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Un’Europa che non può tornare indietro e non riesce ad andare avanti

Diario europeo assume, nel titolo odierno, una espressione di Roberto Napoletano (“Domenica”, il sole 24 ore, 18 settembre) nel suo ‘Memorandum’, in cui commenta la “Lectio” di Mario Draghi al Teatro sociale di Trento, in occasione del premio “Alcide De Gasperi-Costruttori d’Europa”, conferitogli il 13 settembre scorso. La sintesi di Napoletano è la fotografia dell’Unione europea, a Bratislava.

Dopo la “riunione” (Diario si impegna da oggi a non usare più termini quali “vertice” o “summit”, per non incorrere in plateali errori di forma e di sostanza!) di Bratislava, venerdì 16 settembre – sulla cui ‘agenda’ nel precedente intervento ci eravamo lungamente impegnati – invece di una puntuale e dettagliata analisi (che rinviamo ad un ‘diario’ successivo) desideriamo offrire alla riflessione dei lettori e delle lettrici la parte conclusiva della “Lectio” di Mario Draghi. Pronunciata, due giorni prima della riunione di Bratislava, ci si poteva augurare potesse costituire una ulteriore spinta alla costruzione di una nuova agenda dell’integrazione europea, la cui responsabilità politica sta sulle spalle dei capi di stato e di governo del 27 Paesi membri. Non pare, invece, che gli attuali dirigenti dei Paesi membri abbiano avuto il tempo di leggere e meditare le parole del presidente della Banca centrale europea.

“L’Europa può ancora essere la risposta?

La domanda è semplice ma fondamentale: lavorare insieme è ancora il modo migliore per superare le nuove sfide che ci troviamo a fronteggiare?

Per varie ragioni, la risposta è un sì senza condizioni. Se le sfide hanno portata continentale, agire esclusivamente sul piano nazionale non basta. Se hanno respiro mondiale, è la collaborazione tra i suoi membri che rende forte la voce europea.
Il recente negoziato sul cambiamento climatico sia di esempio. La questione globale può essere affrontata solo attraverso politiche coordinate a livello internazionale. La massa critica di un’Europa che parla con una voce sola ha condotto a risultati ben oltre la portata dei singoli paesi. Solo la spinta esercitata dai paesi europei che hanno presentato un fronte comune ha permesso il successo della conferenza sul clima di Parigi. Solo l’esistenza dell’Unione Europea ha permesso la costruzione di questo fronte comune.
In un mondo in cui la tecnologia riduce le barriere fisiche, l’Europa esercita la sua influenza anche in altri modi. La capacità dell’Europa, con il suo mercato di 500 milioni di consumatori, di imporre il riconoscimento dei diritti di proprietà a livello mondiale o il rispetto dei diritti alla riservatezza in Internet è ovviamente superiore a ciò che un qualsiasi Stato membro potrebbe sperare di ottenere da solo.

La sovranità nazionale rimane per molti aspetti l’elemento fondamentale del governo di un paese. Ma per ciò che riguarda le sfide che trascendono i suoi confini, l’unico modo di preservare la sovranità nazionale, cioè di far sentire la voce dei propri cittadini nel contesto mondiale, è per noi europei condividerla nell’Unione Europea che ha funzionato da moltiplicatore della nostra forza nazionale.

Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili.

Tali interventi sono di due ordini.

Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza.

Un autentico mercato unico può restare a lungo libero ed equo solo se tutti i soggetti che vi partecipano sottostanno alle stesse leggi e regole e hanno accesso a sistemi giudiziari che le applichino in maniera uniforme. Il libero mercato non è anarchia; è una costruzione politica che richiede istituzioni comuni in grado di preservare la libertà e l’equità fra i suoi membri. Se tali istituzioni mancheranno o non funzioneranno adeguatamente, si finirà per ripristinare i confini allo scopo di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini.

Pertanto, per salvaguardare una società aperta occorre portare fino in fondo il mercato unico.

