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Google e Luxottica insieme per i nuovi Google Glass

googleglassIl colosso di Mountain View e il gruppo italiano realizzeranno la nuova generazione di Google Glass, gli occhiali intelligenti

Google e Luxottica si alleano per realizzare la nuova generazione di “Google Glass“, gli occhiali ipertecnologici che consentiranno di visualizzare in tempo reale le informazioni dell’oggetto che si sta osservando

Il colosso californiano ha raggiunto un accordo con il gruppo fondato da Leonardo del Vecchio per coniugare la propria tecnologia ingegneristica con il design e l’ “italian style” di Luxottica. Nella collaborazione sono coinvolti anche due altri grandi marchi tra i più famosi della produzione di occhiali, come Ray-Ban e Oakley.

Si tratta di una collaborazione strategica di ampia portata – si legge nel comunicato dei due gruppi- per creare insieme dispositivi indossabili innovativi e iconici. Le due aziende formeranno una squadra di esperti dedicati a design, sviluppo, strumentazione e ingegneria dei prodotti Glass.

Grande entusiasmo è stato espresso non solo da parte italiana, con l’ad di Luxottica Andrea Guerra che ha dichiarato il proprio orgoglio per “essere ancora una volta i pionieri nell’industria dell’eyewear“, sia a Mountain View, da cui hanno ammesso che i problemi legati al lancio del nuovo prodotto sono dovuti a fattori estetici più che non ad ostacoli tecnologici: “C’è un problema di moda molto più che un problema legato alla tecnologia – spiega Astro Teller, responsabile di Google per il progetto dei Google Glass – Bisogna convincere le persone a indossare un computer sul loro viso.

La collaborazione tra i due gruppi prosegue ormai da più di un anno, ma è stata ufficializzata solo ora. Questa mattina, all’apertura delle Borse, Luxottica ha realizzato un ottimo risultato, aprendo a +3,00%.

 (da ilgiornale.it)




In aula Giulio Cesare delibera su funicolare Magliana

funivia(ASCA) – Roma, 24 mar 2014 – ”A seguito della riunione dei capigruppo di questa mattina si e’ deciso che domani, martedi’ 25 marzo – dalle ore 16 alle ore 20, l’Assemblea capitolina esaminera’, oltre ai provvedimenti lasciati in sospeso nella precedente seduta, la Delibera sulla gestione e distribuzione del gas naturale. Tra le Mozioni al vaglio dell’Aula: stabilizzazione di 125 lavoratori interinali ATAC; realizzazione della funivia leggera sopra il Tevere di collegamento tra il quartiere Magliana e l’omonima stazione della metro B; monitoraggio di dati ambientali sulle discariche; programma di controllo costante del Colle Oppio; iniziativa di intitolare una strada o una piazza a Franco Califano”. Lo comunica in una nota la Presidenza dell’Assemblea Capitolina.




Quando la rigenerazione urbana parte dagli edifici scolastici

Un grande campus scolastico a Baltimora al centro di un quartiere da riqualificare, con tanto verde, aree da condividere e spazi interni flessibili e adattabili ai diversi programmi pedagogici

Non un edificio scolastico, ma un vero e proprio campus dedicato all’apprendimento (e insegnamento). La Henderson-Hopkins School è più di un progetto architettonico, è un modello di “rigenerazione urbana” volto ad incidere profondamente sulla società di Baltimora.

Microcosmo all’interno della città 
Sviluppato come una sorta di microcosmo all’interno della città, il complesso di edifici scolastici destinati a vari classi di istruzione, si compone di una serie di piccoli fabbricati- ispirati nella loro conformazione alle tradizionali villette a schiera di Baltimora- immersi in strade, piccole aree verdi e spazi da condivere.

Spazi in condivisione

Ciascun edificio è dotato di uno spazio in comune dove si consumano i pasti e di una terrazza destinata ad alcune attività didattiche o ludiche, che ha lo scopo di promuovere sia la condivisione di spazi con i compagni di scuola sia l’apprendimento individuale (vi sono tavolini dove gli studenti possono fermarsi a studiare o leggere).


Spazi interni flessibili

L’architettura del campus riflette l’attuale stato dell’arte della ricerca pedagogica. Gli spazi interni sono flessibili e adattabili a qualsiasi tipo di programma pedagogico e conformi alle diverse capacità di apprendimento, abitudini ed età degli studenti. Per facilitare, inoltre, l’apprendimento si è puntato sulla realizzazione di grandi aperture finestrate che consentano un forte ingresso di luce naturale.

Questo progetto – afferma Robert M. Rogers, fondatore dello studio Rogers Partners che ha realizzato il progetto –  rappresenta ciò che l’architettura scolastica potrebbe (e dovrebbe) essere. Il nostro obiettivo era quello di recuperare e re-immaginare un tessuto urbano ricco di opportunità per l’area ad est di Baltimora e di tradurre concretamente il concetto di scuola come istituzione fortemente radicata all’interno di una comunità

Crediamo che i quartieri forti siano costruiti intorno a delle forti scuole pubbliche – ha aggiunto Christopher Shea, Presidente EBDI (East Baltimore Development , Inc.), organizzazione no-profit che ha collaborato al progetto, che prevede non solo la costruzione del campus scolastico ma una serie di strutture e servizi volti a riqualificare l’intero quartiere: un consultorio familiare, una biblioteca, un auditorium e una palestra

