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Elezioni amministrative 2016. Quale cambiamento?

Sala-consiliareSe 771 mila romani su un milione e 147 mila elettori, che consegnano una scheda votata validamente, decidono di affidare l’amministrazione del Campidoglio ad una esponente del M5S, significa che qualcosa di molto profondo pervade la società. E non riguarda solo Roma ma l’intero Paese. È vero, a Roma c’è stato lo scandalo di Mafia Capitale e il fallimento della giunta Marino. Ma da soli, questi elementi non bastano a spiegare quanto è avvenuto.  Già nel 2013 si erano manifestate le avvisaglie del ciclone. Non era mai accaduto che una forza politica alla prima esperienza elettorale raggiungesse il 25,5 per cento dei voti. Un consenso uniforme su tutto il territorio nazionale e proveniente da elettori di destra e di sinistra, da comuni ricchi e da quelli poveri, dalle grandi città e dai centri più piccoli e rurali. Un consenso proveniente dai giovani in misura maggiore rispetto al Pd e al Pdl che non a caso persero meno dove c’erano più vecchi. Al successo del M5S corrispose la scomparsa dei partiti identitari della Prima Repubblica e il serio ridimensionamento dei principali partiti sorti nella Seconda.

Poi è arrivato Matteo Renzi con le riforme istituzionali più alcune misure innovative sul terreno socioeconomico, messe a punto dal suo governo. E si è ravvivata la speranza. Già alle europee del 2014 sembrava che il PD avesse ripreso il suo percorso di cambiamento. Ma era un abbaglio. Era il canto del cigno. Qualcosa di molto simile a quanto capitato al PCI in occasione delle elezioni europee del 1984 sull’onda emotiva della morte improvvisa di Enrico Berlinguer. Non c’è da meravigliarsi se fino a qualche decennio fa i partiti duravano settanta anni e oggi meno di dieci.

Cosa non ha funzionato?

Il cambiamento ha bisogno di facce nuove e di politiche nuove che nascono da processi sociali che partono concretamente dalle comunità territori. Altrimenti l’elettorato s’accontenta delle facce nuove e non bada alle proposte. Non già perché sono di destra o di sinistra, ma perché non le avvertono come qualcosa che nasce nel dialogo che le comunità territori organizzano e orientano. Una politica è giusta non perché è astrattamente razionale ma perché nasce da esigenze reali. E tali esigenze devono essere lette con idonei strumenti. Una politica è giusta se viene sperimentata e monitorata socialmente, organizzando in modo scientifico l’analisi dei suoi impatti sociali con il coinvolgimento sistematico delle comunità territori.

Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la giustizia sociale non è frutto di una teoria ma di un metodo. E il metodo è l’organizzazione dell’analisi sociale con la partecipazione democratica delle comunità territori. È per questo che i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno più senso se restano come sono. E la gente li percepisce e sempre più li percepirà come un intralcio e una zavorra.

Queste strutture nascono con la società di massa quando erroneamente si pensava che la giustizia sociale fosse frutto di una teoria o di un’ideologia e che le soluzioni derivassero da una razionale applicazione di ricette astrattamente e collettivamente elaborate sulla base di un progetto organico di società. Ma oggi anche la politica e non solo la sfera religiosa è stata inondata da una inarrestabile secolarizzazione e laicizzazione. Restano evidentemente i valori di libertà e di eguaglianza ad orientare l’approccio ai problemi. Ma questi sono appunto semplicemente dei valori che ci caricano e motivano sul piano etico ma non ci offrono in sé alcuna soluzione ai problemi. Da ricercare, invece, laicamente, con il dialogo paziente e l’ascolto reciproco.

Cosa cambiare allora?

Intanto, bisogna completare alcuni cambiamenti già avviati, scongiurando ripensamenti e arretramenti che ci farebbero tornare indietro. La riforma costituzionale va, dunque, confermata al referendum perché è attesa da decenni. Essa chiude la fase dell’instabilità dei governi e apre quella di una democrazia decidente, che si può realizzare solo rendendo più efficaci le funzioni dell’esecutivo e quelle legislative e di controllo del Parlamento. È bene semplificare il percorso per fare le leggi, superando il bicameralismo paritario che è causa di lentezze ingiustificabili. E poi non se ne può più dell’eterno conflitto tra Stato e Regioni che ritarda ogni decisione importante per i cittadini. È giusto, dunque, eliminare le competenze concorrenti tra Stato e Regioni e dare dignità costituzionale alle autonomie con il nuovo Senato.

Inoltre, i risultati elettorali dimostrano che il sistema maggioritario permette effettivamente il cambiamento – almeno quello che si realizza con l’alternanza di facce nuove – e non è affatto un modello che perpetua le rendite di posizione e il potere di chi già ce l’ha. La riforma costituzionale e l’Italicum, dunque, non sono affatto l’anticamera del fascismo ma costituiscono opportunità concrete per ricambiare i gruppi dirigenti del Paese.

Tuttavia, il cambiamento non è soltanto governabilità e facce nuove. È anche fatto di politiche nuove che permettano ai cittadini di migliorare le proprie condizioni di vita. E dunque si parta dalla sussidiarietà nei rapporti tra cittadino e istituzioni e tra i diversi livelli istituzionali, principio quest’ultimo introdotto nella riforma costituzionale del 2001 e non ancora attuato. Si dia all’individuo la possibilità di levarsi la veste di suddito e indossare quella di cittadino e così edificare da protagonista, dal basso e con vero spirito federalista, insieme agli altri cittadini, un’articolazione variegata degli istituti della democrazia, dalla comunità autogovernata di strada e di quartiere in cui vive e dal diversificato tessuto della società civile in cui opera al municipio metropolitano che deve poter acquisire la dignità di Comune, dal Comune piccolo o grande che deve volontariamente associarsi con altri per gestire funzioni complesse, alla Regione che deve dismettere improprie funzioni di gestione ed esercitare solo quelle di programmazione, dallo Stato che deve acquisire efficienza, semplicità e capacità di orientamento agli Stati Uniti d’Europa la cui utopia rimane, per ciascun europeo, la prospettiva concreta e realistica affinché si realizzi finalmente lo “status” di cittadino del mondo.

Ma queste proposte resteranno bei proponimenti senza alcuna possibilità di realizzazione, se non si introducono nel dibattito pubblico due riforme da fare urgentemente: quella dei partiti e quella delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, che oggi costituiscono un blocco all’innovazione. I partiti devono diventare, con un’apposita legge, case di vetro capaci di accogliere tutti coloro che ne condividono programmi e regole. E le organizzazioni di rappresentanza degli interessi non devono temere che una legge dello Stato le regolamenti come lobby. Finendola una volta per tutte con la pretesa di rappresentare, contestualmente, interessi particolari di una categoria o di un gruppo e un interesse generale che inevitabilmente può entrare in conflitto con le esigenze di una cerchia ristretta di persone. C’è già il Terzo Settore che, con la riforma appena varata, dovrà mettere insieme e sviluppare esclusivamente le forme associative che sono tenute a svolgere – costituzionalmente – attività di interesse generale. I partiti, invece, sono per definizione delle parzialità che devono formare nuovi gruppi dirigenti da lanciare nelle consultazioni elettorali e devono saper intercettare i bisogni sociali delle comunità territori per elaborare politiche efficaci. Le lobby, a loro volta, devono dichiarare con precisione gli interessi che rappresentano e intendono tutelare, le risorse che utilizzano per farlo e sottoporsi a procedure trasparenti nel loro rapporto con le istituzioni. Nel frattempo, sia gli uni che le altre potrebbero autoriformarsi e contribuire spontaneamente al cambiamento. Altrimenti si prospetterà inevitabilmente per loro un destino di irrilevanza e marginalità. E la società civile, con le sue immense e vivide risorse, operanti spesso nel silenzio senza ricercare visibilità e contropartite, si abituerà a farne a meno e inventerà altre forme per supplirne le funzioni.

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



“L’Unione economica e monetaria” (I)

Il Preambolo del Trattato sull’Unione europea, con il suo tono (apparentemente) solenne e rassicurante (che i lettori e le lettrici di Diario hanno imparato ormai a riconoscere e interpretare) afferma: “Decisi a conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie e ad istituire un’Unione economica e monetaria che comporti, in conformità delle disposizioni del presente Trattato e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, una moneta unica e stabile”.

(Brexit alle porte?)

I lettori e le lettrici di “Diario” , forse si chiederanno e chiederanno anche a chi scrive: “ma con la possibile Brexit alle porte, volgiamo addentraci su un tema del genere”?.

Diario – nella sua ‘finestra’ del 16 Febbraio 2016 “Europa e Gran Bretagna”- ha analizzato dettagliatamente l’Accordo tra G.B. e Unione Europea finalizzato a concedere alla stessa una sorta di Statuto Speciale di membership: una non-soluzione, per consentire all’attuale Governo inglese di far fronte alla tempesta referendaria. Una “non-soluzione”, appunto, che tuttavia poteva (e può) anche configurare – per la prima volta in questi termini pesanti ed espliciti – un grado specifico di ‘integrazione differenziata’ (così precisamente scrivevamo in Diario) e nello stesso tempo, e dare anche una spinta per accelerare la stagione di una profonda riconsiderazione del processo di Unità europea che tenga insieme i due Poli. Successivamente – nel precedente Diario – commemorando i trent’anni della morte di Altiero Spinelli, osservavamo: L’occasione del profondo rimescolamento cui è sottoposta l’attuale costruzione europea, offerta del referendum inglese dei prossimi giorni (a prescindere dal suo esito), può e deve costituire anche l’occasione per uno ‘stop and go’ della globale filosofia di Unità.

Eccoci, dunque, al momento opportuno e necessario! Alla vigilia del D-day del 23 giugno 2016, Diario dedica al referendum britannico questa riflessione dell’ambasciatore Romano: “Direi che la Gran Bretagna, se uscisse dall’Ue, correrebbe i rischi maggiori rispetto agli altri Paesi membri. Ma sarà bene non sottovalutare il rischio “sfiducia” dei mercati e delle opinioni pubbliche. Per far fronte, esiste una contromossa che consiste nel rispondere all’uscita dalla Gran Bretagna con una coraggiosa iniziativa europeista” (Il Corriere della Sera, 7 giugno 2016).

(Il compito e l’ora)

E chi dovrà essere ad assumersi questo compito? Dovranno essere i Paesi membri che hanno il vincolo/opportunità della moneta unica. In primis, tocca alla “zona Euro” assumersi l’onere e il dovere – di fronte ai popoli europei ed anche al mondo- di prendere in mano il destino di Europa e condurla nella Storia. “Sono un convinto anglofono – afferma Piero Ottone, sul Corriere del 4 giugno – e non riesco a immaginare una UE senza l’Inghilterra; ma nello stesso tempo penso che soltanto uno choc potrebbe convincere i Paesi dell’Unione a fare quello che finora non hanno fatto”.

Dobbiamo concentrarci sull’accelerazione delle riforme necessarie per rilanciare la integrazione dell’Unione, subito! Il primo compito è: “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa”. Le virgolette, ricordano che si tratta di un titolo del documento/impegno – massimamente autorevole – preso dai cinque presidenti in carica nell’attuale Unione Europea: Jean-Claude Juncker della Commissione europea, Donald Tusk del Consiglio europeo, Mario Draghi della Banca centrale, Jeroen Dijsselbloem dell’ Eurogruppo, Martin Schulz del Parlamento europeo, nella relazione del 22 giugno 2016. Di che si tratta?