Ciò che rende oggi questa urgenza diversa dal passato è l’attenzione che dovremo porre agli aspetti redistributivi dell’integrazione, verso coloro che più ne hanno pagato il prezzo. Non credo ci saranno grandi progressi su questo fronte e più in generale sul fronte dell’apertura dei mercati e della concorrenza se l’Europa non saprà ascoltare l’appello delle vittime in società costruite sul perseguimento della ricchezza e del potere; se l’Europa, oltre che catalizzatrice dell’integrazione e arbitra delle sue regole non divenga anche moderatrice dei suoi risultati. È un ruolo che oggi spetta agli stati nazionali, che spesso però non hanno le forze per attuarlo con pienezza. È un compito che non è ancora definito a livello europeo ma che risponde alle caratteristiche delineate da De Gasperi: completa l’azione degli Stati nazionali, legittima l’azione europea. Le recenti discussioni in materia di equità della tassazione, e quelle su un fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione, su fondi per la riqualificazione professionale e su altri progetti con la stessa impronta ideale vanno in questa direzione.

Ma poiché l’Europa deve intervenire solo laddove i governi nazionali non sono in grado di agire individualmente, la risposta deve provenire in primo luogo dal livello nazionale. Occorrono politiche che mettano in moto la crescita, riducano la disoccupazione e aumentino le opportunità individuali, offrendo nel contempo il livello essenziale di protezione dei più deboli.

In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale.

Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa.

Entrambi gli ordini di interventi sono fondamentali, poiché le divisioni interne irrisolte, che riguardano ad esempio il completamento dell’UEM, rischiano di distrarci dalle nuove sfide emerse sul piano geopolitico, economico e ambientale. È un pericolo reale nell’Europa di oggi, che non ci possiamo permettere. Dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza necessarie per superare i nostri disaccordi e andare avanti insieme.

A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli”.

Riuscire insieme, anziché fallire da soli!




Bratislava, prove di ripartenza?

Con tutta la buona volontà e anche senso di responsabilità – necessario quando si valuta il difficile e strategico percorso di Integrazione europea- non si sfugge ad una sensazione ricorrente: una sorta di “assenza” di Europa – le sue Istituzioni e la loro quotidiana azione – nel governo della Unione! Sappiamo che è in campo quotidianamente una complessa “macchina” comunitaria, fatta di ampie e articolate professionalità; ma quella sensazione rimane. Mentre i protagonisti reali e, nello stesso tempo, disarmonici sono gli Stati nazionali.
Cerchiamo, allora, con pazienza di riannodare le fila di un “discorso” politico e strategico. E cominciamo dal calendario, anche considerando che molte cose sonno accadute e molte idee, analisi e proposte son venute all’odine del giorno dell’agenda comunitaria.
 
(Chi guida l’ Unione?)
 
Sul sito ufficiale del Consiglio europeo si legge che il 16 settembre i capi di Stato o di governo dei 27 si riuniranno a Bratislava, dove continueranno una riflessione politica per imprimere slancio a ulteriori riforme e allo sviluppo dell’UE a 27 Stati membri. Si tratta di una riunione informale del Consiglio europeo, quindi al di fuori delle (almeno) due riunioni previste dal Trattato nel corso di una presidenza semestrale (in questo caso tenuta dalla Slovacchia, dal 1 luglio al 31 dicembre). L’ultima volta che il Consiglio europeo (sempre in versione “informale”) si è riunito è stato il 29 giugno 2016; in quella occasione, i capi di Stato e di governo si riunirono per discutere delle implicazioni politiche e pratiche della Brexit, affermando: “Siamo determinati a rimanere uniti e a lavorare nel quadro dell’UE per affrontare le sfide del ventunesimo secolo e trovare soluzioni nell’interesse delle nostre nazioni e dei nostri popoli. Siamo pronti ad affrontare tutte le difficoltà che possono sorgere dalla situazione attuale”. Nella “Dichiarazione” ufficiale adottata il 29 giugno si legge: “Noi, capi di Stato o di governo dei 27 Stati membri, insieme ai presidenti del Consiglio europeo e della Commissione europea, ci rammarichiamo profondamente dell’esito del referendum nel Regno Unito ma rispettiamo la volontà espressa dalla maggioranza del popolo britannico. Fino a quando lascerà l’Unione, al Regno Unito e al suo interno continuerà ad applicarsi il diritto dell’UE, per quanto riguarda sia i diritti che gli obblighi. È necessario organizzare il recesso del Regno Unito dall’UE in modo ordinato. L’articolo 50 del TUE fornisce la base giuridica per questo processo. Spetta al governo britannico notificare al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione. Ciò dovrebbe essere fatto il più rapidamente possibile. Nessun negoziato è possibile prima della notifica. Una volta ricevuta la notifica, il Consiglio europeo adotterà gli orientamenti relativi ai negoziati per un accordo con il Regno Unito. Nel processo che seguirà la Commissione europea e il Parlamento europeo svolgeranno appieno il loro ruolo in linea con i trattati”.
 