Architetti: Rogers Partners

Località: 2100 Ashland Avenue, Baltimore, MD 21205, USA

Sviluppatore del progetto: Vincent Lee, AIA, Associate Partner

Project Manager: Timothy Fryatt, Associate

Project Architect: Kip Katich, AIA

Superficie: 12.000 mq

Anno: 2014

Costo: 53 milioni di dollari

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”La luna non è di nessuno e nessuno la può comperare”

spaceSpace Metropoliz | serata meticcia _18 Marzo❝In questi anni occupare ha significato restituire vita, corporeità, energia sociale a luoghi svuotati dal processo di astrazione finanziaria. L’occupazione non è finalizzata a contrattare, e non è neppure un gesto di protesta simbolica. È riattivazione di un desiderio che l’astrazione finanziaria ha sterilizzato, svuotato, distrutto.❞ (Bifo, 2014)

Nell’ambito degli appuntamenti sul DIRITTO ALLA CITTA’, la proiezione di questa opera ci da l’opportunità di incontrare i registi, i protagonisti, gli abitanti di Metropoliz, gli attivisti dei movimenti per il diritto all’abitare, e gli artisti che espongono al MAAM.

PROGRAMMA

▣ h 19.oo dibattito “Energia sociale in luoghi svuotati”
con Paolo di Vetta (BPM), Fabrizio Boni (regista), Giorgio de Finis (regista, curatore del MAAM), Tarik Fedouach (Metropoliz), Gian Maria Tosatti (artista) e altri…

▣ h 21.oo proiezione di *Space Metropoliz* di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis

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METROPOLIZ CITTA’-METICCIA è uno spazio liberato, un’esperienza autorganizzata di recupero di un’ex fabbrica a Roma in via Prenestina 911-913, dove peruviani, africani, ucraini, rom e italiani convivono lottando per il diritto all’abitare. La fabbrica, un ex-salumificio, è diventata così sede di un esperimento continuamente in-progress di adattamento, autocostruzione e convivenza.

Nel 2011 nasce il progetto di SPACE METROPOLIZ di Fabrizio Boni e Giorgio de Finis con l’intento di utilizzare il cinema come strumento di aggregazione, di progettazione e di trasformazione del territorio, e per contribuire alla rigenerazione socio-ambientale del Metropoliz, proseguito con l’apertura del MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, aperto ad aprile 2012.

POST

 




Investimenti per il recupero delle aree marginali e dismesse con le rinnovabili in Emilia Romagna

eneaNUOVE OPPORTUNITÀ PER L’AMBIENTE E L’ECONOMIA DELL’EMILIA-ROMAGNA

CON INVESTIMENTI PER LE RINNOVABILI SU TERRENI MARGINALI 

Si è svolto oggi presso la sede ENEA di Bologna, il seminario per le Pubbliche Amministrazioni:  “Come trasformare le aree marginali in opportunità per l’ambiente, il territorio e l’economia della Regione Emilia-Romagna”, che ha evidenziato i risultati raggiunti nell’ambito del Progetto M2RES – “From Marginal to Renewable Energy Source Sites”, cofinanziato dall’Unione Europea attraverso il programma South East Europe, e coordinato dall’ENEA. Il progetto vede la partecipazione di partner provenienti da sette Paesi dell’Unione Europea (Italia, Slovenia, Grecia, Romania, Bulgaria, Ungheria e Austria) e da Serbia, Albania e Montenegro.

M2RES si pone l’obiettivo di valorizzare terreni marginali, come ad esempio, insediamenti industriali dismessi, cave abbandonate, ex-aree militari, discariche di rifiuti, attraverso investimenti mirati alla produzione di energie rinnovabili. In tal modo porzioni inutilizzate di territorio potranno subire un’opera di riqualificazione in grado di generare un ritorno economico e sociale. Inoltre, la formazione di partnership tra soggetti pubblici e privati favorirebbe la creazione di valore aggiunto a beneficio delle comunità locali.

Il progetto ha finora consentito di sviluppare una serie di studi di fattibilità, linee guida e strumenti operativi a supporto della pianificazione territoriale e energetica. Ad esempio, è già on line un sito web-GIS, realizzato in collaborazione con il Servizio Geologico della Regione Emilia-Romagna, che consente di mappare e qualificare le aree marginali con una serie di dati che includono sia i vincoli normativi, geologici e ambientali che le potenzialità produttive di ciascun sito.

Il seminario, rivolto in particolare alle Pubbliche Amministrazioni, ha approfondito il tema della pianificazione e dello sviluppo delle energie rinnovabili sul territorio della Regione Emilia-Romagna. Protagonista negli anni scorsi di un forte sviluppo, dovuto soprattutto a cospicui contributi statali, questo settore deve oggi misurarsi con un quadro normativo più complesso, anche dal punto di vista della tutela del territorio, e con margini di ritorno economico più esigui. In questa prospettiva, le aree marginali costituiscono una risorsa importante per le comunità locali, grazie alla capacità di coniugare una gestione rispettosa del territorio con la produzione di energia.

Al centro del Seminario, a cui hanno contributo anche i responsabili del Servizio Energia della Regione Emilia-Romagna e dell’ANCI, gli strumenti e le modalità per capitalizzare i risultati raggiunti e per permettere alle Amministrazioni Locali di pianificare altri interventi nell’ottica M2RES.

