ragiona Federico. «In tanti mi hanno raccontato che in via Fondazza si è sempre vissuto così, come in un piccolo paese. Un posto dove tutti si conoscevano, si salutavano, collaboravano. Però quell’abitudine è andata sparendo, ed è scomparsa, da almeno venti anni. Se oggi la vecchia Fondazza rinasce come social street vuol dire che il bisogno di socializzare, compartecipare e condividere è ancora fortissimo, inalterato, anche ai tempi di Facebook». E su Facebook qualcuno gli fa eco: «Fino a poco tempo fa non amavo molto questa strada, anzi, la trovavo brutta. Ora la guardo con occhi nuovi. Comincia a piacermi».
Rita Cenni
link all’articolo




Graffiti in stile antica Roma sulle rive del Tevere: il progetto artistico divide la città

graffitoPotrebbe cambiare l’aspetto del Tevere e del centro storico. Ma potrebbe anche dividere i romani e far saltare sulla sedia i più legati alle tradizioni capitoline e all’immagine della città eterna. Lui è l’artista sudafricano William Kentridge, che vanta una fama internazionale e ha scelto la Capitale per la sua più grande opera d’arte urbana mai realizzata finora. Il progetto di street-art prenderà forma alla fine della prossima estate, voluto dall’associazione onlus Tevereterno per riqualificare le sponde del biondo fiume, anche se inevitabilmente si accenderà il dibattito sulla necessità prioritaria di bonificare prima il fiume, le sue banchine e le sue piste ciclabili, rendendo vivibile la zona tutto l’anno, per poi occuparsi dell’aspetto estetico.
MEZZO CHILOMETRO Eppure, nonostante le ormai note difficoltà di creare proprio a Roma un’osmosi di successo tra arte contemporanea e urbanità, è possibile che alla fine prevalgano comunque gli apprezzamenti. All’artista sudafricano – cooptano dopo anni di lungo corteggiamento dall’associazione onlus Teverterno – è stato dunque assegnato il compito di impreziosire, con i suoi disegni, i muraglioni del Tevere per 550 metri, da ponte Sisto fino a ponte Mazzini. Kentridge creerà, nell’opera intitolata “Triumphs and laments” – trionfi e lamenti, più di novanta grandi figure, alte fino a nove metri, che rappresenteranno il procedere dei trionfi e delle sconfitte dell’età dei miti. Volti d’imperatori, schiavi e gladiatori sembreranno camminare controcorrente e racconteranno la storia della città, formando quasi una processione visibile al pubblico dalle banchine lungo il fiume così come dal livello del Lungotevere. La tecnica usata – ideata e testata già nel 2005 dall’artista statunitense Kristin Jones nello stesso luogo – sarà quella della pulitura selettiva della patina di smog e pellicola biologica che si è accumulata sui muraglioni. Getti d’acqua e vapore, dunque, nessuna vernice e nessun colorante, mostreranno le immagini di Kentridge senza arrecare danno alla tutela dei monumenti storici. L’opera, pertanto, sarà destinata lentamente a scomparire, quando lo smog tornerà a impossessarsi dei muraglioni.

GLI IDEATORI Il costo complessivo dell’operazione è di 350mila euro, completamente finanziati dall’associazione Onlus Tevereterno e da una serie di gallerie d’arte contemporanee che da anni lavorano con l’artista sudafricano. «L’obiettivo è semplice: impreziosire quella parte della città che nell’immaginario collettivo altro non è se non un luogo sporco e pericoloso», afferma Thomas Greene Rankin, a capo dell’associazione Tevereterno. «Parlare delle sponde del biondo – prosegue Rankin – per molti significa solo parlare di Estate romana, di banchetti e ristoranti che fioriscono da giugno a settembre, mentre per il resto dell’anno quell’area va bene solo per portare a spasso i cani, fare jogging o trovarci qualche morto ammazzato».

Eppure c’è anche chi crede, invece, che quello spazio potrebbe trasformarsi in una valida officina di diffusione culturale, consacrando, a Roma, l’arte contemporanea anche al di fuori di un museo. Tentare di creare questa connessione senza provocare cortocircuiti non è affatto semplice, ma il progetto è pronto e Kentridge sta già lavorando ai bozzetti. Resta ancora da capire se la Sovrintendenza capitolina riuscirà, per tempo, a licenziare l’autorizzazione, al momento in stand-by più per la mancanza di un sovrintendente capace di licenziare il progetto e assumersi eventuali oneri e onori, che per reali perplessità legate all’opera. Il progetto gode, invece, sia del benestare del Mibac che di quello della regione Lazio, oltre che del favore «incondizionato» dell’assessore capitolino alla Cultura, Flavia Barca.
di Camilla Mozzetti
link all’articolo