(out is out ?)
 
Diario europeo (n.35, “What now? L’Unione europea a 27 stati membri”) ha già analizzato la situazione di stallo della Unione a fronte della mancata “notifica” da parte del Regno Unito della volontà di uscire dall’Unione, la “Dichiarazione” sopra ricordata resta a tutt’oggi – e si presume anche nella futura riunione di Bratislava – disattesa: “Spetta al governo britannico notificare al Consiglio europeo l’intenzione del Regno Unito di recedere dall’Unione. Ciò dovrebbe essere fatto il più rapidamente possibile. Nessun negoziato è possibile prima della notifica”. Che fare? Stupisce – oltre ogni previsione – la “inelegante” (scorretta) prassi adottata dall’ex membro dell’Unione; desta ugualmente stupore la indeterminatezza dei “capi di stato o di governo”, membri attuali della Unione, ancora di più a seguito delle loro pur sobrie, ma almeno esplicite “Dichiarazioni”, sopra riportate.
 
Indigna, peraltro, apprendere che dalla Gran Bretagna l’unica solerzia manifestata è la volontà di costruire un muro lungo due chilometri, alta quattro metri attorno all’autostrada che porta all’imbarco dei traghetti per Dover e del tunnel per i treni che passano sotto la Manica, su territorio francese.(a tal fine ha raggiunto un accordo con la Francia, caricandosi totalmente la spesa). E non solo, manifesta anche un attivismo (molto “english”) sul versante di futuri “accordi commerciali bilaterali” con paesi membri della U.E. e con Paesi terzi (Australia, ad esempio, e anche con India, Corea del Sud). Steffen Seibert, portavoce della cancelliera, durante il consueto incontro con la stampa mercoledì sette ha osservato: “ la situazione è chiara: un Paese membro dell’Ue non può, finché ne fa parte, negoziare accordi di libero scambio bilaterale al di fuori della Ue”. E’ sufficiente il misurato e diplomatico commento del portavoce della cancelliera della Germania? “Diario” ritiene di no. Nel frattempo si apprende che Boris Johnson, ministro britannico agli esteri (oppositore frontale del già premier David Cameron e campione della campagna pro Brexit) chiede “ il pieno controllo dei confini”. Non è, quindi, condivisibile l’affermazione del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che “la palla è nel campo del Regno Unito”; il campo di gioco, infatti, è ancora unico, fino alla “Notifica”. Ovviamente, neppure si tratta di compiere azioni di rappresaglia; semplicemente “ricordare” al Regno Unito di compiere, rapidamente e recuperando il ritardo già maturato, tutti gli atti richiesti dai Trattati che a suo tempo ha sottoscritto (ad essere precisi e pignoli: siccome la firma in calce al Trattato della Unione Europea è di “Sua Maestà la Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord”, una lettera formale del Consiglio europeo dovrebbe essere inviata alla regina). E dunque, è necessario che, mentre i “capi di stato o di governo” si riuniscono (nella formula della informalità che non impegna la loro funzione definita dai Trattati) per delineare le attese dei loro Paesi e popoli e le risposte necessarie da parte della Unione di cui sono partecipi, il “Consiglio europeo” come tale – in modo solenne ed autorevole, sulla base degli obblighi del Trattato – compia un atto formale, da Bruxelles, per sollecitare il Regno Unito a “notificare tale intenzione al Consiglio Europeo” ( cfr art. 50, comma 2). Da parte sua, L’Unione ha completato, con la recente nomina da parte del Parlamento europeo del deputato (ex premier del Belgio) Guy Verhofstadt, a capo del suo team nel futuro negoziato. Il “trio” dell’Unione, dunque, è: Dedier Seeuws (diplomatico belga, già portavoce di Verhofstadt), capo delegazione del Consiglio, Michel Barnier, capo delegazione della Commissione (già commissario agli Affari interni e Servii finanziari) e Guy Verhofstadt. Sul versante britannico, è stato costituito un apposito dicastero per la Brexit, con a capo David Davis, uno dei leader della campagna pro Brexit ( il quale, però, è ancora alla ricerca di esperti e professionisti idonei per il suo dicastero e attende che il bilancio del suo Governo gli assegni una dotazione finanziaria adeguata per poterli pagare).
 