Maggiori informazioni sul Progetto sono reperibili sul sito http://www.m2res.eu/




Ecco la tangenziale verde: giardini, vigneti, mercati e anche una pista per lo skate

tangenzialeIl piano per la sopraelevata da Batteria Nomentana a Tiburtina. L’area lunga due chilometri e larga 20 metri sarà attraversata da una pista ciclabile

Una lunga “spiga verde” fra i palazzi e la ferrovia. Una lingua d’asfalto trasformata in un giardino agronomico di nuova generazione, con coltivazioni autoctone, giardini didattici e familiari, campi sportivi, uno skate park e persino un mercato a chilometro zero. Così immagina il futuro del tratto di Tangenziale dismesso fra Batteria Nomentana e la stazione Tiburtina, oggi sostituito dal percorso interrato, il progetto realizzato dall’architetto Nathalie Grenon, partner dello studio Sartogo Architetti Associati. Presentato ieri alla libreria “Assaggi” di San Lorenzo, il progetto pilota “Coltiviamo la città” è nato nel II Municipio dalla proposta di due associazioni, Res e Coltiviamo, sulla base del principio dell’Agenda 21 per le città sostenibili, con un processo partecipativo che coinvolge cittadini e realtà del territorio. E dopo più di tre anni di lavoro è ora praticamente ultimato.
“Si tratta di un innovativo progetto di riqualificazione urbana attraverso la rigenerazione ambientale” spiega Grenon. Ma, a differenza di esperienze simili, come quella dell’High Line di New York (ieri ricordata dall’architetto paesaggista Elizabeth Fain La Bombard, ospite del dibattito), “sarà un giardino agronomico, quindi produttivo, che prediligerà le coltivazioni autoctone, anche perché il Lazio è la regione italiana più ricca di biodiversità”. Spazio, quindi, a un giardino di meli, di 16 tipologie diverse, e a un vigneto autoctono. Ma anche a orti urbani per le scuole, giardini per le famiglie e per “nonni e nipoti” e a un mercato a chilometro zero, con una grande copertura a pannelli solari di nuova generazione. Non solo. Nell’area verde lunga due chilometri e larga 20 metri, attraversata da una pista ciclabile con stazioni di bike sharing e da vari percorsi pedonali, sorgerebbero anche campi sportivi e di bocce, una sala conferenze, un’area per cani, uno skate park e un giardino in cui piantare un albero per ogni neonato, come la legge prevederebbe dal ’92.

“Grazie a grandi cisterne poste sotto l’attuale tangenziale si recupererà l’acqua piovana, mentre l’organico di tutto il quartiere potrà essere raccolto qui nelle compostiere e riutilizzato” sottolinea Grenon. “Il giardino sarà sostenibile e autosufficiente anche perché saranno le associazioni, le famiglie e i cittadini a prendersene cura, gestendo i segmenti loro affidati”. Ma potrebbe diventare anche un laboratorio di sperimentazione innovativa sul monitoraggio ambientale e l’utilizzo di fonti rinnovabili, grazie al coinvolgimento in sinergia degli istituti di ricerca della zona, dall’Enea al Cnr. Presentato in Campidoglio e finito sul tavolo della commissione Politiche comunitarie, il progetto da 9 milioni di euro potrebbe essere finanziato in parte con fondi europei. “Il sogno – conclude Grenon – sarebbe di poter aprire la prima parte nel 2015, in concomitanza con l’Expo di Milano”.

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Perché La Grande Bellezza è un capolavoro

o-grande-bellezza-facebookTolgo qualche ora alla scrittura di un saggio dedicato alla creatività perché ho bisogno di spiegare il motivo per cui ritengo La Grande Bellezza un film magnifico. Lo faccio dopo l’assegnazione del premio Oscar al film, e lo faccio il giorno dopo averlo visto al cinema: ormai ero determinato a capire il perché buona parte del mondo intellettuale italiano, spesso sussurando tra una cena e un aperitivo, lo ritenesse un film brutto e sbagliato, o comunque in ogni caso sopravvalutato. Volevo capire perché si ripetesse come un noioso argomento che quella era l’immagine dell’Italia che piace agli americani. E volevo vedere se fosse mai vero che si trattava di una scopiazzatura di Federico Fellini, e ancora di più se poteva avere un senso un’altra delle tante cose che ho sentito sul film di Paolo Sorrentino: che era costruito per prendere l’Oscar. Come se fosse mai possibile una cosa simile.

Non avevo visto La Grande Bellezza quando uscì per molti motivi. Vado poco al cinema (spesso mi annoiano i film che si producono oggi) e non mi era piaciuto Il Divo, che avevo trovato un film sbagliato, dove il ragionamento estetico sul potere, e la figura di Andreotti, raggiungevano un paradosso che a suo tempo avevo trovato un po’ stucchevole. Insomma avevo trovato Il Divo un’idea molto bella, ma anche un’occasione persa. Per cui non mi si poteva annoverare tra i fan di Paolo Sorrentino, ma neppure tra i detrattori, visto che mi erano piaciuti molto L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Questo per la premessa.

Ma quando leggo in giro, e quando ascolto in giro giudizi negativi così netti mi insospettisco. Quando utilizzo l’espressione in giro intendo nell’ambiente che mi appartiene, e che conosco assai bene, forse meglio di tutti quelli che dell’ambiente fanno parte. Parlo dei giornalisti, degli scrittori, dei critici e in genere degli intellettuali italiani, che ho conosciuto uno a uno, anche se non li ho mai frequentati molto (non sono salottiero, ho da sempre delle timidezze relazionali che mi vengono da una parte di anima sabauda e provinciale che quasi 30 anni di Roma non mi hanno scrollato ancora di dosso). Così, non essendo riuscito a vedere La Grande Bellezza in televisione, sono andato al cinema. Ancora meglio: niente interruzioni pubblicitarie, concentrazione, e visione degna di quello che chiamiamo spettacolo.

Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. Ha un uso delle parole che è quello di suo padre Attilio, un uomo meraviglioso, un grande poeta, che sorrideva sempre (a proposito degli intellettuali conosciuti, e di un’altra Italia che non esiste più).

Dopo pochi minuti de La Grande Bellezza avevo capito che mi trovavo di fronte a un film magnifico, scritto per uno spettatore colto, sofisticato, capace di entrare fino in fondo dentro un sogno che scardina tutti i luoghi comuni e le banalità che certo cinema e certo mondo intellettuale propinano da trent’anni. Solo che Sorrentino nella sua fortuna è sfortunato. In Italia non c’è più una classe culturale e giornalistica, un’intellighentia che possa capire un film del genere e apprezzarlo. Esiste solo fuori d’Italia. E infatti lo hanno premiato gli americani, ma non perché hanno visto una certa immagine dell’Italia. Questo film non è sull’Italia, ma è un film sulla religione e sulla morte, sul sesso, sul potere, sulla dissoluzione della storia. E solo Roma poteva permettere questo. L’unica città dove la storia si manifesta in strati sovrapposti, in strati di pietre che cambiano dall’età Augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco fino al periodo Umbertino e al Novecento.

Certo ci voleva coraggio a mettersi a girare un film che non è scritto secondo le regole rimbambite che insegnano in tutte le scuole di regia e sceneggiatura e che stanno mandando all’ammasso il cervello di tutte le nuove generazioni. Ci voleva coraggio a spazzare via con una mirabile battuta qualsiasi impegno politico, qualsiasi riferimento alla nostra sinistra, alla nostra destra, alla politica corrotta, e agli ideali. Jep Gambardella liquida tutto una sera sul suo terrazzo quando spiega a Stefania chi è lei veramente, demolendola. Forse è lì che una parte dei nostri critici binari (ovvero capaci solo di una scarnata dicotomia come: bello/brutto) ha cominciato a sviluppare una certa antipatia per Jep e per Sorrentino.

Davvero scrittori e giornalisti, intellettuali e artisti, sono stati solo degli ininfluenti provinciali affannati a prendersi un po’ di gloria con qualche spinta in Rai, o qualche posto di potere culturale dove compiacere la grande politica, quella che ci avrebbe resi tutti migliori, oltre che compiacere se stessi?

Ho visto ne La Grande Bellezza trent’anni della mia vita. Ma forse anche 50 anni, per quello che 30 anni fa mi raccontavano i più vecchi, quelli che avevano vissuto il dopoguerra, gli anni 50 e 60. Ed era questo. Era il racconto di Sorrentino nel film. In questa Roma struggente, che è struggente per qualsiasi provinciale che ci arriva da fuori (vale per me, per Sorrentino, e ancor di più per Fellini) è come se fosse in atto una dissoluzione che non è solo fisica, non è solo morale (quanta morale, nel cinema italiano, quanto neorealismo camuffato quando ormai si era fuori tempo, quanta pedagogia politica mascherata da arte, bellezza, ed estetica… basti solo pensare a casi come La meglio gioventù) ma è una dissoluzione ancestrale, come se la storia trasudasse comunque da tutto.

Quel Colosseo che incombe non è uno specchietto per gli americani che lo fotografano, e non è il simbolo di una grandezza perduta, è il capro espiatorio, la pietra del sacrificio, il luogo di un martirio che non finisce mai. Ed è il martirio consapevole di una modernità e di una contemporaneità che non è in grado di comprendere perché non c’è niente da comprendere.

Ovvio che Toni Servillo è un grandissimo attore. Ovvio che il film senza di lui non sarebbe immaginabile. Ma non è solo questo. Questo è un film fitto di contaminazioni musicali,  di citazioni. E le citazioni non sono solo quelle felliniane, che i critici binari comprendono subito, ma ad esempio c’è Todo Modo di Elio Petri. Il vero film sul potere che Sorrentino ha girato è proprio La Grande Bellezza, e non Il Divo. Il vero film sul potere del divino e sul mistero originario è questo.

Ho conosciuto il mondo di Jep Gambardella. Non è importante se le feste fossero in quel modo oppure no. La Grande Bellezza non è un film felliniano e non è un film realista. È un film sorrentiniano, perché ormai il termine ci sta. Ho visto quei giornalisti, quegli scrittori, ho ascoltato argomentare in quel modo. Ho visto quei mondi mescolati in epoche diverse. Quando gli anni Settanta avevano appena smesso di bruciare, e sembravamo un paese destinato a fare scuola, e persino ora che non contiamo più nulla da nessuna parte. Sono entrato in case come quelle. Esistono. Ed esistono corridoi che portano sempre là in fondo, a quelle chiavi che aprono giardini e palazzi inaccessibili, a persone che tolgono la camicia e scopri che portano il cilicio, a religiosità strane, sincretiche, eclettiche dentro volti, ruoli, pensieri, azioni e corpi che neanche immagineresti. Ho conosciuto uomini di fiducia e uomini sfiduciati. Ho visto gente capace di mandare al diavolo una carriera per il sesso e gente che con il sesso ha costruito un potere profondo, incancellabile, ma non roboante e volgare, peggio: invisibile. Ho visto candore nel potere e potere nel candore. Vecchiaia repellenti che odoravano di saggezza ma anche di pochezza e di vergogna. Ho ascoltato discorsi tutti uguali per anni, di gente che non sapeva cosa stesse dicendo ma soprattutto perché. E mentre queste complessità si legavano assieme una all’altra, generando una classe di potere nuova e sottile che nulla aveva a che fare con il censo, con la cultura e con le posizioni sociali e professionali, dall’altro lato si creava una nuova semplicità sempre più isolata, che andava a occupare caselle che non interessavano più a nessuno.