(L’antefatto)

Completare il lavoro già iniziato. Per comprendere meglio il tutto, dobbiamo tornare, un attimo indietro nel tempo, a Maastricht, cittadina olandese. Potrebbe risultare utile una brevissima contestualizzazione temporale, che facciamo utilizzando “ L’Inchiesta: come è nata la crisi UE”, di Andrea Bonanni (la Repubblica, 30 maggio e a seguire), che consiglio ai lettori e alle lettrici, per comprendere meglio alcuni semi originari dell’attuale crisi della integrazione europea. Scrive Bonanni: Siamo nel dicembre 1991. Da poche ore; l’Unione Sovietica si è sciolta. La Germania è riunificata da un anno. La Jugoslavia non esiste più. In Croazia si combatte e si uccide. L’Est europeo si misura con la scoperta della democrazia. (…) Oggi Maastricht è iscritto nel museo della memoria europea come il vertice che mise la basi della Unione monetaria, fissandone la data di nascita al 1 gennaio 1999 e definendo i famigerati parametri in materia dei conti pubblici”. Prima ancora, i lettori e le lettrici di Diario ricordano certamente anche altre date fatidiche: 9 novembre 1989 (inatteso crollo del muro di Berlino) e i successivi undici mesi cruciali entro i quali con un’accelerazione straordinaria e non prevista si arriva alla riunificazione della Germania (3 ottobre 1990). (Per una ulteriore contestualizzazione, anche di tipo strategico-politico, si veda: Mario Campli, Europa, ragazzi e ragazze riscriviamo il sogno europeo, Marotta &Cafiero, 2014; pp. 110-124).

La risposta politico-strategica alla riunificazione della Germania e contestualmente al sommovimento globale dell’area post-sovietica fu da una parte la riunificazione delle due Germanie, dall’altra il nuovo ‘Trattato dell’Unione Europea’ con dentro la Unione economica e monetaria. In quegli anni (1989-92) veramente – senza retorica – è stata fatta la Storia europea, con il coinvolgimento attivo ed esplicito delle nazioni che erano state coinvolte nella seconda guerra mondiale. E si trattò di un coinvolgimento politico e strategico non indolore. Nikita Chruscev (prego i lettori e le lettrici giovani di consultare Internet) era stato molto chiaro quando era al potere dell’impero sovietico: “La frontiera delle due Germanie è una frontiera che è stata tracciata con la guerra e solo una guerra potrebbe cambiarla”. La Russia di Corbacev, invece, non oppose alcuna resistenza. Nessuna guerra fu minacciata. Gli USA parteciparono in prima persona, attraverso il suo Segretario di Stato James Baker al processo storico, negoziando direttamente – sia per la riunificazione/annessione sia per la successiva adesione alla NATO della nuova Germania riunificata – i passi del nuovo assetto dell’area, strategico per l’intero occidente.

Ci dispiace, invece, dover sottolineare – da “vecchi” europei che vengono da un percorso di Unità iniziato nel 1950 – che furono proprio i Governi degli stati membri dell’allora Comunità Europea a non raccogliere completamente la sfida della storia. “Si arriva così al 30 settembre 1991, il lunedì nero dell’Europa, secondo i ricordi dei diplomatici olandesi. Nel corso di una riunione dei dodici ministri degli esteri dei Governi dei dodici Paesi membri convocatisi per discutere del nuovo “Trattato” (da cui nascerà la Unione Europea) la proposta della presidenza di turno, l’Olanda, di comunitarizzare oltre che la moneta, anche la politica estera, la difesa e la giustizia riceve solo due voti: Olanda e Belgio. La Germania si schiera con la Francia. L’Italia si adegua” (Andrea Bonanni, vedi sopra). Cosa era accaduto nei mesi di faticosi incontri e discussioni? Era intervenuto una serie interminabile di contorcimenti, sotto gli occhi increduli di Russia e America, stupiti che gli Europei stavano mancando l’appuntamento a cui avevano dedicato anni ed anni di faticoso cammino (dal famoso discorso a Parigi di R. Schuman il 9 maggio 1950). Sta di fatto che ad una apertura della Germania di H. Kohl pronto a mettere a disposizione l’abolizione del marco e anche l’opzione della Unione politica, la Francia di F. Mitterand preferì mantenere nazionalizzate tutte le politiche strategiche (Difesa, Esteri, Fiscalità comune, Debito sovrano europeo) illudendosi che la sola “moneta unica” (con la soppressione del marco) avrebbe potuto reggere la sfida della navigazione in mare aperto della la sorgente globalizzazione dell’economia e delle Comunicazione (Internet). Nell’insieme si era verificato anche un circuito – piuttosto usuale nella storia europea- di scarsa fiducia vicendevole: la Germania, ad esempio procedette al riconoscimento unilaterale della indipendenza della Slovenia e di Croazia, innescando la guerra in Jugoslavia; pure il Vaticano fece la sua parte: all’inizio della crisi dello Stato Jugoslavo, il papa polacco aveva attivamente favorito la secessione della Croazia cattolica a scapito della Serbia ortodossa (cfr. Sergio Romano, “Fra cattolici e ortodossi…”, in Corriere della sera, 12-6-2016). A seguire alcuni colpa di coda: la Germania, non avendo comunitarizzato la politica economica, pretese i famosi “parametri di Maastricht”, per vincolare i bilanci nazionali a rigorose regole di austerità; la Gran Bretagna aggiunse (as usual) il suo veto a qualsiasi “politica sociale europea”.

(Euro, soluzione incompleta)

L’affermazione “soluzione incompleta” è di Mario Draghi presidente della Banca Europea. Il Film della crisi economica e finanziaria – peraltro importata dagli USA – ha successivamente (2007-08) mostrato senza equivoci di sorta, che la moneta da sola, e per giunta “senza un sovrano” certo e indiscusso (la Unione politica,) non può reggere la sfida né dello sviluppo armonico di economie e società diverse e ancora ‘nazionali’, mentre tutte le leve di una normale politica economica e finanziaria e la impostazione di una coerente politica economica di crescita e sviluppo restano affidate a strumenti e congegni di “coordinamento” (vedasi art. 5-6 del T.U.E.). “Com’e possibile continuare a mantenere una moneta unica, con diciotto politiche economiche diverse, con diciotto politiche del debito pubblico, con diciotto politiche di bilancio, con diciotto mercati del lavoro, ecc. E che dire di una Banca centrale, lasciata sola a difendere la moneta, nel contesto appena ricordato e senza gli strumenti normali di altre banche centrali del mondo?” (Carmelo Cedrone, Dove va l’€uro?, Edizioni Nuova Cultura, 2013).

(Le tappe)

Bruxelles 21 ottobre 2015, La Commissione europea – dopo la Relazione dei cinque Presidenti – in qualche modo (!) espressione del “sovrano” (l’attuale Consiglio Europe) – invia al Parlamento ed ai Governi, alla Banca Centrale (ed alla società civile europea) una formale “Comunicazione” per delineare le tappe del completamento della U.E.M. Ma, attenzione, senza poter (non avendo questo input da parte dei Governi degli Stati membri) mettere mano a nessun altra riforma che delinei le forme e le istituzioni proprie di una “Unione politica”.

Nell’esame sul tema del “completamento” della Unione economica e monetaria vi sono molti passaggi di natura e consistenza specialistica e anche tecnica che non è utile affrontare per non appesantire la lettura, paziente e generosa, dei lettori e delle lettrici di Diario. Farò, peraltro, molto riferimento al lavoro condotto dai rappresentanti della Società civile europea nel Comitato Economico e Sociale Europeo, in quanto è – allo stato attuale l’organismo istituzionale (indipendente) dell’Unione che il Trattato chiama ad “assistere” le prime tre Istituzioni della UE (Parlamento, Consiglio, Commissione- art. 13, comma 4).

La Comunicazione della Commissione sulle Tappe verso il completamento (COM 600, del 21 ottobre 2015) aveva il compito di dare una concretezza operativa e di percorso legislativo al documento politico dei cinque presidenti, onde evitare che restasse ‘lettera morta’, come era già accaduto ad un analogo pronunciamento dei 4 presidenti nel 2012, ingnorato del tutto dalla Commissione stessa, allora presieduta dal portoghese Barroso. Bene, dunque, che la Commissione – Junker si sia assunto la responsabilità politica di avviare un vero e proprio percorso legislativo. Nel merito essa presenta una configurazione prevalentemente fragile.

I punti di forza sono: forzare il fronte degli Stati membri che manifestano tiepidezza e anche contrarietà alle riforme; l’attenzione alla Unione finanziaria nelle sue diverse articolazioni; il completamento della Unione bancaria, con la imprescindibile esigenza della garanzia europea dei depositi; l’Unione dei mercati dei capitali, affinché i risparmiatori/correntisti, i contribuenti europei in riferimento ai debiti delle banche, gli investitori e le imprese che operano sui mercati finanziari poco trasparenti e poco diversificati siano tutelati dentro un quadro di regole europee e relativi controlli incisivi. In questo ambito, grave risulta la mancata obbligatoria differenziazione e separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Limitata ma utile e positiva è anche la introduzione della “Rappresentanza esterna unificata” dell’UEM, per consentire un dialogo strutturato ed istituzionale tra zona euro- come entità unica- verso il Fondo monetario internazionale (considerando che allo stato attuale la “zona euro” non è dotata di un analogo Fondo Monetario Europeo).

I punti di debolezza, invece, sono molto seri e tutti di natura politico-strategica. “Si continua a perseverare e far credere, ad esempio, che: a) il problema nella UEM sia solo una questione di rispetto delle regole di “contabilità”; b) la ‘governance’ economica si risolva solo con un “coordinamento”; c) la sostenibilità macroeconomica e finanziaria dell’Eurozona sia solo un problema di trasparenza; d) la gravissima questione della disoccupazione possa essere affrontata con proposte sollo “formali”, come si fa da anni (….) Le gravi conseguenze sociali provocate dalla disoccupazione non trovano nessuno strumento di solidarietà e non si capisce che cosa si voglia intendere per “pilastro europeo” dei diritti sociali (forse quelli esistenti già – molto diversificati e spesso fragilissimi- nei Paesi membri?)” (cfr. Parere del Comitato Economico e Sociale Europeo, ECO/394, del 17 marzo 2016, del relatore, consigliere Carmelo Cedrone).

Ma la parte ancora più debole è quella relativa alla “legittimità democratica”. Afferma, coerentemente il relatore del CESE, Carmelo Cedrone: “Se ne parla in mdo molto superficiale ed approssimativo, quando invece è il cuore di tutto, e l’essenza del dibattito e delle preoccupazioni dell’opinione pubblica europea: e da qui che passa il futuro dell’eurozona e della UE”. La Commissione rinvia, dunque, ad una “Fase 2” ed a un “Libro bianco” a fine 2017.

