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Sabato al via AltaRoma Gattinoni nel cantiere della Nuvola

nuvolaDomenica le modelle tra le travi di Fuksas: “Vietati i tacchi alti”
Se l’auspicio è un futuro più roseo per l’haute couture capitolina, erede delle grandi maison anni Cinquanta amate anche dalle dive di Hollywood, la sfilata di Gattinoni ne sarà l’interprete. Location per gli abiti creati da Guillermo Mariotto: la Nuvola di Fuksas. O meglio, i cantieri del nuovo centro Congressi di Eur spa, progettato dagli architetti Doriana e Massimiliano Fuksas. Un’opera in via di realizzazione che dovrebbe catapultare Roma nel business del turismo d’affari, e che da tempo la città aspetta insieme a tante altre opere “infinite”.
La novità più rilevante per la kermesse AltaRoma che accorcia i tempi per via della crisi — passando da cinque a tre giorni — è questa. Per il resto, alcune conferme di “big”, sfilate di giovani stilisti delle scuole, tanti eventi collaterali, qualche defezione come quella di Tony Ward e una new entry: Raffaella Frasca.

Venerdì pre opening con “Room service” al Grand Hotel Flora dove alcuni artigiani della moda, gioiellieri compresi, proporranno le loro creazioni. E sabato si entrerà nel vivo. Come tradizione detta, ad aprire la manifestazione sarà Sarli couture al Complesso del Santo Spirito in Sassia, a due passi dal Vaticano. Sotto i riflettori, le geometrie pulite, cifra della maison fondata da Fausto Sarli, che ora Alberto Terranova reinterpreta con meno rigidità grazie alla leggerezza dei tessuti. Nel tardo pomeriggio, dopo la performance di Arthur Arbesser, ecco i preziosissimi tailleur e gli abiti da sera “targati” Raffaella Curiel. Per poi passare in serata ai capi firmati da Jamal Taslaq. L’appuntamento sulla “Nuvola” è per mezzogiorno in viale Asia dove, fanno sapere dalla Gattinoni: sfileranno abiti tra sogno e realtà. «Per le signore — recita l’invito — si consigliano scarpe “flat”. Insomma, meglio abbandonare il tacco 12 onde evitare ruzzoloni in cantiere.

Domenica sarà anche il giorno degli abiti di Nino Lettieri, Renato Balestra, Gianni Molaro e Mirelle Dagher che proporranno la collezione primavera estate nelle sale del Santo Spirito, complesso monumentale che in questa ennesima edizione firmata da Silvia Venturini Fendi, resta il quartier
generale dell’haute couture romana. Esce invece dal suo atelier di piazza Mignanelli Giada Curti, che presenterà le creazioni, sempre domenica alle 20,30, al residence di Ripetta. Ultimo giorno. In passerella le modelle di Greta Boldini e Sabrina Persichino. Il the end è affidato a Raffaella Frasca. Esordiente in AltaRoma, un atelier aperto solo un anno fa e capi già prenotati dalle ricche signore russe e da quelle della sempre più alta borghesia brasiliana
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In 30 mila a Berlino manifestano contro allevamenti intensivi, OGM e agricoltura industriale: c’era anche Carlin Petrini

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Da Potsdamer Platz fino alla Cancelleria una lunga fila di manifestanti, circa 30 mila, ha chiesto al governo tedesco che l’agricoltura torni a essere più naturale tenendo fuori i prodotti industriali proprio mentre si tiene la Fiera agricola Grüne Woche. Per l’Italia c’era Carlo Petrini il fondatore di SlowFood
In 30 mila a Berlino hanno manifestato oggi contro gli allevamenti intensivi, gli OGM e l’agricoltura industriale chiedendo al governo tedesco un maggiore impegno per avere cibo e prodotti agricoli sani. La manifestazione è stata organizzata come risposta alla Internationale Grüne Woche Berlin 2014, la Settimana Verde internazionale, ovvero la Fiera dedicata all’agricoltura più importante a livello mondiale e che si chiude il prossimo 26 gennaio. Ha partecipato alla manifestazione anche Carlo Petrini che al termine del corteo ha preso la parola sul palco dicendo:

Il nostro messaggio oggi è chiaro: se l’Europa perde i piccoli agricoltori e le sue famiglie di agricoltori perde la sua storia, la sua cultura e la sua identità e nulla esisterà più.
Alla manifestazione vi hanno preso parte assieme alle associazioni ambientaliste anche gli agricoltori che hanno portato 70 trattori spiegando che sono i primi a essere stanti dell’agrobusiness. Tra le richieste anche l’accordo di libero scambio tra UE e USA conosciuto anche comeTTIP ovvero Transatlantic Trade and Investment Partnership. Praticamente gli Usa piuttosto che combattere le esportazioni provenienti dall’Europa hanno pensato di inglobarle rendendo più conveniente delocalizzare le produzioni negli Stati Uniti. La porta del libero accesso porterebbe dai noi anche una serie di prodotti fino a oggi rimasti fuori come il pollo al cloro o gli OGM.