È quello che si vede nel film. Le attricette che valgono sempre più dei ruoli che vengono loro offerti, gli attori che assomigliano alle pubblicità di Dolce e Gabbana, gli scrittori che sembrano degli sceneggiatori che si sono persi il produttore, e i produttori che guardano alla crisi e investono in commerciabilità e semplicità. Le fiction morali, i fotoromanzi dei nostri giorni rivolti a shampiste e intellettuali, dove l’eroismo è semplice, la storia è lineare, dove vincono i buoni, e l’olezzo dei cattivi non arriva da nessuna parte. E attorno a questa roba c’è un mondo di uffici stampa, di parole, di feste, di eventi, di visibilità, ma soprattutto di oscenità nel senso della messa-in-scena che nessuno è stato capace di girare come Sorrentino.

A Paolo Sorrentino sono bastate un paio di feste per chiudere l’argomento. Altri ci avrebbero girato un film intero, e inutilmente. Lui invece torna di continuo a quelle fontanelle sul Gianicolo, quei luoghi di clausura che intravedi, e dove non entri, il sogno dell’hortus conclusus.

Non c’è la bellezza in questo film. Non ci sono attrici strepitose, modelle scelte con la lente di ingrandimento, prelevate direttamente dalle campagne dei sacerdoti di questa dissoluzione: gli stilisti, o se preferite, i sarti. La più bella è Ramona, Sabrina Ferilli, che ha 50 anni. E muore di una malattia che non si sa, che non può curare.

Ai critici ha dato fastidio che Sorrentino non abbia puntato il dito su ogni cosa, non abbia indicato il nemico culturale e politico, non abbia raccontato con il plot. I critici non hanno capito che nella Roma a strati lui sta un po’ più sotto di loro, verso i riti più antichi, verso il punto originario di tutto. E per loro i giusti tributi a quella che è l’influenza, la tradizione culturale non è altro che «fare il verso», come dicono loro. E invece non è un verso, è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustav Le Bon. Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni e naturalmente degli imbroglioni che l’Europa potesse vantare.

In quelle vecchiaie sdentate de La Grande Bellezza non c’è bellezza, come non c’è bellezza in quelle feste, in quei personaggi patetici e stanchi, in quella via Veneto deserta che abbiamo visto tutti. E tutti, passandoci di notte, quando non non arrivano echi di niente, se non sguardi ammiccanti di buttadentro che sperano tu sia un turista buono per locali da lap-dance, abbiamo ricordato intere sequenze della Dolce Vita come servissero a scaldarci da quel gelo.

Non è quello che si è perduto a preoccuparci, è quello che è rimasto comunque ad affascinarci. E Sorrentino a farcelo entrare nella testa, a lasciarcelo dentro, come dice Bertolucci, è di una bravura stupefacente. Non ho usato il verbo raccontare, e l’ho fatto di proposito. Un’altra caratteristica del critico binario, del produttore binario, del capo delle fiction binario, del regista binario è questa: hai una storia da raccontare? Se hai una buona storia… Questa storia a un certo deve avere una svolta… Sorrentino non racconta storie, ti inietta il penthotal. E poi sono fatti tuoi. Il film non ha svolte. Mentre lo vedevo mi chiedevo se non potesse essere montato in cento modi diversi, se ogni dettaglio non valesse in sé. Come se l’anima del film potesse resistere a tutto, soprattutto ai precetti idioti che si trasmettono con religiosa competenza alle nuove generazioni: il ritmo, la svolta, la messa a fuoco dei personaggio, le sottostorie che nei film ci devono essere. E via dicendo. Non mi stupirebbe se qualcuno mi dicesse che nessuno ha mai scritto questa sceneggiatura. E non mi stupirebbe se Sorrentino un giorno dichiarasse: ho fatto questo film per raccontare Roma, la morte, e il vuoto. Punto. Come Eco raccontò di aver scritto Il nome della rosa perché voleva «avvelenare un monaco».

Che poi un film così complesso, che non può essere visto una sola volta, sia piaciuto all’Academy (e non solo a loro) è la dimostrazione che siamo noi dei provinciali. Noi che ancora pensiamo, attraverso un’ideologia bolsa e trita che ancora resiste anni e anni dopo la fine delle ideologie, che «gli americani» sono dei semplicioni, banali, capaci di vedere l’Italia come una cartolina svampita. Quando è sempre stato l’opposto: un tempo come oggi. Ma si sa, le nostre cattedre di storia del cinema nelle università erano quasi sempre tenute da gente che non andava più a ovest di Miklós Jancsó, e chi sa di cosa parlo capisce quel che dico.