Con tutta evidenza, siamo di fronte ad una gravissima sottovalutazione della gravità delle situazione politica dell’Unione, di fronte alle pulsioni antieuropeiste, dalle svariate forme. Oppure dobbiamo “capire” che prima delle elezioni in Francia e in Germania, nessuna vera apertura del dibattito sulla ‘Unione politica’ potrà cominciare? E, dunque, l’attuale Unione e i 27 ( utti, meno la UK) Paesi membri non hanno ancora nessuna “Ipotesi di ripartenza” all’indomani del referendum britannico? Non possiamo crederlo e non è così! Già ora molte analisi e anche precise proposte sono state espresse. Dobbiamo attendere – come diceva sopra Piero Ottone- uno choc per convincere i Paesi dell’Unione a fare quello che finora non hanno fatto”?

Una seconda puntata sul “Completamento” (II) della Unione economica e monetaria-Pilastro politico, sarà per dopo referendum.

Diario, oggi, si ferma qui. Il 23 giugno – Giovedì – torneremo ai lettori e alle lettrici, direttamente da Londra, per commentare Brexit/Remain.




23 maggio 2016 – Ventotene, isola d’Europa

Trent’anni fa – il 23 maggio 1986 – in un clinica romana si spegneva Altiero Spinelli, che oggi riposa nell’isola di Ventotene. Quando era ancora in vita, poco più che trentenne, il giovane Altiero, era già stato nell’isola, prigioniero confinato dal regime fascista. E nel corso del 1941, insieme a Ernesto Rossi, vi scrisse: “Per un’Europa libera e unita-Progetto d’un Manifesto”. Il testo apparve, pubblicato clandestinamente, a Roma con il titolo: “Problemi della federazione europea” (insieme ad altri scritti dello stesso Spinelli), con le iniziali delle firme “A.S. ed E.R.”, curato da Eugenio Colorni, il 22 gennaio 1944, per le edizioni del Movimento italiano per la Federazione Europea.
Scrive Colorni, nella sua prefazione: “I presenti scritti sono stati concepiti e redatti nell’isola di Ventotene, negli anni 1941 e 1942. In quell’ambiente d’eccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina (…) la lontananza dalla vita politica concreta permetteva uno sguardo più distaccato (…) ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici (…) o in una generica immaturità della situazione, quanto in insufficienze dell’impostazione generale (…) con troppo scarsa attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà” (cfr. AA.VV., “Ventotene, un Manifesto per il futuro”, manifestolibri, 2014).

E’ interessante portare all’attenzione di lettori e lettrici odierni, le valutazioni che faceva quest’altro giovane italiano di trenta cinque anni – Eugenio Colorni – in piena guerra, sotto occupazione nazi-fascista, ed il linguaggio e i termini stessi, usati mentre si accingeva, mettendo a rischio anche la sua vita, a pubblicare uno scritto, una analisi, un sogno. Senza dimenticare che, pochi mesi dopo, sempre a Roma, la domenica 28 maggio 1944, il giovane Eugenio – mentre si recava ad una riunione clandestina, per organizzare la Brigata Matteotti (con i suoi compagni di lotta, Leo Solari e Mario Matteotti) , venne fermato dalla pattuglia della Banda Koch, nei pressi di piazza Bologna e gravemente ferito. Ricoverato all’ ospedale di S. Giovanni, muore due giorni dopo, martedì 30 maggio (cfr. Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo”, Editori riuniti university press, 2014). IN questi giorni di maggio, anche a questo giovane va la nostra memoria e la nostra gratitudine.
Tra un confino fascista, dunque, e i colpi assassini di una banda criminale, al servizio di un regime fascista e dell’occupante nazista, inizia il cammino del “Progetto di manifesto” – frutto di una speranza indomita di una giovane, indimenticabile generazione. “ L’Europa non cade dal cielo”, avrebbe poi titolato, un saggio (edito da Il Mulino molti anni dopo -1960), l’uomo adulto – Altiero Spinelli – politico ormai noto e, già, protagonista di molte battaglie.

L’eco delle parole usate dal giovane Colorni, ci mette dinanzi ad un film che conosciamo; rileggiamole: “ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici”; “ o in una generica immaturità della situazione”; “quanto in insufficienze dell’impostazione generale”; “con troppo scarsa attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà”.

Ci appare, improvvisamente, il film della crisi odierna di questa Unità Europea incompiuta e bloccata! Dal dibattito pubblico su “questa” Europa unita ascoltiamo, quotidianamente, un racconto il cui linguaggio è molto simile alle parole usate da Colorni. Ed è un racconto che parla di una “ impasse” della visione strategica della integrazione europea, che data dal 1989-90. Siamo ancora lì: a quegli undici mesi cruciali cha vanno dalla caduta del Muro (novembre 1989) alla riunificazione della Germania (ottobre 1990). Uno “stop and go” che allora non è stato compreso e, quindi, non è stato tradotto in una strategia nuova e diversa della costruzione europea. Pur nella temperie di quelle ore convulse, le consapevolezze non mancavano ( “ l’Unione politica è controparte della Unione economica e monetaria”: Helmut Kohl); sono mancate, invece, le decisioni conseguenti e coraggiose (“Abbiamo creduto di realizzare un progetto politico, anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo costringesse all’Unione politica”: Gerhard Schroeder. “L’Euro è un progetto politico; non è che avessimo bisogno della moneta unica agli inizi degli anni Novanta; doveva essere il vettore dell’integrazione politica: questa era l’idea di fondo”: Joschka Fischer).

La straordinarietà della riunificazione tedesca, proprio a riguardo della strategia originaria di integrazione europea si può cogliere ancora meglio da una inattesa affermazione di Altiero Spinelli, che invitava a “condannare apertamente il rovinoso miraggio della riunificazione” (così, in “Tedeschi al bivio”, saggio apparso nel libro: “La Germania e l’unità europea”, a cura di Sergio Pistone, Napoli 1978). Il senso di questa affermazione è questo: l’impostazione e il percorso, e il ritmo ed i tempi della Unità europea, sognata nel buio della guerra fratricida e avviata nel dopoguerra con la messa in comune del carbone e dell’acciaio – strumenti indispensabili anche delle guerre fratricide tra europei- erano dentro una idea di Europa che prevedeva una Germania che sarebbe ‘dovevuta’ restare divisa.

La crisi attuale è dunque una manifestazione di una assenza lunga, troppo lunga della mancata presa d’atto e di coscienza di un cambio profondissimo di fase, scaturita da quell’evento.
Non siamo quindi di fronte a “problemi tecnici”, di “funzionamento” di una macchina ancora in rodaggio, ma al contrario alla fase ultima di un Congegno (politico, istituzionale, di infrastrutture economico-finanziarie e di un complesso di politiche comuni datate e incomplete, o appena abbozzate ed impari di fronte alle mutate condizioni strategiche del contesto globale) pensato ed avviato per una Storia europea diversa. Dopo il crollo dell’impero sovietico e la riunificazione della Germania è iniziata una’ Storia altra’.

Oggi, “crisi come quelle del debito sovrano greco e dell’arrivo massiccio di rifugiati e migranti economici hanno messo in dubbio l’efficacia dei meccanismi che dovrebbero garantire risposte comuni a problemi comuni” (Roberto Toscano, diplomatico ed ex ambasciatore in India e in Iran, cfr. la Repubblica, 20 maggio 2016, p. 49). ‘Meccanismi’ che non sono in grado di dare queste risposte attese dalle società contemporanee: urgenti e necessarie. Ragionando sulle analisi e valutazioni del presidente emerito, Giorgio Napolitano, nel libro: “Europa, politica e passione” (Feltrinelli, aprile 2016), appena presentato ai lettori e alle lettrici di oggi, il diplomatico osserva: “è un momento difficile per l’Europa. Così difficile che, mentre si diffonde l’euroscetticismo – la convinzione che l’integrazione europea non funzioni e nemmeno serva – prende corpo una ondata di euro-fobia, con attacchi all’Europa da parte di un nazionalismo redivivo, che La denuncia come problema piuttosto che come soluzione”. Giorgio Napolitano, peraltro – il cui europeismo storico è noto a tutti – definisce senza mezzi termini la situazione come “crisi, su diversi piani, del progetto e del processo di integrazione europea”.

Il completamento, necessario ed urgente, della Unione economica e monetaria (vedasi la recente “Unione bancaria”, ma senza la contestuale mutua garanzia europea dei depositi e in assenza di un meccanismo europeo che porti gradualmente alla costituzione di un unico Debito sovrano, un Fondo monetario europeo, un ministro del Tesoro europeo, ecc.) è soltanto una parte delle soluzioni attese, e che tardano.

I governi deli Stati membri manifestano – alcuni, non tutti; di tanto in tanto e non con continuità- consapevolezze di un “Grande Compromesso” tra i maggiori Paesi europei; ad esempio su: Immigrazioni, Economia, Russia (cioè: un pezzo di politica estera e un pezzo rilevante di politica energetica). Germania, Italia, Francia, e…chi ci sta. E’ sufficiente questo approccio? E’ certamente utile, ma non è adeguato alla sfida.
Resta, infatti, sullo sfondo la sfida vera: quella della rilevantissima questione strategica dell’insieme della “Integrazione” europea (Tipologia, Tempistica, Istituzioni). Ancora e sempre sullo sfondo: tutti sanno che esiste e nessuno ha la forza e il coraggio di prenderla di petto.

L’occasione del profondo rimescolamento cui è sottoposta l’ attuale costruzione europea, offerta dal referendum inglese dei prossimi giorni (a prescindere dal suo esito), può e deve costituire anche l’occasione per uno ‘stop and go’ della globale filosofia di Unità.

Ora è il tempo di ridefinire il “come , il perché e chi sta insieme”; e la tempistica – diversamente articolata- della integrazione. La sfida che ci lancia il mondo attraverso le “ Migrazioni”, può costituire il “luogo politico strategico” per “Ri-Definire” il carattere della “Casa comune”, nella quale ci sono ‘Piani” diversi e molte “Stanze”; con un solo “Tetto”, comuni-forti-solide “Fondamenta” e comuni, solidi “Pilastri” portanti.

“Il progetto d’un Manifesto” di Ventotene – a cui torniamo in queste ore per commemorare il trentesimo anniversario della morte di Spinelli, costituisce certamente, ancora oggi, una fonte di ispirazione forte e propulsiva.

In esso non si tratta di cercare la soluzione ai ritardi di una Unità che risulta bloccata da un gravissimo deficit di riforme urgenti e di nuove politiche comuni indispensabili. Sarebbe troppo semplice e, forse anche semplicistico. Dal suo “Progetto” è ancora possibile trarre la spinta morale per far ripartire il processo. Il modo migliore per celebrare i trent’anni dalla scomparsa del riformatore Altiero Spinelli, ed onorare la sua memoria, non sta nel citare le sue parole come formulette, già confezionate. Se – come lui ci ricorda – “l’Europa non cade dal cielo”, tocca alla nostra generazione e a quella che sta entrando in questi mesi ed anni nelle dinamiche politiche e strategiche di un mondo vasto e interconnesso, trovare nuove soluzioni a nuovi ed inediti problemi. La lezione di Altiero Spinelli – soprattutto quella dei suoi ultimi anni da protagonista delle e nelle Istituzioni – incomplete e acerbe – di quella Europa che cominciava a farsi Unita – sta proprio nella sua lezione di riformatore, tenace e volitivo; in quel suo rilanciare da stratega instancabile ‘ le ragioni’ – valide ieri come oggi – di una “Europa libera ed unita”. Più libera, perché unita.