Ovviamente anche l’Italia è molto coinvolta in questa trattativache però si sta svolgendo sotto silenzio sebbene molto sostenuta dal nostro Paese e gestita dal ministero per lo Sviluppo economico.

In Germania l’associazione BUND ha pubblicato il dossier FleishAtlas 2014 in cui analizza la produzione e il consumo di carne. I numeri sono impressionanti: nella sola Germania si macellano ogni anni 58 milioni di suini, 630 milioni di polli e 3,2 milioni di bovini numeri che li portano a conquistare il triste primato di “campioni europei”. Globalmente, però, i tedeschi non sono i primi: negli Stati Stati Uniti la società “Tyson Foods” macella più di 42 milioni di animali in una sola settimana, in Cina sono macellati più di 660 milioni di suini all’anno. Il prezzo per la crescente domanda di carne include tutti gli effetti collaterali indesiderati, quali scandali alimentari, abuso di antibiotici o residui di ormoni nella carne
Marina Perotta
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L’arte ci salverà

arteL’arte è un settore purtroppo sottovalutato nel nostro Paese, mentre invece potrebbe rappresentare un volano importante capace di rilanciare investimenti, occupazione e sviluppo. Basterebbero infatti anche solo pochi accorgimenti in questo ambito per ottenere un effetto domino rilevante.
L’azione pubblica a sostegno dell’arte

Appena qualche anno fa si parlava di “Stato culturale”; più recentemente circola la definizione “cultura bene comune”, come se le parole potessero diventare vere soltanto pronunciandole. I tempi sono corruschi, gli esiti della crisi imprevedibili, ma possiamo star certi che niente sarà più come prima: che l’azione pubblica possa ancora essere ecumenica, orientata al mantenimento dello status quo, preoccupata dal bisogno di sopravvivenza del sistema culturale, e soprattutto basata esclusivamente su sussidi finanziari, appare soltanto nostalgia per un ordine delle cose sul viale del tramonto.

In un paradigma economico e sociale che si trasforma radicalmente il ruolo del settore pubblico passa con decisione dal mecenatismo acritico alla regia strategica, con l’obiettivo ultimo di indirizzare le risorse culturali verso la crescita dell’economia e della qualità della vita, innervandosi nei processi creativi, produttivi, di relazione e di scambio dell’intero sistema territoriale. Tanto l’approccio quanto i meccanismi e gli strumenti dell’azione pubblica devono dunque mutare direzione e articolarsi costruendo un palinsesto fertile ed efficace per l’espansione e il consolidamento dei mercati dell’arte e della cultura.

La cultura nei suoi molteplici profili (pubblico, privato e non profit) rappresenta il sistema più fertile ai fini di una crescita fondata sulla progettualità, sull’investimento e sul capitale umano. L’azione pubblica, in questo quadro strategico, deve fondarsi sulla regolamentazione, sulla politica fiscale e tributaria, sull’incentivazione della responsabilità imprenditoriale. Uno dei primi passi strategici da compiere è una vera e sistematica defiscalizzazione della cultura in tutti gli anelli della catena del valore (creazione, produzione, scambio, diffusione).

Quanto vale l’arte?

L’arte è certamente un bene destinato al consumo condiviso e pertanto alla moltiplicazione progressiva del valore: attiva una reazione molteplice che connette i profili estetici con quelli storici e formativi, ma riguarda anche aspetti tecnici, tecnologici, relazionali e critici, per approdare alla qualità della vita urbana. In questo senso l’arte è uno specchio eloquente della sensibilità culturale e della responsabilità sociale. Non è sicuramente evanescente, ma sarebbe altrettanto dissennato considerarla un bene ordinario come un oggetto manifatturiero qualsiasi, utile forse ma privo di significato, soprattutto gravato da un’imposta sul valore aggiunto con aliquota ordinaria al 22%.