EUROPA CREATIVA (2014-2020)

ueeuropa creativa 2014-2020




Jobs act avanti tutta: c’è tanto da rottamare

cupolaSe anche il miglior sindaco, assessore, presidente, minisindaco non risponde, non riceve, dà appuntamenti offensivi ai suoi elettori, a quelli che sa che l’hanno eletto, alle forze più rappresentative di un territorio, allora c’è qualcosa che non va nella nostra macchina.
Perché questo è solo la metafora di come anche il miglior amministratore non ha il tempo, l’energia, la volontà di ascoltare la voce viva della società.
Il nostro povero amministratore è infatti vittima del vero nemico del paese: la cupola amministrativa burocratica che si è impossessata della macchina.
Leggetevi la legge di stabilità se ne siete capaci, ammirate le giravolte sulla tassazione della casa o l’ultima chicca sui 150 euro agli insegnanti o ricordatevi dell’incredibile storia degli esodati.
Chi ha elaborato questi capolavori legislativi, amministrativi, burocratici? Chi ha creato questi inferni in terra in cui dovranno sopravvivere poveri amministratori e poverissimi amministrati?
C’è qualche segnale di speranza nelle prime bozze del jobs act in cui si lede per la prima volta il pizzo sulle imprese delle Camere di Commercio e soprattutto si abolisce la sospensiva nei procedimenti amministrativi.
Sospensiva: che brutta parola per il nobile principio di evitare un danno.
Ma perché se ammazzo qualcuno e vado perciò in galera io non ho un danno? Perché non posso chiedere la sospensiva per evitarmi questo danno evidente? Perché allora il paese deve essere bloccato da decenni dalle sospensive di privati che per non ricevere un danno bloccano per tempi immemorabili opere, appalti, lavori che significano scuole, strade, asili, ospedali?
Forza col jobs act che c’è tanto da rottamare.
Ma soprattutto non lo si faccia scrivere alla cupola che finora ha reso le nostre leggi, circolari, sentenze un guazzabuglio infernale in cui sono morte ogni certezza del diritto e ogni vivibilità civile.
T.C.
Ecco il Jobs Act di cui in molti in queste ore stanno parlando




Fondi europei

soldiNicola Zingaretti: “Missione compiuta! Abbiamo speso tutti i fondi europei che erano stati assegnati al Lazio per il 2013”ue




LA RIVOLUZIONE DEL DIGITAL MANUFACTURING

digitalIntervista a Stefano Micelli, nuovo direttore della Fondazione Nordest. «Basta deprimersi, la manifattura può ancora fare la differenza»
«Il Nord Est non esiste più». Quando Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia, mette in fila queste sei fatidiche parole, chi scrive ha un sobbalzo. Detta così, asciutta, dal neo direttore scientifico di una Fondazione che ha nel «Nord Est», la sua ragione sociale, la sentenza ha l’effetto di una secchiata gelida. Lui coglie lo smarrimento all’altro capo della cornetta e subito postilla: «Beninteso, il Nord Est continua a vivere come comunità, come modello sociale ed economico, come storia imprenditoriale, ma non esiste più come realtà che “è” solo in quanto relativa ad un “altrove”, Roma per lo più ma anche Milano. Il nostro orizzonte non può finire lì. Non siamo più il “Nord Est d’Italia”, siamo “parte del mondo” e la scacchiera globale è il luogo in cui siamo chiamati a giocare la sfida più grande di questo 2014. Solo così ci salveremo».
Professore, che Veneto ci siamo lasciati alle spalle nel 2013? «Un Veneto duramente azzoppato dalla crisi, che ha perso il 10% del suo Pil, il 25% della sua produzione industriale, di cui un 10% circa del tutto irrecuperabile perché riferito ad imprese irrimediabilmente chiuse, decine di migliaia di posti di lavoro. Ma non dobbiamo deprimerci oltre il necessario e più che all’Italia, che pure tra mille difficoltà quest’anno segnerà un record assoluto nell’export, dobbiamo guardare alla realtà internazionale che offre spunti assai più interessanti. Nei Paesi emergenti si cresce a tassi altissimi e per la prima volta la bilancia commerciale con i Paesi economicamente avanzati e tornata in positivo, si pensi alla Cina che “compra” sempre più italiano. Da lì si deve ripartire».