Sospesa in un passato rimosso? Una Filosofia per l’Europa (III)

“Questa” Unione Europea potrebbe essere considerata come “sospesa in un passato rimosso”. La definizione è stata data, recentemente, da Gian Enrico Rusconi alla situazione del Brennero, mentre il governo dell’Austria ipotizzava di ristabilire la frontiera con l’Italia. Per estensione potremmo usare questa immagine per evidenziare il tipo di fase che sta vivendo l’intera Unione: appare come sospesa sul passato delle diverse Europe della storia. “ La geopolitica insegna che, nelle vicende politiche, le rotture prevalgono spesso sulle continuità e che il passato incombe sul presente, e dunque sul futuro”. Così scrive Manlio Graziano, in: “Le cinque Europe (più una)”, La Lettura/Corriere della sera, 8 maggio 2016. E aggiunge un esempio, a dir poco, inquietante: “durante i quarantasette anni di esistenza delle seconda Jugoslavia (1945-1992), le differenze tra serbi, croati, sloveni, bosniaci eccetera sembravano definitivamente svaporate, al punto che nove famiglie su dieci erano formate da coppie miste. Nel 1992 all’improvviso la guerra civile riprese là dove si era fermata nel 1945, tanto che i nemici principali ripresero perfino i nomi di allora: cetnici serbi contro ustascia croati”.

Cinque Europe: Europa mediterranea (capitale, Roma); Europa carolingia (capitale, Parigi-Aquisgrana); Europa prussiana (capitale, Berlino); Europa asburgica (capitale, Vienna); Europa bizantino-ottomana (capitale, Istanbul). Più una: Europa britannica (capitale, Londra).

“Sotto i confini del vecchio Continente riaffiora l’antica eredità di alcuni blocchi geopolitici rivali: carolingio, mediterraneo, bizantino-ottomano, prussiano, asburgico. E quello britannico, che potrebbe staccarsi per via referendaria”. L’articolo-analisi presenta e commenta un saggio uscito nel 2012, di Robert D. Kaplan : “The revenge of Geography – La vendetta della geografia”. R. Kaplan, con un sottotitolo (“ La battaglia contro il fato”) ha voluto prendere le distanze da un simile approdo.
Anche “Diario europeo”, continuando a descrivere il cammino faticoso di “Una filosofia per l’Europa”, vuole contribuire ad arginare una simile sventura. Vogliamo continuare, dunque, ad approfondire, con una terza ed ultima puntata, le dinamiche della filosofia europea, convinti che sono proprio la cura e la cultura di un pensiero europeo gli antidoti ad una deriva di questo tipo. Lo facciamo, benintesi, senza girare la testa per non vedere ciò che è sotto i nostri occhi: le molteplici pulsioni e le diverse forme socio-politiche (ormai anche organizzate in partiti, e persino al governo di Stati membri) che producono un pericoloso bradisismo politico e culturale. La Geografia si vendicherà? Dove la Politica non arriva, sarà la forza del Pensiero a supplire e a rigenerarla.

(French Theory)
Mentre in Germania si sviluppava la ricerca che abbiamo molto sinteticamente richiamato nei due precedenti “Diari”, con una guerra che squassava il continente, anche dalla Francia molti intellettuali emigrano negli USA, portando in quel nuovo contesto l’articolatissima filosofia francese. “Mentre surrealismo, esistenzialismo e storiografia delle ‘Annales’ sono stati trapiantati come tali, prima di essere americanizzati – scrive Roberto Esposito – la French Theory è un prodotto creato ex novo dagli intellettuali americani, dopo l’arrivo negli Stati Uniti di un piccolo drappello di filosofi francesi” (p.111). Come i vari Derrida, Deleuze, Foucault, con molta libertà avevano lavorato sui testi di Hegel, Nietzsche e Heidegger, così gli interpreti americani della loro filosofia hanno successivamente rielaborato il loro pensiero, dando origine a quella che chiamiamo “French Theory”, dandole una nuova energia e “ tale da proiettarla , in traduzione inglese, nel circuito internazionale” . E così, in tale ambito vasto, la ricerca ed il pensiero di Althusser (critica marxista della ideologia), Lévi-Strauss (Antropologia), Psicoanalisi (Lacan), Letteratura (Barthes), analisi Linguistica (Saussure), trovano un nuovo inizio. E proprio in questo nuovo destino “ad essere in gioco, ancora una volta, è proprio la questione del fuori. Il modo di impostarla e, prima ancora, di intenderla. Dove passa il “fuori” e cosa, precisamente, esso significa? Quali sono i suoi confini e quando si mostra per la prima volta? Da dove emerge e verso cosa muove? Sia Derrida, sia Foucault inscrivono il proprio pensiero nell’orizzonte aperto da questi interrogativi” (p.122).

Attenzione: la portata strategica di questi interrogativi sta nel fatto eminentemente ‘politico’ che essi riguardano l’Europa e la sua perduta centralità. Ed è proprio Michel Foucault – nella sua ricerca intorno alla “biopolitica” e al “biopotere” – a consentire l’ancoraggio con la concretezza della storia. Questi concetti (filosofici) “riconosciuti nella loro storicità e perciò sottratti alla totalizzazione cui naturalmente tendono, (possono) essere assunti come campi di lotta, e dunque di potenziale rovesciamento degli attuali rapporti di forza,( e) costituiscono il fronte avanzato delle dinamiche politiche contemporanee” (p.144).

(Italian Thought)
L’indagine filosofica di Foucault ci consente di approcciare il contesto italiano. “Se le sue radici affondano nell’operaismo degli anni Sessanta, la nozione di “Italian Thought” nasce, assai più recentemente , in relazione all’elaborazione della categoria di ‘biopolitica’ (p.146); ma non bisogna pensare a una derivazione del “Pensiero Italiano” dalla “Teoria Francese” , anche se resta indubitabile un collegamento con essa: da una parte, con la ricerca di Giorgio Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita -1995), dall’altra con il noto saggio di M. Hardt e A. Negri (Impero- Cambridge 2000/Milano 2001).

La derivazione, però, non può essere ritenuta immediata (senza ulteriori mediazioni ), per via della “sua (del Pensiero Italiano) tendenza alla contaminazione (che ) ne rende impossibile una definizione autoctona, centrata intorno ad un nucleo identitario (….) Un debito analogo, il pensiero italiano lo contrae nei confronti della filosofia tedesca, in una modalità che spesso si sovrappone alla matrice francese (…) Autori come Walter Beniamin e Carl Schmitt non risultano meno influenti nella costruzione del pensiero italiano attuale, di Foucault e Deleuze” (p. 157). Approfondiamone alcune tendenze.

(qualità specifiche)
“Per un verso il pensiero italiano appare più giovane, e più immaturo (…) per altri versi coglie elementi della contemporaneità – soprattutto relativi all’orizzonte della politica – in maniera precoce e anche più incisiva di altre genealogie filosofiche” (p.158). Non stiamo, quindi, dinanzi ad un fenomeno “minore”, ma diverso e specifico. Le altre filosofie “sperimentano nei confronti della prassi politica, una distanza o quantomeno un dislivello (…) il pensiero italiano rovescia tale tendenza, trovando nell’azione politica un radicamento essenziale” (p.158). Certamente alla base di questa tendenza c’è anche l’impegno politico dei suoi protagonisti (vedi l’operaismo degli anni Sessanta e proiezioni nei successivi anni). Ma forse c’è anche una specificità ulteriore; “anziché precedere la prassi, nasce da essa in una forma che oltrepassa sia la autonomia della filosofia sia la neutralità della teoria”. Perciò, Roberto Esposito lo chiama “Pensiero”, e non “Filosofia” o “Teoria”. Subito, dunque , possiamo individuarne una sorta di precipitato nella circostanza che “il movimento del ‘fuori’, nella riflessione italiana contemporanea, coincida con il terreno del ‘contro’, in una tensione di natura politica” (159).

(una linea di filiera)
Questa configurazione ci spinge, infatti, a individuare una linea di ascendenza che ci rinvia ad un pensiero che va oltre gli ultimi cinquant’anni: e ci fa incrociare un percorso “che da Machiavelli arriva a Gramsci, e quindi, le esperienze dell’umanesimo civile, l’illuminismo riformatore, l’hegelismo napoletano, la resistenza al fascismo (…) e lo scontro con il potere , politico ed ecclesiastico (che) ha segnato l’intera storia del “Pensiero Italiano” già da Bruno, Galilei e Campanella (…) la morte violenta di Gramsci e Gentile , seppure ai lati opposti della medesima barricata in difesa del proprio pensiero, conferisce a questo (Pensiero) una intensità politica difficilmente rintracciabile in altre culture nazionali “ (p. 159). Nello stesso tempo – e qui fa premio un contesto storico-ambientale anch’esso tutto specifico e anche grandioso – esso assume e invera nella contemporaneità “figure arcaiche, o comunque di provenienza greca e romana, come : bios, sacertas, communitas, persona, imperium” (p. 159). Dunque: politica e storia; ma anche: natura e crisi. “Quello del rapporto tra teoria e crisi e quello della relazione tra secolarizzazione e teologia politica, la riflessione di Vico, ma anche di Cuoco e Leopardi hanno influito potentemente sulla discussione aperta in Italia a partire dagli anni settanta” (p.161). E fino ai giorni presenti, con gli studi di Paolo Virno e di Remo Bodei.

(proviamo a ricapitolare)
L’Italian Thought mostra da un lato, “ un lessico prevalentemente politico”, dall’altro, “traduce la semantica del ‘fuori’ in quella del ‘contro’; la sua (apparente) non assonanza con il linguaggio filosofico, gli consente una “tendenza alla valorizzazione del conflitto” (p. 169, passim). Attenzione, però: in forme diverse e anche con linguaggi diversi questo “Pensiero” confluisce – con accentuazioni – in quella “ attitudine antagonista (che) non è estranea né alla filosofia tedesca né a quella francese (…) essa costituisce, infatti, il presupposto della dialettica negativa di Adorno, ed è implicita nella dinamica tra potere e resistenza, teorizzata da Foucault” (p. 170).