Si tratta di un insieme piuttosto ampio e certamente rilevante. Il Rapporto Eurostat 2009 stima la dimensione delle cultural activities e cultural occupations in oltre 3,6 milioni di addetti, ossia l’1,7% dell’occupazione totale. Più che la dimensione conta la qualità di queste professioni, cioè la loro capacità di innervare i processi economici con visioni strategiche, orientamenti innovativi, inclinazione alle sinergie, tutti ingredienti senza i quali uno sviluppo concreto e sostenibile dell’economia non è prospettabile.

Il caso italiano, non sorprendentemente, mostra alcuni punti di fragilità che collocano il Paese in coda agli Stati dell’UE27. La vulgata include convenzionalmente nel settore culturale il patrimonio artistico, architettonico e archeologico del passato, mostra una certa riluttanza a considerare culturali gli spettacoli, e resiste in modo variegato ma spesso acceso all’idea che l’arte contemporanea possa godere di piena cittadinanza nel sistema culturale. L’effetto di questa sorta di ossessione conservativa si vede nelle dimensioni contenute – e certamente inferiori al potenziale – dell’occupazione culturale, appena l’1,1% della forza lavoro attiva, contro il 2,3% dei Paesi nordici e il 2% di Germania e Gran Bretagna. Peggio di noi solo Slovacchia, Portogallo e Romania. Tra i paradossi dolorosi che ne scaturiscono c’è l’inefficacia dell’investimento in capitale umano: l’Italia vanta la più elevata percentuale di studenti delle discipline umanistiche, ma soffre al tempo stesso il mercato del lavoro più rigido e bizantino; il brain drain si manifesta tanto sul territorio quanto tra i settori produttivi.

Ostacoli tributari: un’IVA troppo alta

Nella complessa e talvolta contraddittoria disciplina tributaria italiana c’è un dato cui è utile far riferimento: l’imposta sul valore aggiunto prevede tre possibili aliquote: quella ordinaria del 22% e due aliquote relative a specifiche categorie di beni e servizi, pari al 10% e al 4%. L’editoria in tutte le sue fasi (industria editoriale, stampa quotidiana e periodica, composizione, duplicazione, lega-toria, etc.) si avvale dell’aliquota minima (4%) con lo scopo di agevolarne le dinamiche economiche, di facilitarne la diffusione, di incentivarne il consumo grazie al contenimento dei prezzi finali. La solidità dell’industria ne garantisce la stabilità dell’occupazione, e ne apre ulteriori canali d’accesso.

Ora, il sistema dell’arte contemporanea mostra in Italia alcuni elementi di fragilità dovuti a forti vincoli istituzionali e fiscali e alla pervasività della crisi che si concretano in un valore medio degli scambi inferiore a quanto registrato in altri Paesi. Tuttavia i collezionisti italiani occupano la quarta posizione mondiale – dopo Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina – per la spesa destinata al contemporaneo. Si tratta di uno snodo che potrebbe rivelare notevoli ricadute strategiche, rafforzando e consolidando il collezionismo pubblico e privato (tanto individuale quanto societario) e rendendo l’Italia un credibile hub di scambio internazionale per l’arte contemporanea. In questo quadro la riduzione dell’imposta sul valore aggiunto è un passo ineludibile.

Gli esiti di una misura che riduca in misura rilevante l’IVA sugli scambi d’arte vanno valutati tenendo conto che a fronte di una riduzione fisiologica del gettito rebus sic stantibus, si registrerebbe in tempi ragionevolmente brevi un aumento del gettito stesso a causa dell’emersione di transazioni tuttora occulte e illegali, dell’espansione degli scambi incoraggiata da un’aliquota inferiore del 18% rispetto a quella attuale, dell’attrazione di nuovi collezionisti attualmente posizionati sui mercati esteri. Se ne gioverebbe l’intero mercato dell’arte contemporanea, con una crescita progressiva di imprese, organizzazioni e professioni direttamente e indirettamente connesse.

Un ulteriore punto fragile di grande rilevanza risiede nella differenza tra i regimi IVA in Paesi diversi. In particolare collezionisti, imprese o istituzioni che acquistano un’opera d’arte in un Paese con l’imposta sul valore aggiunto ad aliquota bassa possono importare in Italia quanto acquistato con un aggravio minimo (una circolare dell’Agenzia delle Entrate del 2010 fissa al 10% l’IVA complessiva) o addirittura senza alcun aggravio, il che costituisce un forte incentivo verso l’acquisto all’estero, drenando la capacità del nostro Paese di agire come hub dell’arte contemporanea a fronte della frequenza, dell’intensità e del valore delle transazioni realizzate dai nostri acquirenti individuali, imprenditoriali e istituzionali.