In questo film sul vuoto, sul divino che alle volte sembra andarsi a svilire in una bellezza scheggiata, consumata dal tempo, in questo lungo viaggio dentro una perdita di identità che sta nelle cose, e non potrebbe essere altrimenti, oltre questa rassegnazione alla pochezza, non resta niente. Non resta la vita com’era, il diario della vecchia fidanza di Jep, la povera bellezza di Ramona, la grottesca potenza di Dadina, l’ipocrisia di Stefania, e via dicendo. Niente resta perché niente doveva restare. Neppure il mafioso del piano di sopra riesce a resistere. Solo quello spettacolo, fuori da quel terrazzo, di quel Colosseo che non è affatto l’Anfiteatro Flavio come tutti credono. Ma un luogo spolpato dalla storia, privato dei marmi, crollato per i terremoti, dimenticato, abitato da famiglie nobiliari che ci costruirono dentro case poi demolite, restaurato alla meglio perché non crollasse. Un luogo che è antico, ma è anche ricucito come si è potuto, immaginario di un passato, monumento che non ha neppure la forza di sorreggersi da solo. E soprattutto luogo sinistro, di sacrificio e perdizione. Così muore la carne, titolava Samuel Butler un suo grande romanzo postumo, sul sesso, sulla tragressione, un testo contro la sua epoca, l’epoca vittoriana. E Così muore la critica in questo italianissimo vittorianesimo culturale in cui viviamo, dove lo scandalo è nelle idee, e non nella dissoluzione; dove ci si vergogna ad argomentare e a rompere le righe più che a praticare pubblicamente una fellatio.

Sorrentino ha girato un film che è un punto di partenza per tutti quelli che avranno coraggio e avranno voglia di ricominciare davvero. Ha segnato l’anno zero dei prossimi tempi. E non posso che ringraziarlo per tutto questo.

Roberto Cotroneo




Napoletani regalano libri e nascono le prime librerie del baratto: 50 in tutta la Campania. Ecco dove

libriOltre 25mila libri donati con generosità dai cittadini campani, hanno dato vita nella regione a un progetto culturale e sociale organizzato da Legambiente in Campania. Ad oggi sono già state realizzate 50 librerie, Le librerie del Cigno, presso gli stabilimenti balneari delle località costiere, una libreria di 150mq nella Galleria del Centro Commerciale Auchan Argine a Ponticelli nella periferia di Napoli e 5 librerie negli Ospedali del Monaldi, Santobono, Ospedale di Gragnano e Ospedale Cardarelli.

“Ringraziamo i tantissimi cittadini napoletani e campani che hanno permesso in un anno di realizzare questa campagna  per promuovere la lettura in tanti luoghi, in primis nei reparti ospedalieri. Donare una libreria al Cardarelli , il più grande ospedale del Sud Italia, è un tassello che si aggiunge alla piena realizzazione del nostro progetto che è quello di donare una libreria per ogni ospedale della Regione – spiegano gli attivisti di Legambiente –  Le librerie si autogestiscono,  prevedendo per i pazienti la possibilità di prendere gratuitamente un libro e donarne uno già letto attraverso familiari e visitatori.

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Creatività allo stato puro nel museo dell’altro e dell’altrove

Paolo Buggiani

Paolo Buggiani

L’Italia dell’arte oltre che essere il paese dei campanelli è anche il paese degli acronimi: Macro, Maxxi, Gam, Gnam, Man, Mart, Mambo (non avranno per caso fondato anche il Rambo?), esiste perfino il Mat (Museo dell’Alto Tavoliere), si nascondono e si confondono nell’acronimato del vorrei-ma-non-posso. Insomma fanno tragicamente (o farsescamente) il verso al Moma.

Ce n’è però uno che si distingue da tutti gli altri: si tratta del Maam, del Museo dell’Altro e dell’Atrove di Metropoliz (via Prenestina 913, Roma).

Un non-museo, un laboratorio, un anti mortorio, un’area liberata e decontaminata dalla spocchia tipica dei santuari dell’arte moderna e contemporanea tipo “Arsenico e vecchi Morlotti”.

Qui al Maam, in uno scenario post-industriale sub-urbano catastrofale post-tangenziale pre-raccordo anulare che sarebbe piaciuto (per dirla con Petrolini) a Mad Max, qui nello scenario tipico dell’occupazione abitativa alternativa, l’antropologo Giorgio De Finis ha deciso di fondare un museo sui generis, un museo povero, di risulta, un museo all’aria aperta, in cui le opere d’arte sono destinate all’uso quotidiano dei residenti resistenti. Gli spazi comunitari, i saloni per feste sociali e per riunioni, l’area giochi per bambini, il pub, (ma anche le singole abitazioni: Pinacoteca Domestica Diffusa) sono arredati con pezzi autentici di anti-arte e anti-design, sono decorati con assemblaggi di oggetti modificati e riciclati, con pannelli dipinti da pennelli illustri, con installazioni attrazioni, con creazioni ad hoc (site specific direbbero quelli del Macro).

In giro per i viali e i corridoi, ti imbatti in eccentrici relitti, nei graffiti, negli stencil. Fai un viaggio sulle montagne russe nell’alto e basso, dimentichi il lusso delle Biennali, ti immergi nel flusso della street art.

Metropoliz è una grande fabbrica in disuso (Ex Fiorucci), un’enclave dove i colori, le bombolette, i piccoli (o grandi) gioielli di creatività gratuita, convivono naturalmente e senza forzature, con un popolo, per definizione ed emarginazione, lontano anni luce dal dorato “sistema dell’arte”. E’ un mondo alieno in cui i manufatti spuntano come i funghi dopo il temporale. Si sa che malgrado la loro apparente fragilità i funghi hanno una potente vitalità, ai margini delle strade li vedi perforare il manto d’asfalto, li vedi sollevare il terreno più refrattario. Lo stesso dicasi per queste espressioni di una creatività che si presta alla collettività, al meticciato, alla connettività e non alla competitività. Una creatività che non si arresta di fronte a niente e a nessuno. Che se ne frega della propria deperibilità, anzi se ne fa un vanto.

Il Maam è un oggetto totale, un laboratorio mentale, un anti museo basato sull’economia del dono e sul fatto che l’arte non è e non deve essere appannaggio esclusivo di un sacerdozio laico che si arroga il diritto di custodirne i segreti e i riti.