(nuova agenda europea)
 
Nel frattempo risulta sempre più urgente delineare – impegnando a tale compito tutte le Istituzioni dell’Unione (Parlamento, Commissione, Parlamenti nazionali, Organismi della Società civile) – la nuova “Agenda della integrazione europea”.
 
I binari di questo percorso sono due, già scritti nei Trattati (“Preambolo”), ricordiamoli:
1. “Intensificare la solidarietà tra i popoli rispettandone la storia, la cultura e le tradizioni”
2. “Conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie”
 
(divergenze in crescita)
 
I fatti ci dicono che la tendenza dei paesi membri non va verso la “convergenza”. Nonostante la tenacia manifestata da Angela Merkel che ha voluto incontrare bilateralmente ben 13 Paesi membri della UE (appena dopo la visita in Italia, a Ventotene), le convergenze non sembrano né facili né vicine. Il punto di scontro resta la politica sulle migrazioni. Intanto sulla Porta di Brandeburgo, un gruppo (sedicente “movimento identitario”) le hanno fatto trovare uno striscione a caratteri cubitali: “Frontiere sicure, futuro sicuro”. Particolarmente aspri e persino ostili, i quattro paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) e l’Austria (dove si tornerà alla urne il 4 dicembre per la elezione del presidente della Repubblica). L’Unione non converge neppure nell’economia, anzi le divergenze strutturali continuano ad aggravarsi. Mentre la Germania conferma il surplus commerciale (8,9% sul PIL 2016, superiore persino alle previsioni della Commissione europea, oltrepassando anche la Cina con 310 miliardi di dollari) e comunica di aver risparmiato ben 122 miliardi di euro (dal 2008 a fine 2015) in interessi sul debito pubblico (anche con il contributo delle misure prese dalla Banca federale, alla quale peraltro riserva spesso critiche ingiustificate), Eurostat fotografa questa situazione: Italia, Francia, Finlandia registrano crescita zero; il gruppo dei Paesi dell’Est dà segni di dinamismo (anche per il loro problematico punto di partenza), il resto cresce modestamente. I tassi di disoccupazione restano molto difformi: Italia 11,6% – Germania 4,6 – Francia 9.9 – Spagna 22,1 – Europa 10, 1). Come non chiedersi se gli strumenti di politica economica e monetaria comunitari attuali siano o meno adatti ed efficaci ai fini della “convergenza” richiesta e dichiarata dai Trattati? Come è noto: nessun vento è favorevole a chi non sa (o non sceglie) la direzione da prendere.
 