Non si trascuri, infine, il vantaggio sistemico che potrebbe derivare da una riduzione dell’imposta sul valore aggiunto sull’arte contemporanea: il rafforzamento del sistema genererebbe una cascata di effetti che si propagherebbero sull’intero tessuto sociale e urbano, cominciando a segnalare l’arte contemporanea come uno dei driver di fondo dello stile di vita italiano, con ripercussioni positive su una varietà di comparti produttivi (si pensi, ad esempio, al turismo internazionale, alla ricerca e alla formazione, ai distretti dell’artigianato di qualità) e sulle risorse umane che ne declinano le dinamiche e la crescita.
di Stefano Monti e Michele Trimarchi
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Inaugurazione lavori ATER

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Ricostruire la città

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Le banche dati che ci obbligano a essere intelligenti

intelligenzaCome accadde secoli fa con la stampa, gli archivi elettronici permetteranno un progresso del sapere. Il nostro apparato cognitivo può liberarsi dall’obbligo di ricordare e dedicarsi all’invenzione
Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi di concentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo.

Lo spazio immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita, l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo, instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti. Ed ecco che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione. Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione. Che bisogno abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal momento che il computer lo fa? Il problema generale dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni. Le reti rendono desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e ora.

La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni rapide la funzione del conservare. Non immagazziniamo più cose, bensì relazioni.

Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo. In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Heidegger, filosofo oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana, designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il concetto teologico di ubiquità – la capacità divina di essere ovunque – descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.

Un altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la nostra capacità. Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà. Possiamo davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale ed enciclopedia collettiva dell’umanità.

Secoli fa cantastorie, aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone, anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto alla trasmissione scritta. I nostri predecessori coltivavano dunque la loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano che prendevamo note o
leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine. Così come la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni corporee in strumenti prodotti a partire da esse. Perdiamo la memoria perché ne costruiamo di multiple.

Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura. Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa. A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte. Ho impiegato molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi obbligavano a dissertare sulla celebre frase: Preferite una testa ben fatta a una testa piena.

Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneidee Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare. L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia! All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica, vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative. Decisamente, bisogna riscrivere
Pantagruel o gli Essais.

Come vecchi cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato. Sì, l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare intelligenti!

Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti.
di MICHEL SERRES
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Strantirazzismo di domenica 19 gennaio

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Smart City, Torino vara il masterplan con 45 azioni

smart-cityLe linee di indirizzo sui temi della mobilità, dell’energia, dell’inclusione sociale, dell’ambiente, della qualità e degli stili di vita
ia libera dal Consiglio comunale di Torino alla delibera di approvazione del masterplan “Torino smart city”, denominato “Smile – smart inclusion Life Health and Energy”.

Con la delibera, la Città assume gli assi strategici del masterplan “come linea di indirizzo e visione dello sviluppo di future progettualità a livello europeo, nazionale e regionale, legate ai temi della Smart city”.

45 azioni

Frutto della collaborazione con 66 diverse istituzioni del territorio, il masterplan si compone di 45 punti sui temi della mobilità, dell’energia, dell’inclusione sociale, dell’ambiente, della qualità e degli stili di vita. Le 45 azioni proposte rappresentano le potenzialità da sviluppare nei prossimi anni, proposte dalla Città e dagli altri enti locali coinvolti nel progetto.

“Smile – ha sottolineato l’assessore Enzo Lavolta, che ha presentato la deliberazione – è la possibilità concreta di rendere operativi gli sforzi che l’intero sistema locale porta avanti nell’ambito dell’innovazione tecnologica e sociale attraverso l’accesso a importanti risorse ulteriori alle risorse pubbliche attualmente a disposizione dell’Amministrazione”.

“E’ un patrimonio straordinario che suscita interesse e aspettative tra gli operatori del mondo economico sociale e culturale della nostra città”, ha commentato Piero Fassino intervenendo in aula prima del voto. “I programmi smart cities – ha continuato il sindaco – sono l’occasione per un salto di qualità nell’organizzazione della vita della nostra città. Smart city è un modo diverso di pensare la città in tutte le sue dimensioni, non solo per il valore aggiunto in termini tecnologici, ma anche per la significativa valenza sociale”.