(la teologia politica, andare oltre)
Il potere. Intorno allo studio del potere si è sviluppata, dunque, “una delle più complesse categorie della tradizione europea” (p. 185). Roberto Esposito ha dedicato a questa specifica tematica un saggio, a se stante, nel 2013 (“Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero”, Einaudi). La teologia politica è una teoria (una interpretazione) del potere (della sovranità) e, quindi anche, del Moderno. Scrive Massimo Cacciari, in un recente piccolo e densissimo saggio: “L’espressione ‘teologia politica’ non può limitarsi a significare l’influenza esercitata da idee teologiche sulle forme della sovranità mondana” ( “Il potere che frena”, Adelphi,2013, p.12). La sua ampia e densa portata, dunque, va cercata in Carl Schmitt su cui “Diario” si è intrattenuto nel suo n. 27 del 19 Aprile. In un sua opera specifica (“Politische Theologie, 1922/ edizione italiana a cura di: G.Miglio e P, Schiena- “Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità”, 1972) Schmitt tratteggia la sua concezione della sovranità: “Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”; dove – da giurista- sottolinea il limite del diritto statuale. Nello stesso tempo, egli indica dove sta il luogo o l’origine della sovranità: “la politica oltre lo stato”. “ Dove – precisa Roberto Esposito- al termine ‘oltre’ va conferito un significato di ulteriorità, ma anche di originarietà, seconda la nota tesi schmittiana che lo Stato presuppone il principio del politico” (p. 186). Gli autori italiani che hanno ‘pensato’ dietro l’impulso schmittiano sono soprattutto Mario Tronti e Massimo Cacciari. Essendo la “teologia politica un pensiero della fine” (Tronti), “il potere qualsiasi sia, dall’Impero agli Stati che nascono dalla sua dissoluzione, tende a frenare tale evento (la fine) ritardandone il compimento (…) A contendersi il dominio del mondo sono le nuove potenze, sempre più autonome da fini generali, dell’economia e della tecnica, di fronte alle quali risultano patetici gli appelli del Politico” (Cacciari). Sullo sfondo, per tutti, resta la analisi di Paolo di Tarso (San Paolo) e la sua visione della dialettica permanente tra: fede/legge, promessa/comando, potere costituente/potere costituito. Ma “se c’è una questione che tutti gli esponenti dell’Italian Thought tematizzano, pur se da angoli di visuale e con intenzioni differenti, è quella della fine della teologia politica (…) La teologia politica si mostrerebbe come la figura millenaria che ha assunto la metafisica a partire da quando le religioni monoteistiche hanno riempito il nostro spazio di pensiero” (p. 194). Specularmente, già negli anni Venti, il giovane W. Benjamin aveva aperto un altro orizzonte di speculazione e di analisi parlando di “capitalismo come religione”.
Fin qui, si potrebbe dire: una filosofia dell’Europa. “Teologia politica e teologia economica sono articolazioni interne di quella macchina metafisica cui ancora soggiacciono il nostro linguaggio e la nostra condizione”, così verso la fine della sua corsa attraverso il pensiero filosofico europeo – dentro guerre tremende e stato-nazioni impotenti – chiosa Roberto Esposito (p. 195).

(Una filosofia per l’Europa)
Ma ecco che la ‘Storia’ si incarica di darci la sua lezione. Scrive Roberto Esposito: “il 31 maggio del 2003 un articolo co-firmato da Habermas e da Derrida (ormai i lettori e le lettrici di Diario hanno dimestichezza con questi protagonisti!) sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, non solo sanciva la fine del Kulturkampf franco-tedesco, ma intendeva siglare un nuovo inizio per la filosofia europea. Esso coglieva nelle manifestazioni di protesta contro la guerra anglo-americana in Iraq, simultaneamente attivate a Parigi, Berlino, Roma, Madrid e Londra, “ i segni della nascita di una sfera pubblica europea” (scrivevano i due filosofi). E aggiunge Esposito: “In realtà ciò che sembrava un fenomeno nuovo era il punto di precipitazione di un processo avviato già un quindicennio prima dal collasso dell’impero sovietico e dalla conseguente riunificazione della Germania (p. 195).

Care lettrici e cari lettori di “Diario”, torniamo ancora lì, sotto il muro crollato di Berlino.
Sotto le macerie di quel Muro sono rimasti sepolti: la vergogna di una dittatura comunista, che costituiva una macchia nelle eredità culturali e umanistiche dell’Europa, la drammatica vicenda umana e il dolore di tanti caduti in fuga dall’est all’ovest sotto i colpi di una polizia cieca e ottusa e il sistema politico, economico e militare specifico della guerra fredda, antidoto inutile alle reiterazioni delle follie belliciste. Quelle macerie, però, una volta che la polvere si è posata e con essa sono evaporati anche gli entusiasmi e la festa, hanno svelato: la “sorpresa” di una intera classe dirigente che, a sua volta, ci sorprende; la impreparazione sia dei governi sia degli apparati (le mitiche “cancellerie”) degli Stati- nazioni che ancora oggi ci inquieta; il disegno strategico di unità europea (il sogno europeo originario degli anni Cinquanta: fine delle guerre fratricide, la pace, l’unita a piccoli e progressivi passi) fondata consapevolmente su una condivisa e permanente divisione della Germania. Forse non si poteva pretendere di più dai fondatori di un sogno, degno veramente di questo termine, all’indomani della immensa sciagura: le due guerre mondiali. “ Le macerie lasciate dalla guerra non erano soltanto materiali, ma coinvolgevano anche un pensiero che non aveva saputo costituire un argine contro tale deriva” (p. 196).

Due sono le lezioni, permanenti e indimenticabili. La prima: le generazioni nuove – Millenials – non diano per scontata la conquista della pace; non la diano mai come un bene “scontato”. La seconda: una lezione, non ancora ben acquisita sia dalle classi dirigenti dei Paesi membri dell’Unione, sia da diversi movimenti e organizzazioni della società civile europea: l’Unione europea che continua la sua costruzione dopo la riunificazione della Germania è lontanissima dalla Comunità europea dei Trattati di Roma. Dopo il 1989, la semantica del discorso europeo è radicalmente cambiata. L’Europa non è (solo) una risposta alle tragedie del passato ma una proposta strategica per affrontare le sfide del futuro. Bisogna, allora, correre, correre. Da una parte, il completamento della Unione economica e monetaria, dall’altra l’avvio deciso e convinto della Unione politica.

Ma vorrei lasciare l’ultima parola al filosofo Roberto Esposito che ci ha accompagnato in questa piacevole e intensa camminata nel pensiero europeo: “E’ urgente rimettere in moto il processo al momento bloccato di unificazione politica. Solo in tal caso , l’Europa sarà in grado di perseguire scopi strategici in rapporto a questioni globali di carattere politico, economico, sociale, distinguendosi sia dal capitalismo senza uguaglianza di tipo anglosassone sia da quello senza libertà di marca asiatica. Ciò che in tal modo si profila all’orizzonte, come unica alternativa, reale e possibile, a un mondo unipolare percorso da conflitti endemici, è un multilateralismo di vaste entità regionali, diversamente caratterizzate, in grado di bilanciarsi reciprocamente. All’interno di esso l’Europa ha storia, risorse, cultura”.(p. 235)




Captain America: Civil War

di Anthony RussoJoe Russo. Con Chris EvansRobert Downey Jr.Scarlett JohanssonSebastian StanJeremy Renner  USA 2016

Antefatto: nel 1991, in Siberia, Bucky Barnes (Stan), compagno d’armi ed amico di Steve Rogers/Capitan America (Evans) viene de-ibernato e, grazie a un siero che lo rende schiavo di chi pronunci una serie di parole, trasformato nel letale Soldato d’Inverno. La sua prima missione sarà quella di recuperare da un’automobile dei campioni del siero; lui la compie, uccidendo i due occupanti i due occupanti della vettura. Siamo all’oggi e Steve Rogers, Natasha Romanoff/Vedova Nera (Johansson), Sam Wilson/Falcon (Anthony Mackie)  e Wanda Maximoff/Scarlett Witch (Elizabeth Olsen) sono a Lagos per fermare Brock Rumlow/Crossbones (Frank Grillo) che ha rubato una potente arma. Per non farsi catturare Crossbones si fa esplodere e Wanda riesce, con i suoi poteri a circoscrivere il danno ma alcuni soldati del tecnologicamente avanzatissimo regno del Wakanda – che erano lì a supporto della missione degli Avengers – vengono uccisi. Tornati alla base, gli Avengers vengono raggiunti dal Segretario di Stato Thaddeus  Ross (William Hurt) che li informa che loro saranno alle dipendenze delle Nazioni Unite, come una specie di Corpo Speciale. Tony Stark  – ancora shoccato per la catastrofica battaglia di Sokovia  (vedi: Avengers – Age of Ultron) – accetta  mentre  Steve Rogers difende la libertà di movimento –senza pastoie politico-burocratiche – del gruppo; con lui si schierano Falcon e Wanda mentre Natasha, il tenente James Rhodes/War Machine (Don Cheadle) e Vision (Paul Bettany) – che avrà il compito di tenere Wanda in casa – seguono Stark. Black Widow  va a Vienna per la ufficializzazione del nuovo status degli Avengers  ma, durante la conferenza di ratifica, una bomba – piazzata da Bucky,che viene ripreso dalle telecamere – uccide  T’Chaka (John Kani) , il re del Wakanda; suo figlio T’Challa ((Chadwick Boseman) giura di vendicarsi; nasce così Black Panther, un nuovo Vendicatore. Rogers e Wilson rintracciano Bucky  a Bucarest, dove arriva anche T’Challa; ne segue una lotta, interrotta dalla polizia che li arresta tutti. Gli altri vengono rilasciati mentre Barnes viene estradato in un carcere speciale a Berlino. Qui, con le false credenziali di uno scienziato, va a parlargli il colonnello Helmut Zemo (Daniel Brull), che inizia a recitargli la sequenza che lo rende schiavo ma Rogers riesce a farlo tornar in sé; Bucky  gli rivela  che dietro il complotto c’è Zemo, che  è impazzito dal dolore per la perdita della moglie e del figlio durante gli scontri di Sokovia e ora sta andando  alla base siberiana dove  sono ibernati altri Soldati d’Inverno. I due decidono di andare a fermarlo e li raggiungono  Wanda (che si è liberata di Vision), Clint Barton/Occhio di Falco  e, portato da Falcon, Scott Lang/Ant-Man (Paul Rudd); Stark, intanto, ha reclutato il giovanissimo Peter Parker/Spiderman (Tom Holland) – minacciandolo di rivelare il suo segreto alla zia May (Marisa Tomei) – e, con lui, Natasha, T’Challa, James Rhodes e Vision raggiunge l’aeroporto di Lipsia, dal quale Rogers e i suoi stanno per partire; le due fazioni di supereroi combattono finché Natasha, presa dal dubbio, di lascia decollare Rogers e Barnes per la Siberia. Wanda, Ant-Man, Falcon ed Occhio di Falco vengono imprigionati. Natasha cerca di convincere  Tony  a  seguire le tracce di Zemo ma deve fuggire per evitare di essere arrestata e raggiunge  Rogers e Bucky in Siberia, Arriva anche Stark (mentre T’Challa lo segue di nascosto). Alla base scoprono che Zemo ha ucciso gli altri Soldati d’Inverno ed   un video che rivela a Stak che le persone uccise da Bucky nel 1991 erano i suoi genitori (John Slattery e Hope Davis). Questi  attacca Bucky, contrastato da Rogers, Durante la battaglia Bucky perde il suo braccio robotico e Capitan America disattiva l’armatura di Iron Man e, ferito, va via lasciando lo scudo in terra, in segno di rinuncia.  Zemo è convinto di aver annientato gli Avengers e, quando viene raggiunto da T’Challa, cerca di spararsi ma Black Panther lo ferma e, anziché ucciderlo, decide di  consegnarlo alle autorità. Qualche tempo dopo, Stark – che ha costruito per Rhodes, che era rimasto paralizzato nell’ultimo scontro, un esoscheletro -manda a Rogers, che ha liberato i suoi compagni con i quali su è rifugiato  a Wakanda,  un messaggio nel quale lo invita a riprendere la loro collaborazione.