La Banca “federale”, intanto, continua – solitaria – a ricordare all’Unione che: “le misure monetarie sarebbero più efficaci se tutti i Paesi facessero le riforme strutturali e se ci fossero politiche di bilancio espansive; e che la politica fiscale più che una questione di quantità è questione di mix, che deve essere favorevole alla crescita e alla creazione di un ambiente pro-business, compresi investimenti in infrastrutture” (così Mario Draghi, nelle comunicazioni ufficiali, dopo il consiglio di amministrazione della BCE, 8 settembre 2016). Un altro ‘fatto’, che da una parte denuncia la divergenza e nello stesso tempo esprime una positiva efficacia della Unione, si è verificato sul fronte del fisco. L’Unione (la Commissione europea) ha – dopo una lunga ed accurata analisi – deciso il recupero di 13 miliardi di euro di imposte non versate dalla Apple allo Stato membro Irlanda. Un attivismo benemerito contro quella pratica – scandalosa e anche autolesionista per una Unione, dotata di un Mercato unico e, in parte, addirittura di una Moneta unica – detta “ tax ruling”. A fronte della iniziativa “comunitaria”, proprio l’Irlanda – paese membro danneggiato(?)- ha scelto di impugnare la ‘Decisione’ della Commissione. E’ stato osservato che la cifra corrisponde alla spesa annuale che l’ Irlanda affronta per il suo sistema sanitario nazionale! Uno scambio “faustiano” – è stato detto – tra una società/economia nazionale e una multinazionale, in cambio di investimenti, occupazione, benessere nazionale a breve. Che fare? La vera risposta comunitaria dovrà realizzarsi sul fronte della comunitarizzazione di investimenti e di politiche sociali europee, per sottrarre gli stati e i popoli membri da questi tipi di “ricatto”. Insomma e in una parola: quando l’economia (e le imprese) diventa sempre di più “sovra-nazionale” la politica economica (fiscale, sociale, monetaria) deve diventare “sovra-nazionale”; diversamente anche il “Mercato Unico” diventa “fuori luogo” e, alla lunga, si inaridisce. Si vedrà come evolverà il contenzioso interno alla Unione tra Commissione e Irlanda, emerge infatti, la “lacuna grave dell’ordinamento comunitario, in quanto la Commissione non agisce in forza della scorrettezza degli accordi fiscali fra Stati e imprese (le politiche fiscali non sono materia comunitaria), ma a seguito della violazione del principio della leale concorrenza fra imprese che ne consegue” (cfr. Massimo Riva, “La foresta delle tasse”, in ‘la Repubblica’ 6 settembre 2016).
(le buone notizie, per il “cantiere Europa”)
 
Intenzioni e proposte per la “Convergenza” e per una “ nuova Agenda della Integrazione” sono comunque, in questi mesi, pervenute all’attenzione della opinione europea e anche degli Stati membri.
 
Innanzitutto sul versante della Sicurezza comune; e in risposta ( e come nuove opportunità) alla “Brexit.
 
Ha iniziato l’Italia (i ministri degli esteri e della difesa), su “Le Monde” e su “la Repubblica – l’11 agosto 2016) con la proposta di una “Schengen della difesa”: la terminologia evoca un percorso a tappe verso la struttura europea di lotta al terrorismo e la comunitarizzazione di parti (via via crescenti) della Difesa (“non si tratterebbe di creare una ‘armata europea’ che raggruppa la totalità delle forze nazionali degli stati partecipanti, ma di costituire una ‘forza europea multinazionale’ con funzioni e un mandato stabiliti insieme dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali e budgettari comuni”).
 
Ha fatto seguito un Documento dettagliato del Governo italiano, inviato a Bruxelles dopo l’evento di Ventotene; tema-obiettivo: “solo una dimensione comunitaria può garantire le risorse umane, scientifiche, organizzative ed economiche per gestire la portata delle sfide sul fronte della sicurezza”.
 
Ha fatto seguito, ancora – in una sede rappresentativa, il vertice informale dei ministri degli esteri della UE, 2-3 settembre a Bratislava e successivamente al “Consiglio informale dei ministri della Difesa” – da parte dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Federica Mogherini, la presentazione di una vera e propria “Strategia di cooperazione rafforzata” (basi giuridiche gli articoli 42, 44, 46 del TUE) e di una cooperazione strutturata permanente, con l’obiettivo di dare all’Unione una ‘autonomia strategica’ per far fronte alle sfide della sicurezza. Il tema dovrebbe essere anche sul tavolo del vertice dei capi di Stato del 16 settembre. Avanguardia sarebbero: Roma, Berlino, Parigi; ma è altrettanto interessata la Polonia.
 
Non solo Sicurezza! Sempre l’Italia (questa volta, il ministro Padoan), ha presentato una proposta di “Fondo comune europeo per l’indennità di disoccupazione”. Obiettivo: aiutare i Paesi membri a superare le fasi di crisi economica e di aumento della disoccupazione. Anche qui, con sano approccio gradualista, il metodo delle cooperazione rafforzata. Si tratta di un documento molto elaborato e dettagliato, con cifre, diagrammi ed indici precisi. La portata strategica di questa proposta è persino più mobilitante delle precedenti: tocca la vita quotidiana delle persone nelle dinamiche antiche e moderne del Lavoro;quindi, della perdita e/o della concretizzazione della cittadinanza europea.
 