Con il bando Miur partiti 11 progetti

Nel 2013, grazie al progetto Smart city, sono stati attivati 14 progetti europei per un valore di 3,5 milioni di euro, attraverso il bando MIUR Smartcities and Communities sono partiti 11 progetti di giovani under 30 per 7 milioni di euro nella sezione dell’innovazione sociale oltre a 6 progetti di ricerca per 100 milioni. Da ricordare ancora il bando cluster tecnologici di cui è diventato capofila Torino Wireless. (fonte: Ufficio stampa Consiglio comunale di Torino)
www.casaeclima.com
master plan Torino smart city




William Kentridge sui muraglioni del Tevere

graffitoSono personalmente convinto che l’intervento di William Kentridge sui muraglioni del Tevere sia un’intuizione geniale, un’opera monumentale ed effimera allo stesso tempo che gioca sull’immaginario più nobile e identificante della città eterna, plasmando uno scenario urbano affascinante quanto dimenticato, con la materia che il luogo e il tempo hanno prodotto. Ma il mio giudizio sulla qualità dell’opera conta poco: sta il fatto che un grande artista si accinge a fare un omaggio alla città e una parte di questa ne sembra sdegnata. Una parte piccola – sul successo anche popolare sono pronto a scommettere – ma una parte che conta, che decide. Come in altre occasioni è già successo (ricordo il divieto opposto all’istallazione di Peter Greenaway a piazza del Popolo nel ’94) è proprio quella burocrazia che avrebbe il compito di promuovere l’arte a opporre argomenti che con l’arte non hanno nulla a che vedere. Nelle motivazioni di chi sta ostacolando l’iniziativa c’è una confusione evidente tra l’opera d’arte e il decoro urbano. Ho letto perfino che prima di pensare a richiamare l’attenzione sulle rive del Tevere si dovrebbero rimuovere detriti ed immondizia, obiezione mossa da chi non dovrebbe chiedere una simile azione ma più semplicemente compierla. E se l’intervento di un’artista serve anche a questo, a richiamare l’attenzione sui rimossi della nostra città, acquista, anzi, un valore ulteriore.
Non mi scandalizza il fatto che ci si possa dividere sul giudizio, anche dividere è compito dell’arte, ma mi fa rabbia questa costante abitudine a voler impedire che l’arte si esprima. Io stesso da assessore mi sono più volte scontrato con questa mentalità, per cui un’opera contemporanea vede riconosciuto il suo status all’interno di un museo ma viene negata (dalla stessa amministrazione) fuori dalle mura dell’istituzione, come una cosa oscena.
Mi fa rabbia ma purtroppo non mi stupisce più. È per questo che mi auguro, e io sarò tra i primi, che ci si muova in molti per sostenere l’iniziativa e che si usi l’occasione per stabilire un criterio, quello che solo in Italia pare sconosciuto, quello che l’arte diffusa, l’arte per tutti non è un’aggressione all’ambiente ma uno dei pochi lenimenti alle nostre pene. E che ogni decisione al riguardo deve essere affidata a chi l’arte la fa e non al custode di turno.
Umberto Croppi




Edgar Schein: il primato della cultura organizzativa

organizzazioneProfessore emerito di management alla Sloan School Of Management del Massachusetts Institute of Technology, Edgar Schein (1928-vivente) ha di fatto inventato il concetto di cultura organizzativa. Scrive Schein:

La cultura è importante perché è un insieme di forze potenti, nascoste e spesso inconsce, che determinano il nostro comportamento individuale e collettivo, i modi della percezione, lo schema del pensiero e i valori. La cultura organizzativa in particolare è importante perché gli elementi culturali determinano strategie, obiettivi e modi di agire. I valori e lo schema di pensiero di leader e dirigenti sono in parte determinati dal loro bagaglio culturale e dalle loro esperienze comuni. Se si vuole rendere una organizzazione più efficiente ed efficace, allora si deve comprendere il ruolo giocato dalla cultura nella vita organizzativa.
Potrebbe sembrare una dimensione da studiosi e poco concreta, ma – osserva Schein – che se una persona passa la maggior parte della sua vita facendo un certo lavoro, in una certa organizzazione, assorbe parecchi temi culturali condivisi dagli altri nell’ambiente di lavoro o nell’organizzazione. Pertanto la chiave per capire se esiste o meno una cultura è cercare la presenza di esperienze comuni e di un comune bagaglio culturale.