Finora si sono uniti all’impresa tra gli altri: Cesare Pietroiusti, Gianni Asdrubali, Paolo Assenza (che ha realizzato la bandiera che sventola sull’area), Rub Kendy (a cui si deve la meridiana), Maddalena Mauri, Massimo Di Giovanni, Massimo Iezzi, Lucamaleonte, Diamond, Alice Pasquini, Massimo Attardi, Borondo, omino71, Opiemme, Gio Pistone, Cristiano Petrucci, Cristiana Pacchiarotti, Sten & Lex, Hogre etc etc. Da segnalare la delicata stanza floreale di Micaela Lattanzio, un’oasi di leggerezza e fragilità di rara intensità, nonché le fotografie della Pinacoteca Domestica Diffusa del Maam realizzate da Carlo Gianferro. Le undici opere che Franco Losvizzero produrrà durante una sorta di autoreclusione, nutrito e accudito dagli abitanti di Metropoliz.

De Finis, da buon antropologo e agitatore culturale, sa bene quanto l’arte sia per definizione prerogativa del genere umano in quanto tale e non solo di un’accolita di illuminati acculturati. Sa che l’uomo si distingue dalle altre specie proprio per la propria creatività. La sopravvivenza stessa è creatività. Metropoliz, che ospita il Maam, è sopravvivenza allo stato puro e quindi, per discendenza diretta, è anche creatività. Senza se e senza ma.

Ma c’è un “ma”. E’ il rischio che prima o poi vengano a sgombrare.

Vengano a disoccupare con le ruspe. Caccino tutti e buttino giù tutto, magari per farne un ipercentro commerciale.

E allora è un bene che l’arte serva a qualcosa di utile come fare da schermo di protezione, da corazza, da difesa preventiva di un’isola cittadina in cui la vita si mescola alla fantasia senza prosopopea.

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La sedia elettrica dell’assessore. Lettera aperta a Flavia Barca

"una scatola vuota"

Una lettera aperta sul passato prossimo, sul presente indicativo e sul futuro condizionale del Macro. Scritta dall’artista e critico Gian Maria Tosatti. E ci auguriamo che l’assessore al Comune di Roma, Flavia Barca, non tanto risponda, piuttosto si attivi.

A vederla sbagliare tutte le mosse vien da pensare che la coerenza non sia, per forza, un valore. Si parla dell’assessore Flavia Barca, ascesa al soglio culturale romano priva di quei meriti e di quelle medaglie conquistate sul campo che si pretenderebbero da chi ambisce a gestire il più vasto patrimonio culturale concentrato in una sola città del pianeta Terra. La responsabilità della nomina, invero, sarebbe del sindaco Marino che, non avendo visione, si è fatto indirizzare, alla vecchia maniera, dagli equilibri di maggioranza (salvo poi ritrovarseli contro). Tuttavia, farebbe piacere talvolta ascoltare un “domine non sum dignus” da parte di chi avrebbe più la ragionevolezza che l’umiltà di non assumersi compiti riguardo ai quali non tarderà a dimostrarsi inadeguato.
Sarebbe stato fin troppo duro se questo mio commento fosse giunto all’indomani della nomina, ma dopo circa nove mesi di paralisi dell’amministrazione su tutto ciò che attiene alle arti, ho la coscienza a posto nell’esprimere, senza sconti, la mia opinione di tecnico.
Il mio, in realtà, non vuol essere un attacco, ma un contributo. All’assessore Barca consiglio, infatti, di cuore, di fare quel che in questi mesi non ha avuto la sensibilità di fare, ossia di uscire dal proprio ufficio e andare a conoscere approfonditamente tutte le realtà culturali buone e cattive, virtuose o parassitarie che compongono la complessa cosmologia della cultura romana. Facendolo, forse, capirà qual è la strada per superare un immobilismo che in tempi di crisi è doppiamente colpevole sia sul piano economico che politico.
La ragione che oggi mi porta a scrivere nel merito di questo tema, dopo aver disertato il dibattito culturale della mia città per mesi, è stata la lettura di un’intervista, apparsa sulCorriere della Sera, proprio all’assessore Barca, in cui si parla di un ruolo importante di Enel nella futura gestione del Macro.
Se, infatti, una pecca c’è stata nella gestione del Macro in tutti questi anni, è stata proprio l’eccessiva interferenza di soggetti privati (gallerie o aziende), e dei loro interessi, nella programmazione del museo. Una interferenza che, in virtù di un contributo economico, finiva per essere libera da ogni vincolo scientifico nella scelta delle opere e dei progetti, arrivando a risultati grotteschi, come quello di scambiare un museo d’arte contemporanea per un lunapark. Finché non marcirà, il Big Bamboocontinuerà a gridare vendetta a quel cielo che sembra trafiggere ogni giorno con le sue canne al vento. Come anche i tappetoni elastici attualmente montati nel cortile, che avrebbero meglio figurato al Luneur che al Macro. E quando è andata meglio, invece che in una giostra, l’Enel ha trasformato il Macro in un giardino botanico, come fu per l’installazione delle farfalle di qualche anno fa. Inutile dire che se si volevano portare le farfalle al Macro, sarebbe bastato fare quel che fece Gagosian Roma con Damien Hirst, una piccola mostra che allora batté il museo 10 a 0.