‘Diario europeo’ auspica che anche i risultati del lavoro, in via di conclusione, del “High level group on own resources” (guidato dal già premier Mario Monti, con la collaborazione di eminenti colleghi, come il commissario Pierre Moscovici e Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione), il Gruppo tecnico per la predisposizione di un Bilancio europeo dotato di ‘risorse proprie’: una antica questione strategica (un’altra di quelle alle quali si opponeva strenuamente la Gran Bretagna!), la cui soluzione potrà aprire un percorso virtuoso verso politiche “proprie” e comunitarie (non intergovernative!), come ad esempio: fondo per la disoccupazione, gestione delle migrazioni e della sicurezza. Le conclusioni del “High level group” sono previste in Ottobre; ora il lavoro si sta concentrando sulle nuove fonti di finanziamento che dovranno sostanziare le “risorse proprie dell’Unione”: in questo ambito torna di attualità – già riproposta dal commissario Pierre Moscovici, in questi giorni – una unica tassazione comunitaria per le imprese multinazionali; e trovare consistenza anche la proposta – lanciata da diverse parti – di un “ministro europeo del Tesoro.
 
Bratislava, però, mantiene all’ordine del giorno – quasi con una priorità di ordine morale, oltre che politico-strategico – il dramma delle migrazioni. L’auspicio è che la presidenza di turno semestrale del Paese (Slovacchia) ospitante faccia onore alla sua funzione. Anche qui, l’Italia (mentre continua a battersi per il giusto, necessario, equo ed equilibrato ricollocamento dei rifugiati che arrivano in qualsiasi territorio-paese membro dell’Unione europea) ha avanzato una proposta: quella della comunitarizzazione dei “Rimpatri”. Non si tratta di una sottrazione di sovranità agli Stati nazionali, ma al contrario di una forma di solidarietà europea, essendo l’Unione un soggetto politico strategico più forte nel dialogo/confronto con gli Stati terzi ( con i quali impostare e trattare una ordinata azione di rimpatrio, combinata con la realizzazione delle azioni previste nel “migration compact” – programmi di aiuti europei ai popoli e governi dei Paesi in difficoltà e in ritardo di sviluppo).
 
(la integrazione differenziata)
 
La problematica di una “integrazione” europea più flessibile e tesa a ricomprendere la costruzione della Unità europea nel quadro una “partnership continentale” (cfr. Diario europeo del 16 febbraio, 4 marzo, 24 giugno), anche a fronte della uscita del Regno Unito dalla Unione europea, ha avuto in questi giorni ancora un ulteriore approfondimento analitico.
La proposta è stata presentata simultaneamente il 28 agosto, a Londra, Bruxelles, Berlino e Parigi: è frutto di un dialogo tra cinque esperti europei, tra cui Guntram Wolff, direttore del think tank bruxellese Bruegel (gli altri sono Jean Pisani-Ferry, commissario generale della France Stratégie e docente alla Hertie School of Governance; Norbert Rottgen, presidente della commissione Esteri del Bundestag; André Sapir, docente all’Université Libre de Bruxelles e ricercatore a Bruegel; Paul Tucker, membro del Systemic Risk Council e ricercatore ad Harvard).
 
Si tratterebbe di un duplice e convergente movimento politico-strategico: il primo, da parte degli Stati della Unione europea attualmente dotati della moneta unica per procedere verso una vera e propria “Unione politica”; il secondo, da parte dei Paesi attualmente membri della Unione che non ritengono di potersi riconoscere nel mandato scritto nel Preambolo dei Trattati (“Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta”) e di altri Stati esterni (tra questi, in primis quelli già in partner della UE, partecipi dello “Spazio economico europeo-See” e altri, quali: Gran Bretagna, Turchia, Svizzera, Ucraina).
 