Vedremo, di qui a poco, che per Schein la cultura di un’organizzazione è “ciò che ella ha assimilato come unità sociale nel corso della sua storia”, ed egli la definisce composta di artefatti, valori e postulati nascosti. La metafora è quella di un frutto di pesca con gli artefatti come buccia, i valori come polpa, e gli assunti di base come nocciolo.

Il concetto di cultura organizzativa
La tesi fondamentale di Schein (1984; 1986) è che l’analisi di un’organizzazione consiste essenzialmente nello studiare la sua cultura. Questo perché la cultura è l’elemento più importante di un’organizzazione, ciò che consente di spiegarne la struttura, le scelte strategiche, il reclutamento e la condotta dei singoli individui. Inoltre siccome la cultura è in larga parte creata e gestita dai leader dell’organizzazione, cultura e leadership possono essere viste come le due facce della stessa medaglia. È possibile, scrive Schein, che l’unico compito realmente importante dei leader consista nel creare e gestire la cultura d’azienda e che di conseguenza l’unico talento che i leader devono possedere sia quello di saper gestire la cultura (1990).

Dal punto di vista delle definizioni formali del concetto, scrive Edgar Schein che:

la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.
Trattasi di una definizione complessa, che sintetizza in poche righe il pensiero di Schein. Tre sono gli aspetti principali della definizione.

Il primo sta nel concetto di cultura inteso come un insieme di assunti fondamentali. Con questa espressione Schein intende affermare che la conoscenza di una cultura organizzativa procede attraverso un’analisi che si sviluppa a diversi livelli di profondità. Al livello più superficiale ci sono gli artefatti, ossia i prodotti immediatamente osservabili di una data organizzazione: la sua architettura, l’arredamento, la tecnologia, ma anche il modo di comportarsi dei suoi membri come il gergo, l’abbigliamento, la mimica, i simboli, i rituali.

Per definizione tutti gli artefatti sono visibili, ma non per questo facilmente decifrabili. Al contrario, proprio l’arte di decifrare il senso degli artefatti costituisce il primo banco di prova di una analisi organizzativa.

Così, ad esempio, che scopi si prefigge una determinata architettura? Favorisce la socialità tra i membri o rispecchia la volontà di mantenere delle barriere gerarchiche? L’abbigliamento delle persone segue le loro libere preferenze, oppure con divise e simboli di grado manifesta l’appartenenza ad una organizzazione? Esistono dei rituali e con quali scopi? Esistono gerghi specialistici, più o meno esclusivi e non comprensibili da persone esterne?

Per Schein l’osservazione attenta degli artefatti è il primo passo dell’analisi organizzativa. Si raccolgono le prime impressioni, si formulano le ipotesi di lavoro, si prepara il terreno per passare a un secondo e più approfondito livello di analisi.

Al secondo livello si trovano quelli che Schein definisce i valori espliciti dell’organizzazione. Siamo nella sfera dei discorsi manifesti e accettati che vengono spesso creati e fatti circolare dalla leadership con l’intento di rafforzare il senso di appartenenza e solidarietà, di individuare i pericoli e i nemici esterni, di chiarire e legittimare le scelte dell’organizzazione, di creare consenso tra i membri. Spetta al ricercatore compiere un’attenta ricognizione di quei discorsi, sia scritti che orali (colloqui, interviste), esaminare la loro evoluzione nel tempo e il grado delle loro corrispondenze con gli artefatti.

Ma la ricerca non finisce qui. Bisogna scendere a un terzo livello ancora più profondo, quello che Schein chiama degli assunti di base. Sono queste le convinzioni profonde e inespresse, date talmente per scontate da non attrarre l’attenzione e di cui spesso i membri non sono nemmeno del tutto consapevoli. Ma è proprio questo il livello più importante per capire l’anima dell’organizzazione, le motivazioni profonde delle azioni dei suoi membri e il modo in cui questi sono stati selezionati e plasmati. Fare emergere gli assunti fondamentali di un’organizzazione è il compito più difficile, ma è qui che si gioca il valore della ricerca, la sua possibilità di andare oltre la banale descrizione di cose che già si sanno.

Schein dà alcune indicazioni su come scoprire questi assunti. Essi riguardano i campi universali dell’esperienza umana, come il rapporto con la natura, la percezione del tempo, la natura dell’uomo, le attività umane e le relazioni tra le persone.