Dopo Batman vs Superman, di nuovo dei supereroi si trovano ad affrontare problemi di coscienza, legati alle conseguenze letali delle loro battaglie. Certo i personaggi Marvel sono più vivaci, ironici e mossi dei loro due colleghi Dc-Comics ma non è a caso che il titolo del film sia legato a Capitan America, il più legnoso e serioso di tutti. La serie degli Avengers –e questo ne è un capitolo, essendo un sequel (e nell’antefatto, prequel) di Age of Ultron – si sta un po’, verrebbe da dire, burocratizzando, come Stark in questa avventura; gli eroi soffrono, si feriscono e, appunto, si fanno insinuare dal germe della non-violenza e di un sotterraneo, noioso pacifismo. Peccato proprio, perché le guasconate e la violenza fracassona del primo Avengers erano da culto ma la scelta dei malleabili fratelli Russo, professionisti con un curriculum cine-televisivo (la serie tv Ti presento i miei, Tu, io e Dupree, il dimenticabile remake Ghostbusters  e Captain America – The Winter Soldier) di solida medietà la dice lunga: budget alto ma sotto controllo e uno sguardo ad  un audience più matura e, quindi, al politically correct. Gli incassi sono ottimi e già sono in cartellone i due capitoli successivi: Infinity War i e II. Accontentiamoci.




Una potenza civile: filosofia per l’Europa (II)

“Oggi gli avversari di Habermas non sono pensatori di destra o nostalgici sostenitori di una Germania ‘neoguglielmina’ come Thilo Sarrazin o quelli raccolti attorno alla AfD (Alternative fur Deutschland). Ma intellettuali, sociologi e giuristi – ecco il paradosso – formatisi alla sua scuola, ma radicalmente ostili, dal punto di vista teorico come quello politico, alla prospettiva europeista”.

Così, martedì 12 aprile 2016, su “la Repubblica”, Angelo Bolaffi, attirava l’attenzione dei lettori e delle lettrici su “La deriva antieuropea dei ‘nipoti’ di Habermas”.

Questa stringente attualizzazione di un lungo percorso di una delle correnti filosofiche ed intellettuali della Germania ci aiuta a riprendere le fila dello strategico tessuto di una filosofia per Europa.

(German Philosophy)

Nell’estate del 1940 – mentre gli scritti di Carl Schmitt spostavano il baricentro anche simbolico della filosofia tedesca ed europea oltre i confini di una centralità europea che ormai solo i cantori del passato continuavano a sognare – Max Horkheimer, scrivendo “ per la prima volta in lingua inglese, con il titolo “Studies in Philosophy and Social Sciences”, dà il senso della rottura ormai consumata nel rapporto tra filosofia ed Europa”. E afferma senza incertezze, e per i suoi lettori certamente con una intensa sorpresa: “L’America , e specialmente gli Stati Uniti, è il solo continente in cui sia possibile continuare la vita scientifica” (p. 64).

Torna in scena il “Da fuori”. In realtà sono ben numerosi, infatti, gli intellettuali che ripararono oltre l’Atlantico. Thomas Mann, Ernst Cassirer, Hannah Arendt, Einstein e Sconberg; e, naturalmente, gli altri esponenti della “Scuola di Francoforte”: Marcuse, Lowenthal, Fromm e Adorno, per ultimo nel 1938. Tra gli anni ‘30 e ’40, dunque, “questo passaggio per “il fuori” – anche se compiuto sotto la pressione della necessità – poteva restituire una sorta di egemonia a quella filosofia europea incapace di ritrovarla nella propria origine greca” (p. 66).

L’opera più celebre della Scuola – Dialettica dell’illuminismo – di Adorno e Horkheimer, che tanto influirà anche nella formazione culturale della generazione del dopo-guerra (anche in Italia) è stata anche quella più discussa. “Si è voluta vedere in essa di volta in volta un rifiuto della ragione occidentale, una teoria catastrofica della storia, un frammento di Kulturpessimismus antitecnologico e perfino antidemocratico, una sconfessione esasperata del Moderno (…) L’effettivo rilievo filosofico risiede in una concezione del tempo irriducibile a ogni filosofia della storia, sia di tipo progressivo che regressivo; progresso e regressione, d’altra parte, sono profili, opposti e complementari dello stesso paradigma storicistico (p.79).

Ci sia consentito un salto nel bel mezzo dei giorni nostri (più di chi scrive che di legge, immagino per via della differente età): Torino 1986, siedono di fronte Jurgen Habermas – l’ultimo dei ‘francofortesi’ (venuto a presentare un suo libro: Teoria dell’agire comunicativo, in due volumi di 1091 pagine!) e Enrico Filippini, firma di grande qualità di “la Repubblica”.

“Da Francoforte, che nella vulgata vuol dire poi Horkheimer e Adorno, Habermas prende qualche distanza. I due avevano un concetto forte della Ragione, e in definitiva non erano in grado di dire quali fossero i loro criteri nella critica della società e della cultura”, e Habermas indica con chiarezza il pericolo: “non c’è più teoria critica della società, ma soltanto filosofia negativa della storia. Invece occorre poter formulare una critica contestuale della ragione e della società” (in: Enrico Filippini, “Eppure non sono un pessimista, conversazioni con Jurgen Habermas).

Avvertiranno i lettori e le lettrici di “Diario europeo” che con queste brevi citazioni abbiamo evocato tanta parte delle contraddizioni del pensiero e dell’azione anche delle successive generazioni europee, le quali dal 1968 in poi – con rotture e salti, di varia natura e intensità, di una continuità incerta e spesso obliata – agiscono e sono agite dalla e nella lotta politica e sociale sempre in bilico tra contestazione della ragione e degli assetti sociali e politici e una mai vinta tendenza alla filosofia negativa della storia, resa manifesta da forme di nichilismo, antagonismo e vere e proprie forme di corto-circuito sinistra-destra.

(Questa Europa è in crisi)

Questo salto notevole nella contemporaneità ci consente di planare dalla pura “filosofia tedesca” nell’azione di un filosofo costituzionalista che sta dando molto al pensiero e alla politica europei per una fuoriuscita di Europa dalla crisi.
Sono almeno due gli ostacoli alla comprensione piena e all’azione conseguente, con criteri di irreversibilità, per la integrazione europea: una è di ordine giuridico costituzionale; l’altra appartiene ai limiti della unione economica e monetaria, ai quali ancora oggi gli Stati nazionali e le classi dirigenti europee non riescono a dare compiute risposte.

“La prima innovazione sta nella preminenza del diritto internazionale sul diritto nazionale dei monopolisti del potere. L’Unione europea potrà stabilizzarsi a lungo termine soltanto se sotto la coazione degli imperativi economici farà i passi ormai indispensabili per coordinare le politiche essenziali, non nello stile burocratico-gabinettistico sinora consueto, ma percorrendo la via di una sufficiente ratificazione giuridica democratica.” (Jurgen Habermas, Questa Europa è in crisi).

Jurgen Habermas, come dicevamo sopra, è uno dei massimi costituzionalisti e filosofi viventi; è cittadino della Germania e dell’Unione europea. Il nostro “Diario” ha bisogno di misurarsi, con il suo aiuto, con alcune questioni giuridico-istituzionali e costituzionali, in bilico tra “stati nazionali” (e democrazia nazionale) e democrazia europea, dentro un assetto non statuale, non federale, non confederale; dunque non precisamente definito o definibile.

“Prima di fare chiarezza su un possibile disaccoppiamento del procedimento democratico dallo Stato nazionale – dice Habermas – dobbiamo sapere cosa vogliamo intendere per democrazia. Ebbene, autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti ne sono al tempo stesso gli autori. […] Il crescere del potere di organizzazioni internazionali, via via che le funzioni degli Stati nazionali si dislocano sul piano della governance transnazionale, mina di fatto il procedere democratico degli stessi Stati nazionali. Se non ci si vuole rassegnare a tutto questo, mentre si è costretti a riconoscere come irreversibile la dipendenza crescente degli Stati nazionali (e dei loro popoli) dalle costrizioni sistemiche di una società mondiale sempre più interdipendente, s’impone la necessità politica di ampliare le procedure democratiche oltre i confini dello Stato nazionale.” (Jurgen Habermas, ivi.)
Si profila, dunque, una necessità storica: siamo tutti di fronte all’emergenza di un oggetto nuovo, il mondo in quanto tale. Per quel mondo e in quel mondo, questa generazione deve mettere a punto gli strumenti di un procedimento democratico adeguato a quella “immensità”.

Habermas, fa dettagliate proposte di riforme anche del “Trattato” vigente; non senza aver precisato due acquisizioni fondamentali: a) “Dall’angolo visuale teorico-democratico l’elemento della divisione del soggetto costituente in ‘cittadini’ e ‘Stati’ e invero una qualificazione importante. I cittadini partecipano in modo duplice al costituirsi della comunità politica di livello superiore, nel loro ruolo di futuri cittadini dell’Unione e come appartenenti a uno dei popoli dei rispettivi Stati; b) Questa configurazione delle componenti di una comunità democratica nella forma di una confederazione destatalizzata non significa una perdita di legittimazione, perché i cittadini d’Europa hanno buoni motivi perché il proprio Stato nazionale, nel ruolo di ‘Stato membro” dell’Unione, continua a svolgere il ruolo costituzionale di garante del diritto e della libertà” (ivi). Queste elaborazioni tese a esplicitare le basi realmente democratiche del livello “unionale” degli Stati nazionali hanno una indubbia valenza anche sociale (della Società europea).

Queste impostazioni di tipo costituzionale tese a definire i contorni di una Democrazia sovranazionale risalgono al 2011, mentre le prime forme e manifestazioni di populismi apparivano all’ordine del giorno della Politica europea. Chiosava, infatti, Habermas : ”L’ombra lunga del nazionalismo si stende ancora nel presente. Il diffondersi della solidarietà civica dipende da ‘processi di apprendimento’ che, come l’attuale crisi lascia sperare, possono essere stimolati dalla percezione degli stati di necessita in cui versano l’economia e la politica” (Jurgen Habermas, citato). Ma dopo quelle espressioni e forme hanno moltiplicato la loro forza e influenza. Alla crisi economica si è aggiunta, con una intensità inattesa, quella delle migrazioni che hanno investito una Europa – ancora una volta, e fino a quando?- impreparata. “Anche i popoli – spogliati dei diritti e disinformati – barcollano sperduti, fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale.” (Barbara Spinelli, I sonnambuli dell’Europa).

Dunque ancora di più la ricerca teorica dei costituzionalisti tesa a “fondare” le basi democratiche dell’Unione hanno una valenza anche politica. Ma con tutta evidenza non bastano, perché non risultano funzionanti ed efficaci di fronte ai popoli!

Dalla “crisi della Filosofia /Filosofia della crisi” siamo approdati alla crisi di queste ore di una Europa che non ha le Forme e i Modelli Istituzionali adatti al “governo” delle emergenze, tanto meno dei nuovi, strutturali cambiamenti su scala mondiale, di fronte ai quali “questo” modello istituzionale e decisionale europeo manifesta di non poter offrire la necessaria forza di un “potere civile”, ma coesa ed efficace.

Altre ispirazioni e altre basi di un pensiero europeo dovremo e potremo scoprire dalla analisi “French Theory” e dall’ “Italian Thought”.