La filosofia di fondo di questa analisi è quella di: “Trasformare la Brexit da «problema» a «opportunità di rilancio» per l’Europa. Non tanto per l’Unione Europea, ma per l’intero Continente (…). La Partnership Continentale consisterà dunque in una integrazione economica per quanto riguarda merci, servizi, capitali e – in maniera ridotta e limitata – mobilità lavorativa. Per gli Stati collocati fuori dalla Unione politica è prevista la partecipazione in un nuovo sistema di processo decisionale intergovernativo. Oltre alla questione del mercato unico (e dei lavoratori) ci sono altre aree per le quali definire le forme dell’integrazione, ad esempio le politiche economiche esterne, in particolare il commercio e la regolamentazione finanziaria” (Marco Bresolin, La Stampa 29 agosto 2016).
 
Su questo studio, è intervenuto il presidente Prodi (con un articolo su “Corriere della sera” del 11 settembre, in partnership con Riccardo Franco Levi), esprimendo un plauso a questa iniziativa (già nel 2002, R. Prodi intervenendo alla sesta conferenza mondiale Ecsa – “L’Europa è più grande: una politica di vicinato come chiave di stabilità” – aveva auspicato un “anello di paesi amici”), ma anche sottolineando che : “Difficile condividere la sostanziale asimmetria a favore del regno Unito”; “altrettanto insoddisfacente è l’impianto inter-governativo”; “qualche perplessità desta la complessità del disegno della Partnership continentale (…) per raccogliere un rinnovato consenso attorno al progetto dell’ Europa unita”. Ma aggiunge: “Resta il nocciolo – questo sì pienamente condivisibile – della proposta: il progetto di un’Europa unita e forte, con attorno a sé una cerchia di Paesi, un ‘anello di amici’ per l’appunto, con i quali condividere una relazione speciale”.
 
(ripartire)
 
Si tratta, ovviamente, di “studi” e di “analisi”. Non sono, certamente progetti “politici”, ma sono certamente stimoli alla Politica e alle Istituzioni rappresentative di questa Unione e di questi Paesi (Stati e Popoli) membri, soggetti di una Storia che non può e non deve naufragare per ignavia o per cecità.
Perciò: sempre e costantemente ripartire, con il coraggio e l’intelligenza di cogliere l’urgenza del momento.
 
Con fastidio, alcuni Paesi (non citiamo la espressione inadeguata e ineducata del ministro Wolfgang Schauble, per il rispetto che non solo chi scrive, ma tutti gli europei devono ai tutti popoli di questa Unione!) hanno accolto la riunione – ad Atene, il nove settembre – dei capi di Stati e di Governo di Grecia, Francia, Italia, Portogallo, Malta, Cipro e un rappresentante del governo dimissionario della Spagna , sul futuro di questa Unione e sulle sfide e le attese dei loro popoli. Anche questa riunione si svolta in previsione del vertice di Bratislava, anche questi Paesi auspicano una ripartenza: un percorso comune, una meta condivisa. Hanno le stesse aspirazioni e “vogliono” coltivare la stessa speranza e la stessa fiducia, con le quali gli altri Paesi membri si incontrano, discutono, collaborano; e, ad esempio, la cancelliera Angela Merkel ha (utilmente) voluto incontrare bilateralmente ben 13 capi di governo dei Paesi membri del nord Europa. Diversi e uniti, come i loro Popoli. Le polemiche sono, quindi, del tutto fuori luogo e anche frutto di miopia politica e strategica.
 
L’Unione europea deve fornire la prova della sua necessità! (copyright di Pascal Lamy). Il peso specifico dell’economia europea, rispetto alla economia Mondo è passato dal 34,4% del 2004, al 23,8 del 2014.
 
Ai leader dei Paesi membri di questa Unione Europea, affidiamo una memoria e un monito, come stimolo ad un rinnovato impegno per reagire e ripartire: “Nel 1954, dopo il voto contro la Comunità europea di Difesa, nel parlamento francese, i leader e i partiti europeisti furono investiti da una ondata di scetticismo e pessimismo. Reagirono con una conferenza che si tenne a Messina nel giugno 1955 e gettò le basi per la creazione del Mercato Comune Europeo, siglato a Roma, in Campidoglio, nel marzo 1957” (cfr. Sergio Romano, “I tre rimedi urgenti contro la palude”, in ‘Corriere della sera’ 23 agosto 2016).