Doug e Mike Starn, Big Bambú - MACRO Testaccio, Roma 2012

Doug e Mike Starn, Big Bambú – MACRO Testaccio, Roma 2012

In ogni modo, il problema è molto semplice ed è bene che lo si dichiari: a Enel, oltre all’arte contemporanea, verso cui ha mostrato in questi anni un lodevole interesse,  piacciono anche molto le giostre e i parchi divertimenti. Bene, direte voi, l’importante è che non si faccia confusione con le due cose. Se l’intento ludico piace, abbia l’amministrazione la bontà di dare all’ex Ente Nazionale per l’Energia Elettrica la gestione del vecchio lunapark dell’Eur, non del Macro.
Un museo d’arte contemporanea è un’altra cosa. È una infrastruttura strategica per la civiltà di un popolo, non un luogo di svago. Lo si lasci in povertà piuttosto che agghindarlo con ridicole baracconate. Lo si lasci nella povertà in cui l’arte non ha mai avuto difficoltà di fiorire, una povertà dignitosa che esalta l’intelligenza e la creatività.
Esempi non ne mancano proprio a Roma. Mi verrebbe da citare il Teatro Valle, che però, pur capace di una programmazione notevole, è reo di non aver ancora mai proposto un convincente piano di gestione economica che possa mettere a tacere le critiche strumentali, superando nei fatti e non solo nelle intenzioni la fase dell’occupazione. Ma ancor più calzante è l’esempio del MAAM, citato qualche giorno fa con le stesse intenzioni da Giuseppe Gallo in una lettera scritta a La Repubblica. Stiamo parlando di un museo creato senza un euro, solo con la passione e la serietà divGiorgio de Finis e con la collaborazione di tutta la scena artistica romana. Un museo senza soldi ma con molte idee e soprattutto con una grande consapevolezza di quale debba essere oggi il rapporto fra arte e società. La cultura come strumento reale di superamento dei conflitti che quotidianamente dilaniano il tessuto civile di una metropoli cresciuta male come Roma, è stata la bandiera di questa iniziativa finita addirittura sulNew York Times.
Di fatto il MAAM è già il museo d’arte contemporanea della città. Se non altro perché è l’unico museo che vive nella contemporaneità, divenendo elemento dialettico e altamente politico, che trasforma e migliora, che generà comunità e dialogo non solo tra chi l’arte già la apprezza o la fa, ma soprattutto tra coloro a cui l’arte può realmente aprire mondi. Ecco perché al MAAM nessuno dice mai di no, me compreso, anche se non ci sono soldi.
Se l’assessore (alla cultura, ribadisco) avesse, nella sua necessità di conoscenza e monitoraggio, seguito l’esempio di Pasolini e avesse girato “per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone” in cerca delle energie già attive nella sua città, e se fosse passata magari anche per la Prenestina, dove si trova il MAAM, forse le sarebbe venuto in mente di portare quell’esperienza periferica (che però sta girando il mondo) nel cuore stesso delle istituzioni culturali, per cambiarle, per svecchiarle, per riattivarle. Ammetto di aver augurato alla mia città di avere Giorgio de Finis alla direzione del Macro. E penso che, se l’assessore avesse avuto un po’ di intelligenza politica, avrebbe capito che quella sarebbe stata una mossa capace di farle stringere un patto con la scena culturale romana, dando sostegno alle attività migliori di un tessuto culturale che comunque continua a evolversi con o senza la benevolenza delle istituzioni. Sarebbe stato certo un patto temporaneo, in attesa che il museo diventi una fondazione autonoma capace di darsi una governance e di trovare un direttore tramite un vero concorso internazionale. Il patto, invece, l’assessore pare abbia premura di stringerlo con Enel, facendogli trasformare il Macro in quello che rischia di diventare un museo aziendale. Una mossa coerente, come si diceva in apertura, con quanto fin qui si è avuto modo di vedere, ma una mossa radicalmente sbagliata.

Carsten Höller, Double Carousel with Zöllner Stripes - MACRO, Roma - courtesy Enel Contemporanea e l'artista

Carsten Höller, Double Carousel with Zöllner Stripes – MACRO, Roma – courtesy Enel Contemporanea e l’artista

Non si pensi a chi scrive come a qualcuno contrario alla presenza dei privati nella gestione delle risorse pubbliche. Ma si badi bene che è essenziale non rovesciare l’ordine dei valori se si vuol operare con profitto. Non è la presenza di sponsor a decidere la prosperità di un museo. È la qualità della proposta artistica a portare prestigio all’istituzione ed è a seguito di tale prestigio culturale che si generano rapporti solidi di fiducia con sponsor e donatori. Se c’è una progettualità di qualità, d’eccellenza e, diciamolo pure, d’avanguardia (che in un museo d’arte contemporanea non guasta), allora Enel – che è un’azienda fatta di teste pensanti – avrà tutto l’interesse a partecipare comunque, a dare il suo contributo in termini economici, avendone in cambio la necessaria visibilità. E così sarebbe anche per i collezionisti, che potrebbero impreziosire con prestiti e donazioni una collezione che attualmente non è degna nemmeno di un museo di provincia. Ma ragionare all’inverso, pensare prima agli sponsor e poi (di conseguenza!) ai progetti rivela una condotta ingenua, miope, che nessuna comunità culturale potrà mai appoggiare.
L’assessore può certamente fare il suo Macro a dispetto della città come ha fatto fin qui, trasformandolo in un museo senza arte e senza artisti. L’arte continuerà a farsi altrove. Non è mai stato un problema. Ma quando un amministratore viene “mollato” dalla sua comunità di riferimento, qualcuno vuol forse dirmi in virtù di cosa quella comunità dovrebbe continuare a pagargli lo stipendio? Glielo paghi Enel.

Gian Maria Tosatti

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