Come? La suggestione del «Terzo Veneto» fondato sul terziario è ancora realistica? «Qualità, valore aggiunto, sostenibilità sono già entrati nel nostro orizzonte culturale quotidiano ma va sciolto l’equivoco su cui si è sempre fondata l’idea del “Terzo Veneto”, quello per cui l’investimento sui servizi deve comportare necessariamente l’abbandono della manifattura. Non è così. C’è chi parla di una terza rivoluzione industriale, quella del digital manufacturing, che impone il superamento di alcuni steccati a cominciare da quello tra industria e servizi. A Venezia c’è un’azienda di stampanti 3D che è in grado di produrre nell’arco di una giornata gioielli su misura, a piacimento del cliente. Al mattino li disegnano, al pomeriggio producono gli stampi in plastica, a sera realizzano il pezzo nel distretto orafo di Vicenza. È manifattura questa? O è servizio? Le specializzazioni che hanno reso grande il Veneto, la sartorialità, il su misura, le serie limitate, il design di qualità, non vanno abbandonate ma innovate».

L’economia del fare si deve «saldare» a quella digitale? «Sì. Solo così riusciremo a coinvolgere i giovani e a creare posti di lavoro veri, reali, unendo l’occupazione alla ripresa».

Gli incubatori, pubblici e privati, non dovrebbero servire esattamente a questo? «Molti incubatori scontano il fatto di aver investito su start-up di derivazione accademico-scientifica che poco hanno a che fare con il “saper fare”, tentando di replicare qui esperienze che magari hanno funzionato altrove, ma con ben altri budget e masse critiche. E questo anche a causa delle difficoltà di alcuni ambienti della ricerca nel riconoscere il valore dell’artigianato. Un caso positivo è quello di H-Farm, che ha ritarato i suoi obiettivi e modernizzato i suoi investimenti con risultati positivi ad esempio nelle collaborazioni con Came o Bottega Veneta. Non aver creato prima questi ponti ci è costato carissimo».

In tal senso il celebre Politecnico veneto, da più parti invocato, potrebbe aiutare? «È il progetto più importante su cui investire per creare un capitale umano all’altezza delle sfide che ci attendono. Beninteso: il politecnico non sarebbe in antitesi rispetto all’attuale offerta formativa ma a completamento di quest’ultima e gli atenei veneti farebbero bene a prendere sul serio la svolta imposta da Confindustria, che su questo argomento, dopo che per anni ci si è concentrati su Fisco, infrastrutture e burocrazia, ha davvero cambiato passo con l’ultima presidenza».

Che rapporti vanno instaurati con gli investitori stranieri? «Il Veneto è già un’eccellenza internazionale e l’interesse di Louis Vuitton per le nostre imprese ne è un esempio. I capitali stranieri sono un’opportunità straordinaria per crescere sui mercati e internazionalizzare; ma non dobbiamo diventare terra di conquista. Non possiamo ridurci a fare i terzisti del lusso».

E i mercati stranieri come si conquistano dalla provincia vicentina o trevigiana? «Con una nuova narrazione. I nostri prodotti vanno raccontati a cinesi, indiani, africani ricreando quelle suggestioni che fecero la nostra fortuna con americani e tedeschi, anche grazie al cinema. L’agroalimentare, la moda, il design sono un’idea, prima che un prodotto, e i consumatori, soprattutto i più giovani, devono esserne coinvolti e travolti, non più attraverso il grande schermo ma attraverso la Rete. Pensiamo solo alle fashion blogger o all’uso di Instagram nel campo della moda…».

La politica che ruolo gioca in questa partita? «Siamo abituati ad una politica che per lo più redistribuisce la ricchezza, in base alle priorità concertate con le forze sociali. Un ruolo che nello scenario globale ha perso gran parte del suo significato, pensiamo solo alla web tax e alle difficoltà nel trattenere qui parte dei proventi realizzati dalle multinazionali del digitale. La politica deve dare una spinta propulsiva e promozionale al territorio, ma l’impresa farebbe bene a smetterla di guardare ad essa per concentrarsi maggiormente piuttosto su ciò che può far da sé, con movimenti trasversali ai partiti. Il progetto “Innovarea” di Alberto Baban o il sostegno finanziario pensato da Renzo Rosso per la sua filiera vanno esattamente in questa direzione. Il rinascimento manifatturiero non lo fa la politica».

E alla «sua» Fondazione Nord Est che ruolo riserva? «Vuole essere protagonista di questa nuova sfida. Dopo esserci dati da fare in questi anni per accreditare il modello Nord Est agli occhi dell’Italia, non possiamo più limitarci a fotografare e monitorare l’esistente. Dobbiamo elaborare proposte ed essere in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi».

Marco Bonet
link all’articolo




Il lago del Parco delle Energie

a
b
c
d




Manifestazione per il Parco delle Energie

3
2
1




Progettiamo insieme la nuova piazza

manifesto 13 gennaio




Le Corbusier – Unité d’Habitation de Marseille

la costruzione

la costruzione


insieme

insieme


vista

vista


esterno

esterno


ingresso
corridoio

corridoio


facciata

facciata


tetto

tetto


link alla pagina