Perchè si fugge dai nidi

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 Complice forse l’aumento delle tariffe del settembre scorso, il 2015-2016 ha visto un notevole calo di iscrizioni ai nidi comunali a gestione diretta (207) e ai privati convenzionati e in concessione (circa 230), che nella capitale offrono in tutto 21.798 posti (circa 13mila nei comunali e 7.500 nei convenzionati, cui si aggiungono i 581 dei nidi in concessione e i 600 delle “sezioni ponte” per bimbi di 2 anni e mezzo). Le nuove domande, escluse le riconferme, sono state infatti 16.025, il 20% in meno rispetto all’anno precedente. Incide, probabilmente, anche il calo delle nascite: se nel 2011 i bambini tra 0 e 3 anni erano più di 77mila, nel 2015 sarebbero 70mila. E l’anno prossimo le rette cresceranno ancora, arrivando a costare dai 40 ai 450 euro al mese a seconda del reddito.
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In copertina: Daniela Del Boca insegna Economia politica a Torino: “Siamo lontani dal 33% di bimbi iscritti come chiede la Ue”

 




Rette record e posti vuoti la grande fuga dagli asili nido 4 bimbi su 5 restano a casa

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Sono ancora i più belli del mondo, come li definì Newsweek negli anni Novanta. E non soltanto a Reggio Emilia. Ma in Toscana, in Umbria, in Veneto, in Lombardia. Architetture all’avanguardia, eco-capolavori, mini campus di giochi e scoperte dove crescere sembra un’avventura speciale. Eppure gli asili nido italiani sono in crisi. Un’eccellenza che si va sgretolando. Posti vuoti, rette altissime, Comuni in affanno, famiglie con i redditi dimezzati, madri disoccupate, e per la prima volta negli ambitissimi nidi del Centro-Nord le liste d’attesa non ci sono più. I bambini cioè restano a casa. O affollano i concorrenziali e spesso più economici asili privati. Iscrizioni in calo del 4%, come aveva già segnalato l’Istat nel 2013: non era mai accaduto dal 1971, quando fu approvata la legge nazionale sui nidi d’infanzia, che li trasformò da luoghi assistenziali nel primo gradino della scala educativa. Ma la discesa è continuata: nel 2015 a Roma le iscrizioni sono calate di 1.500 bambini, la “mitica” Reggio Emilia ha segnato una discesa del 4,3%, e lo stesso è accaduto a Venezia, Mantova, Trieste, Firenze. Una conversione a U, in controtendenza con l’Europa, e contro tutti gli studi più recenti, che raccontano quanto frequentare un buon nido nei primi mille giorni di vita sia garanzia, poi, di maggiori capacità e relazioni nella crescita.
«Un controsenso — commenta Daniela Del Boca, docente di Economia politica a Torino — negli ultimi vent’anni non abbiamo fatto altro che chiedere più nidi e oggi abbiamo i posti vuoti. E siamo ben lontani dall’obiettivo europeo del 33% dei bambini iscritti: in Italia la media è del 17%, ma la quasi totalità è nel Centro-Nord». Se a Trento il 23% dei piccoli sotto i tre anni usufruisce di baby-servizi, in Calabria la percentuale è del 2,1%, la più bassa d’Italia. E c’è voluta la mobilitazione di una ong come “Action Aid” per riuscire a far riaprire, nel settembre scorso, a Reggio Calabria, l’unico nido comunale presente in città, 190mila abitanti e 5mila bambini in lista d’attesa. Una goccia nel mare. «Al Sud, purtroppo, i nidi non sono mai nati, con una grave deprivazioneper i più piccoli, mentre sono fioriti laddove (al Nord) l’occupazione delle donne è piena, al 60%,contro il 20% del Meridione ».(C’è da chiedersi allora dove siano stati deviati i tanti fondi arrivati al Sud in questi anni, proprio per la costruzione di nuovi asili). Dietro la flessione delle iscrizioni ci sono, per Del Boca, più fenomeni: «L’aumento delle rette, determinato anche da una cattiva gestione dei fondi. L’impoverimento delle famiglie. La mancanza di lavoro delle donne che quindi restano a casa con i figli, in particolare le immigrate. E infine il calo della natalità».
Il costo medio di una retta è di circa 311 euro al mese per ogni bambino, secondo un recente dossier di “Cittadinanzattiva”, ma con punte che possono arrivare a 600 euro nel caso di Lecco, il Comune più caro d’Italia. «Costi impossibili, così i nidi chiuderanno tutti», sottolinea Laura Branca, presidente dell’associazione “Bologna-Nidi”, e curatrice del corposo dossier “Mille nidi in mille giorni”, dallo slogan lanciato nel settembre 2014 dal premier Renzi, ma i cui risultati, venti mesi dopo, ancora non si vedono. Laura Branca è una delle mamme che parteciparono alla cosiddetta “rivolta dei passeggini” contro l’esternalizzazione dei nidi decisa dal Comune di Bologna. «Quello che emerge dal nostro monitoraggio è un bollettino di guerra di chiusure e strutture cedute in appalto, e questo vuol dire, spesso, una caduta della qualità », spiega Branca. «Le cooperative applicano contratti al ribasso, gli educatori vivono una condizione di precariato permanente, aumenta il numero di bambini per operatore, c’è un turn over altissimo e assai negativo per i piccoli. Per tagliare i costi sono scomparse le cucine, i bambini mangiano pasti precotti, ma è solo un esempio. Certo, ci sono ancora struttu- re d’eccellenza, ma le crepe sono ormai dappertutto».
Aldo Fortunati, direttore dell’area educativa dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, approfondisce l’analisi. «Non c’è una disaffezione culturale verso il nido, le famiglie semplicemente non se lo possono permettere. Anche chi ottiene il posto, o rinuncia in partenza (nel 15% dei casi) oppure, dopo pochi mesi, trasferisce il bimbo in una struttura privata più economica. O, ancora, semplicemente smette di pagare la retta: sono moltissimi i casi di morosità. E a ciò si aggiunge una giungla dei criteri di accesso, che si trasforma in una guerra tra poveri ». In mancanza di riferimenti nazionali, ogni Comune decide per sé. Chi privilegia le madri che lavorano, chi quelle che non lavorano.
Dice Fortunati: «La nuova legge sul percorso 0-6, che collegherà i nidi alle scuole dell’infanzia, potrebbe rilanciare tutto il sistema. Perché i numeri calano, ma la cultura del nido si è invece radicata, basta guardare le regioni del Centro-Nord. È come alla fine degli anni Sessanta: non era ovvio mandare i figli all’asilo, poi ci fu la riforma statale della scuola materna, e oggi il 99% dei bambini la frequenta».
Un progetto antico, quello 0-6, rilanciato dalla senatrice pd Francesca Puglisi nella legge delega della Buona Scuola. Far uscire i nidi dalla dimensione di alta nursery e considerarli sempre più scuola, seppure facoltativa. «I Comuni vivono una perenne incertezza sui fondi, che si riverbera sulle aperture e chiusure di nidi. Non condanno l’esternalizzazione, in molti casi le cooperative fanno un lavoro eccellente. Ma riorganizzare le risorse, con standard nazionali decisi dal Miur, come prevede la legge 0-6 — commenta Susanna Mantovani, docente di Psicologia alla Bicocca — può essere una buona strada. Immaginando nuove flessibilità di orari e servizi, e più formazione degli educatori. È una sfida, ma ai nidi non bisogna rinunciare: per i bambini sono esperienze straordinarie e formative».
DOCENTE
Daniela Del Boca insegna Economia politica a Torino: “Siamo lontani dal 33% di bimbi iscritti come chiede la Ue”



Per un periodico on line, strumento di informazione e biblioteca ad accesso libero

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Costruire un “Cantiere Infanzia” che, tenendo conto dei cambiamenti sociali e culturali in atto, possa accompagnare e sostenere le famiglie nel difficile esercizio del ruolo genitoriale e nelle scelte educative quotidiane, contribuendo a migliorare la loro capacità di orientarsi tra i diversi servizi educativi presenti nel territorio (geolocalizzazione ragionata, webmap).

Sostenere una pedagogia della partecipazione e della ricerca (L. Malaguzzi, 1993) in cui famiglie e servizi possano riconoscersi e co-costruire una cultura collaborativa-interattiva.

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Promuovere una cultura comune e condivisa sui veri bisogni e diritti alla “cura” dei bambini e delle bambine, favorendo il confronto interprofessionale e sostenendo lo sviluppo dei servizi educativi.

Monitorare le politiche di welfare rivolte alle famiglie sottolineando ed evidenziando le principali novità nel settore, nell’ambito del quadro europeo.

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Divulgare gli  studi e le  ricerche, nazionali ed internazionali, sui servizi educativi e le diverse soluzioni di cura all’infanzia con particolare attenzione ai modelli organizzativi e alla loro capacità di coniugare qualità e sostenibilità, soprattutto nell’ambito dei sistemi integrati pubblico/privato.

Favorire il lavoro in rete tra ricercatori e studiosi delle scienze dell’educazione e della psicologia, con gli operatori che a operano nei servizi per l’infanzia e con gli altri operatori che a vario titolo si occupano dell’infanzia (ad esempio pediatri).

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Documentare la vita dei servizi educativi per farne conoscere il valore e l’importanza alle famiglie e a tutta la comunità sociale.

Valorizzare le esperienze che maturano nei servizi educativi offrendo occasioni e strumento di confronto e di crescita per le famiglie e per tutti gli  operatori che si occupano dei bambini e delle bambine.

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Creare una biblioteca digitale collegata con il sito istituzionale e giornali on-line, con l’inserimento di opere proprietarie atte a costituire una base documentale destinata ai bisogni legalità del cittadino/consumatore, al diritto/dovere all’informazione sono obiettivi possibili ed economicamente sostenibili. Un piano editoriale che preveda il contributo di vari soggetti su un modello di impresa 2.0 coordinata da una direzione scientifica potrà generare innovazione e impatto sociale valutabile. Incoraggiare reti di autori, sostenitori, famiglie enti e aziende sponsor. Applicativi editoriali e robotica destinati alla produzione di opere socialmente utili sono la nostra utopia e attività quotidiana.