Il rapporto con la natura può essere di dominanza e di sfruttamento, oppure di rispetto e di armonia. Dello scorrere del tempo si può avere una concezione ciclica, di continui ritorni su se stesso (concezione tipica dei mondi rurali e arcaici) oppure si può avere una concezione lineare, di un tempo che non torma indietro. La concezione del tempo può a sua volta essere connessa all’idea di progresso. Quanto alla natura dell’uomo, esistono concezioni pessimiste della natura umana in quanto marchiata dal peccato originale, ed esistono concezioni ottimiste che vedono l’uomo come un essere capace di perfezionarsi indefinitamente. Vi sono infine concezioni democratiche oppure autoritarie dei rapporti umani, di gruppo o individualiste, competitive o solidariste, maschiliste o paritarie tra i sessi. Dall’insieme di questi assunti discende la risposta a domande importanti come: qual è il modo di impostare i rapporti tra essere umani, di distribuire potere e amore? La vita è cooperativa o competitiva? Che cosa è il lavoro e che cosa è il gioco? L’ordine sociale va mantenuto ricorrendo alla gerarchia e al controllo oppure costruendo rapporti basati sulla fiducia, sulla delega di responsabilità e sull’eguaglianza?

Gli assunti di base si possono variamente combinare tra di loro dando luogo a sistemi di convinzioni articolati e complessi. A seconda di tali combinazioni cambia profondamente il modo di lavorare, di comunicare, di valutare il proprio operato e quello degli altri. I sistemi di convinzioni devono però sempre soddisfare il requisito fondamentale della coerenza interna, e questa riguarda tanto la combinazione degli assunti tra di loro quanto il rapporto tra questi ultimi e i livelli dei valori espliciti e degli artefatti. Tale coerenza è importante in quanto contribuisce ad assicurare il coordinamento tra i diversi membri e le diverse unità organizzative.

La formazione di una cultura organizzativa
Ma come si formano gli assunti fondamentali di un’organizzazione? Per Schein la cultura si forma sempre in un gruppo e arriviamo così al secondo punto della definizione che egli dà di cultura. Il gruppo è formato da persone che sono state insieme il tempo sufficiente per avere condiviso problemi significativi, averli affrontati, avere osservato gli effetti delle soluzioni tentate e avere trasmesso quelle soluzioni ai nuovi arrivati. Quanto più il gruppo è omogeneo e stabile con esperienze lunghe e intense, tanto più forte e articolata è la sua cultura. Viceversa, se il gruppo è composto da persone con scarse esperienze comuni e che non hanno mai affrontato insieme problemi difficili, la sua cultura è debole, precaria e poco differenziata. In sintesi, per sviluppare una cultura comune il gruppo deve avere una storia comune.

Tutto ciò equivale a dire che una cultura non è fatta di idee astratte ma di risposte a problemi concreti che occorreva risolvere, inventando o scoprendo soluzioni che poi diventano oggetto di apprendimento da parte dei nuovi membri del gruppo. La validità delle risposte non è data soltanto dalla loro efficacia nel risolvere i problemi pratici, ma anche dal grado in cui riducono l’ansia dei membri. L’ansia nasce in ambienti sconosciuti o ostili, quando non si riesce a percepire un ordine o una coerenza interna. Si spiegano così gli aspetti ritualistici e simbolici sempre presenti in una cultura organizzativa: le danze propiziatorie prima della battuta di caccia in una tribù primitiva, ma anche le ricorrenti cerimonie rituali in una grande impresa moderna tuffata nel vortice della concorrenza.

Schein distingue poi due grandi categorie di problemi: quelli riguardanti l’adattamento del gruppo all’ambiente esterno e quelli riguardanti l’integrazione interna. I problemi del primo tipo riguardano gli obiettivi, le strategie e i mezzi per realizzare gli obiettivi e la valutazione delle prestazioni. Su questi problemi occorre un consenso minimo pena la dissoluzione del gruppo. Ma i problemi possono cambiare man mano che l’organizzazione li affronta e passa a un’altra fase della vita. Schein fa l’esempio di un’azienda che appena fondata si pone il compito di vincere sul mercato tutti gli altri concorrenti, ma in una fase successiva trova conveniente sviluppare una propria nicchia di mercato o addirittura si adatta a diventare un partner senza pretese in un settore oligopolistico pur di sopravvivere.

I problemi di integrazione riguardano invece la capacità del gruppo interno all’organizzazione di funzionare come gruppo. Anche qui c’è un’esigenza di consenso, che riguarda i criteri per includere ed escludere i membri, per distribuire il potere, per sviluppare amicizia, confidenza e affetto, per stabilire premi e punizioni. Soprattutto occorre il consenso sull’ideologia, ovvero sul sistema dei discorsi con cui attribuire significato e ridurre l’ansia dei membri di fronte a eventi inspiegabili o traumatici.

Tutti questi problemi hanno delle specificità che riflettono la storia dell’organizzazione e l’ambiente in cui si opera. Per affrontarli, l’organizzazione sviluppa degli assunti che secondo la definizione data da Schein devono funzionare abbastanza bene da poter essere considerati validi. Quegli assunti formano la cultura dell’organizzazione. È una cultura in formazione perenne, perché è sempre in atto qualche tipo di apprendimento circa il modo di porsi in rapporto con l’ambiente e di gestire gli affari interni. Si crea così una tensione tra l’esigenza di conservare il patrimonio degli assunti formatisi con l’esperienza precedente e l’esigenza di verificarli e adattarli alle nuove esigenze che li sfidano. La tensione tra conservazione e innovazione è presente in ogni cultura organizzativa. Spetta alla leadership gestire quella tensione in modo lungimirante e accorto. Un buon leader sa che la cultura organizzativa non può essere pietrificata in qualcosa di immutabile, né trasformata in modo troppo rapido e disinvolto.

Infine la cultura (ed è questo il terzo aspetto della definizione) non è solo un patrimonio condiviso dai membri già presenti nell’organizzazione, essa richiede di essere trasmessa ai nuovi membri in modo da garantire la sopravvivenza del gruppo. L’operazione è semplice se fatta a persone giovani, non ancora formate. Ma è complicata quando i nuovi membri, soprattutto se introdotti ai livelli alti dell’organizzazione, portano con sé il contributo di idee e valori già acquisiti in altre esperienze. In questi casi è possibile che l’ingresso dei nuovi membri provochi dei cambiamenti nella cultura dell’organizzazione. Si pone allora il problema di studiare i processi di adattamento reciproco tra la cultura preesistente dell’organizzazione e i cambiamenti apportati dai nuovi membri. Schein non dà una risposta preventiva al problema, perché si tratta di dinamiche da studiare empiricamente caso per caso.

Schein ammonisce che non è facile studiare la cultura, data la sua natura pervasiva che permea ogni aspetto dei rapporti umani. Non basta intervistare i fondatori o i leader sui valori e sugli obiettivi dell’organizzazione, perché in questo caso si rimarrebbe solo al livello manifesto. L’analisi deve estendersi:

ai processi di socializzazione dei nuovi membri, ossia a come la cultura organizzativa viene trasmessa, recepita e adattata;
alle risposte date ad eventi critici nella storia delle organizzazioni, e questo perché quelle risposte costituiscono un patrimonio di ricordi che concorrono a formare l’identità collettiva dell’organizzazione;
alle anomalie o ai tratti osservati man mano che la ricerca procede. Una cultura organizzativa può essere meglio messa a fuoco se si esaminano le irregolarità, le devianze e le tensioni latenti che in essa si producono.
Va, infine, tenuto presente che tutti questi elementi vanno ricondotti al modo in cui viene esercitata la leadership: leadership e cultura, ripete Schein, non sono che due aspetti di una stessa realtà, studiando la leadership di un’organizzazione si studia la sua cultura e viceversa.

Conclusioni
Quando all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso prese corpo la proposta di Edgar Schein di dedicare attenzione al tema della cultura organizzativa, nessuno avrebbe mai pensato alla sua rapida diffusione e al fatto che sarebbe stata poi condivisa in tutta la letteratura successiva, tanto da potersi ritenere ormai assodato il fatto che proprio questa cultura rappresenta una variabile strategica di tutte le organizzazioni.

Quale lezione trarre, allora, dal pensiero di Schein? La prima, e più importante, è che un leader che voglia portare al successo un’organizzazione deve necessariamente sviluppare una visione duale: attento alle azioni e decisioni che portano al miglioramento delle performance aziendali e, nello stesso tempo, attento alle implicazioni che tali azioni e decisioni avranno sulla cultura aziendale. Ma di questi due aspetti, forse, l’area su cui i leader attuali dovranno maggiormente concentrare i propri sforzi è il secondo: saper governare il mondo del simbolico per creare consapevolmente una cultura orientata al successo.

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Giuseppe Pompella

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