La potenza dell’unificazione: una filosofia per l’Europa

“Se è vero, come ha scritto Georg Wilhelm Friedrich Hegel , che il bisogno di filosofia nasce ‘Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca’, nulla è più attuale di una filosofia per L’Europa”.
Così inizia la sua indagine Roberto Esposito, docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
(La tesi)
Una intensa e appassionata ricostruzione delle radici del pensiero di e su Europa, perché “può accadere che, quando non è più sufficiente pensare l’Europa in termini economici e appare velleitario ipotizzarne un assetto politico, l’unico varco aperto resti quello scavato dal pensiero”(p. 4). E non si tratta di una fredda speculazione, ma di un confronto diretto con la vita e il sangue delle persone. La vita biologica di milioni di esseri umani in fuga dai propri territori devastati dalla guerra e dalla fame; e le esplosioni che hanno insanguinato le strade d’Europa con la morte che erompe senza più mediazioni al centro della scena politica, scrive Esposito; ed aggiunge: “Il destino del nostro continente, non diversamente da quello del resto del mondo, si gioca sul margine incerto che, nella implicazione diretta tra politica e vita biologica, separa una biopolitica affermativa da una crisi tanatopolitica di dimensione ignote” (p. 5).
“Da fuori”, è il titolo (sottotitolo, “una filosofia per l’Europa”, Einaudi, Torino, marzo 2016.
“Da fuori” è anche la chiave interpretativa dell’intero saggio.
Sia nel senso che: “filosofia e crisi si illuminano a vicenda in una stretta che fa dell’una il filtro di riconoscimento dell’altra”; laddove per “crisi” si deve intendere la questione economica e ancora di più “l’entità del flusso migratorio che ha investito l’Europa da un lato e la guerra scatenata nelle sue strade dall’altro” (p.5).
Sia in un senso più profondo di un “libro che fin dal titolo rompe con un atteggiamento introflesso, riportando la filosofia dell’Europa al suo ‘fuori’; la relazione del pensiero con l’esterno non è solo l’oggetto di questa ricerca, ma anche la cornice teoretica in cui essa si iscrive” (p.6).
Il saggio, perciò, ha una grande pregnanza politica, perché pur impostando la sua ricerca nel quadro di lunga ricostruzione della ‘filosofia della crisi europea’, afferma senza mezzi termini la necessità di una “netta discontinuità” che deve distanziare il pensiero europeo attuale, dal passato; per aprire “una nuova stagione di riflessione in grado di incrociare le questioni poste all’Europa dal mondo globalizzato” (p.6).
(Filosofia della crisi)
Diario europeo deve scusarsi con i lettori e le lettrici per la fatica alla quale li sta chiamando, in una immersione nel pensiero filosofico europeo di oltre un secolo.
“Alla fine della prima guerra mondiale la percezione di una crisi profondissima percorre ed unifica l’intero scenario della filosofia” (p.19). ‘Percorre ed unifica’. Si tratta da una parte di una discontinuità profonda; una sorta di abbandono di un porto tranquillo: “per Hegel la filosofia europea si compie (Vollendung) divenendo storia”. E si compie in Germania. Tutti i nuovi protagonisti, dopo di lui, hanno alle spalle questo ‘pensiero’, forte e rassicurante. “Bastano pochi decenni perché questa prospettiva si oscuri”. E da “compimento” si passa ad “esaurimento”.
“La mediazione tra spirito e potenza, che nella filosofia di Hegel aveva prodotto l’egemonia europea, non riesce più ad arginare le forze distruttive che investono l’Europa dal suo interno, travolgendone i confini simbolici e materiali” (p.21). La ‘macchina metafisica’ si inceppa. Le due grandi guerre si incaricano di certificare questo dato!
Ma procediamo con ordine. All’inizio la frattura avvenne all’interno, tra una sinistra e una destra hegeliana: Marx da una parte, Kierkegard dall’altra. Entrambi pensano che si è di fronte ad una “fine”, ad un “esaurimento” e non più ad un “compimento”. Una sorta di ‘si salvi chi può- un rompete le righe’: l’urgenza di “fuoriuscire” dalla filosofia. Per farsi “prassi politica” (Karl Marx); “agire etico” (Soren Kierkegaard ); “energia vitale” (Friedrich W. Nietzsche).
Insomma, “il rapporto tra filosofia ed Europa subisce una improvvisa lacerazione, destinata presto a farsi solco profondo”(p.21). La storia preme da ogni parte su e contro Europa: “dai lati opposti del continente la vecchia Russia di Dostoevskij e la nuova America di Tocqueville mettono per la prima volta in discussione la centralità dell’Europa” (p.21).
La categoria del “nichilismo” rende bene la situazione. Era un “pensiero” antico, primo-ottocentesco: ora viene ripreso per certificare una “fine”, quella della perduta centralità storica del continente. Le parole usate sono assolutamente altisonanti: Maria Zumbrano (“La agonia de Europa”, Madrid 1945): l’Europa, “il luogo dove esplode il cuore del mondo”. A dirla con forza molto evocativa è Karl Lowith in “Il nichilismo europeo”: “l’Europa è un mondo che tramonta e nello stesso tempo un mondo a venire, ma tra i due mondi non c’è una transizione continua, ma una decisione carica di destino” (Stoccarda, 1940).
(la ricerca del/nel passato)
IL “dispositivo della crisi” evolve in una ricerca di una origine perduta: “non essendovi, per la filosofia, altro terreno di sviluppo che quello europeo, essa non può che ripercorrerlo all’indietro, alla ricerca di qualcosa che ha lasciato, inattivo, alle sue spalle” (p.23).
Per Paul Valéry (Parigi 1919) la crisi dell’Europa ha un carattere terminale. “Dopo essere stata ‘una macchina per trasformazioni’, ‘fabbrica intellettuale senza paragoni’, essa rischia di ridursi alla piccola appendice a ovest dell’Asia” (p.25).
Per Edmund Husserl (Vienna 1935) la consapevolezza della crisi si traduce in una sorta di utopia-follia di grandezza. “Da un lato l’Europa è interpretata come entità dotata di significato universale in ragione del suo rapporto esclusivo con la filosofia (‘sapere che nasce dalla Grecia’). Dall’altro è intesa come terra di un gruppo umano particolare, superiore a tutti gli altri (….) riproducendo così il potenziale escludente della macchina geo-filosofica hegeliana ” (p.27). Il concetto della “fenomenologia del trascendentale” ne è lo strumento.
Martin Heidegger (Tubinga 1966) conduce questa analisi e la prospettiva alla sua conclusione: la origine della crisi europea, infatti, non starebbe nella deviazione dalla metafisica greca, bensì all’interno della filosofia europea tout court. E la crisi, “per quanto europea e dunque mondiale, (essa) è innanzitutto tedesca”; sia perché la Germania è terra di filosofia, sia perché al centro di quell’Europa oggetto dell’attacco delle due potenze antispirituali: Russia e America. In termini filosofici e della sua “Introduzione alla metafisica”, la missione è la “ricerca dell’Essere” (p.28-29).
Di questa autoriflessione della filosofia europea tutta proiettata, come si può ben vedere, su se stessa, alla ricerca salvifica della propria essenza originaria, c’è contemporaneamente una branca “tragica” (p. 29-30): Johan Christian Friedrich Holderlin che vede precisamente nella relazione tra Grecia ed Europa il luogo della salvezza.
Chi conduce alle sue estreme conseguenze questo percorso del dispositivo della crisi è Friedrich Nietzsche ( 1887). “E’ con lui che viene dichiarata la irrecuperabilità dell’origine in quanto inautentica, costitutivamente (…). E’ qui nasce quel vocabolario della ‘finis Europae’, destinato a prendere il nome di nichilismo, da cui le successive filosofie della crisi attingeranno a piene mani” (p. 33). Ma nello stesso tempo egli traccia una frattura insanabile e definitiva sia con le prospettive ellenocentriche di Hegel, di Husserl e di Heidegger, sia con ogni fenomenologia di interiorizzazione. Afferma categoricamente Nietzsche: “solo fuori di sé i ‘buoni europei’ potranno trovare l’energia per spezzare le catene che li legano a una civiltà esausta” (p. 35).
Ma c’è una seconda linea di pensiero di questa autoriflessione della filosofia europea, quella che tenta di proiettarsi fuori da un contesto, ormai definitivamente, lacerato e lacerante. Un itinerario speciale è quello del ceco Jan Patocka, dentro un’Europa scossa prima dalla guerra e poi dalla cortina di ferro, nella quale egli vive, iniziando a scrivere nel fatidico 1939. Per lui “ l’Europa è il prodotto sempre mutevole, di una guerra mai conclusa, perciò la definizione della sua essenza non può che cercarsi al fondo dei conflitti di cui essa è figlia” (p. 37). La sua morte, causata dalle violenze di un interrogatorio della polizia di regime, è segno e profezia di una Europa che può nascere solo “fuori di sé”. Egli già nel 1970, senza aver visto il crollo del muro del 1989, parla di un’Europa post europea, che nasce dalla autoconsapevolezza radicale delle sue crisi.
L’altro itinerario di grande rilievo per l’influenza che ha avuto nel pensiero politico di tutta Europa, è quello di Carl Schmitt. “Con la sua conferenza del 1941 su “Terra e mare- una riflessione sulla storia del mondo ” (…) egli imprime una svolta realistica dell’Europa rispetto alle sue derive apocalittiche. Quando scrive che ‘ molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento” (p.40). Carl Schmitt condivide con altri la concezione della irriducibilità del conflitto e ad esso annette la categoria e il linguaggio del “politico”. “A prescindere dal tono – volta a volta drammatico o rassegnato, disperato o disilluso – con cui l’autore ripercorre la vicenda, ciò che caratterizza il suo lessico è un realismo ben lontano dallo spiritualismo di Husserl e Heidegger. Per Schmitt il nichilismo, prima che nel pensiero affonda nella carne viva della storia europea (…). Da questo punto di vista, rispetto alla tradizione filosofica, lo spazio prevale nettamente sul tempo, proiettandone le scansioni sulla superficie terrestre, in quella che può essere ben vista come la prima grande analisi, a un tempo filosofica e politica della globalizzazione”(p.41).
E non bisogna dimenticare anche il contesto più generale del pensiero germanico-europeo in cui nuota l’insieme di questa dinamica del pensiero filosofico: il contesto della “teologia politica”, cioè la discussione sulla interpretazione e fondazione della “sovranità”. E Schmitt “pensa in termini apocalittici, ma dall’alto (…) chi pensa dall’alto lotta perché il caos non venga a galla e permanga lo Stato” (in: Jakob Taubes, La teologia politica di san Paolo, Adelphi, 1997, p.234).
Mentre egli riflette sulla storia del mondo e sui poteri che si esercitano tra “terra e mare”, non può non accorgersi che un altro soggetto emerge sullo scenario della lotte per il potere: l’aereo. E in un carteggio con E. Junger , dopo aver evocato i due animali mitici – Leviatano (mostro marino) e Behemot (mostro terrestre)- ne evoca un terzo : il Grifo, grande uccello menzionato nel libro dei Salmi; e scrive:“ è così potente che se in volo lascia cadere un uovo schiaccia mille cedri giganti e fa straripare i fiumi”.
Insomma, con questo fraseggio simbolico e mitologico (ma anche teologico, per la indubbia dipendenza dalle scritture ebraico-cristiane) assistiamo ad una nuova consapevolezza filosofica, dove è la ricerca – anche giuridica e del diritto – della fonte del “Politico” (la Sovranità), la nuova emergenza del pensiero; in parallelo con l’osservazione dello “spostamento del baricentro simbolico dalla terra al mare, e poi da questo all’aria, (che) rappresenta sul piano dei rapporti di forza, la sconfitta delle potenze continentali da parte di quelle atlantiche. La lotta a morte fra i tre mostri dell’escatologia ebraico-cristiana – rappresentativi dei regni dell’acqua, della terra e dell’aria – traduce con l’evidenza visionaria delle immagini un passaggio di egemonia di carattere epocale” (p. 45).
E la campana già suonava per Europa: ormai non più centrale, ma neppure ancora unificata. Anzi molto lontana dall’esserlo!
Negli anni ’40, altri protagonisti del pensiero europeo – tedesco, francese, italiano – emergono ad interpretare la storia che si svolgeva sotto i loro occhi.

(Nel prossimo “Diario”, continueremo questo cammino: dalla Scuola di Francoforte, alla filosofia francese, al Pensiero italiano. E anche – curiosamente – scopriremo che molta parte di questa filosofia per l’Europa abbia trovato il luogo del suo approfondirsi in terra americana. “Da fuori”, come titola Roberto Esposito, il suo mirabile saggio di filosofia teoretica).