What now? L’Unione Europea a 27 Stati membri

Lunedì, 22 agosto, il presidente del Consiglio dei ministri italiano Matteo Renzi, ospiterà a Ventotene il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera della Repubblica federale tedesca Angela Merkel. I temi, il luogo e il momento dell’incontro evidenziano con assoluta chiarezza la posta in gioco dell’ora delle decisioni per l’Europa unita.

L’attesa di molti cittadini e cittadine europei è che non sia un evento turistico e neppure, soltanto, un incontro di alto profilo storico-politico nell’Isola dell’Europa. Ci attendiamo che il cuore dell’incontro sia una riflessione strategica per e sull’Europa Unita (con dettagliati contenuti anche concreti) dopo il referendum britannico.

(Brexit, chi era costui?)

Nelle settimane trascorse, l’Europa – sì “l’Unione”, e non Francia, Germania, Italia, o altri Paesi membri – è stata scossa da attacchi terroristici di varia natura e via via si è sentita sempre più oppressa da una sorta di ‘ansia globale’. Ed è sembrato avere quasi dimenticato che il 23 Giugno 2016 la Gran Bretagna ha tenuto un referendum sulla sua permanenza nella Unione Europea. E che alla domanda: “ il Regno Unito deve rimanere come membro dell’ Unione Europea o deve lasciare la U.E.?” la risposta dei popoli del Paese membro – Regno Unito – è stata, globalmente, quella di “lasciare, uscire, ‘leave’”.

Nel frattempo, con una non prevista accelerazione (per la modesta ragione che i candidati o contendenti si sono via via ritirati dalle primarie di partito) il Regno Unito si è dato – il 13 luglio – un nuovo Governo, con la prima ministra Signora Theresa May (già ministra degli Interni del ‘governo Cameron’). Pur essendo stato un referendum soltanto consultivo, la premier May – nel pieno delle sue funzioni – ha rilasciato una dichiarazione chiara ed esplicita: “out is out”. E, fin qui, all’unisono con le Istituzioni europee. Poi, però, ha fatto un giro in alcune capitali (Germania, Francia, Italia, ecc.) nelle quali sembra aver chiesto “tempo”; ugualmente ha visitato la Scozia e l’Irlanda del Nord, dove ha registrato la volontà dei due Governi locali di un percorso (ancora non sufficientemente ben definito) verso la riapertura del capitolo della loro permanenza nel Regno Unito, insieme con la volontà (già ben espressa dai rispettivi popoli nei risultati del voto referendario) di restare nella Unione Europea.

Dal 23 giugno in poi, nel dibattito pubblico, la complessa problematica conseguente al risultato referendario ha trovato una puntuale trattazione relativamente alle conseguenze economiche, mentre permane una non adeguata – e persino deviante – trattazione (anche nel linguaggio) del percorso successivo alla volontà-legittimità (indiscussa) registrata dagli esiti referendari.
Un esempio. In occasione della visita – il 20 luglio – della neo-premier May alla cancelliera della Germania Angela Merkel, il ‘Corriere della sera’ titola: “ Brexit , Merkel concede più tempo a Londra” (21 luglio 2016); e il suo inviato scrive: “Quell’urgenza impellente che meno di un mese fa agitava l’Europa che, ferita e offesa, voleva punire la Gran Bretagna obbligandola ad avviare immediatamente le procedure d’uscita dalla UE (…)”.

“Punire”? “Ferita ed offesa”? “Urgenza impellente”? “Obbligandola”? C’è da restare stupiti, ed anche provare rabbia di fronte all’uso di simili vocaboli. E neppure sono accettabili i termini o le parole pronunciate dalla Cancelliera ( stante all’articolo), quali: “la linea dura della UE non serve”. Perché la Germania (sono autorizzato a ritenere che sia lo Stato membro che parla) avalla l’esistenza di una o più linee – la dura e la dolce – quando la “procedura” (è troppo burocratico?) o la “regola” è che “ogni stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione…”? Chi inventa altri modi per stare nella casa comune, ha forse altri non noti o nascosti obiettivi? Diario ritiene che questo metodo “politicistico”, e il linguaggio giornalistico connesso, fanno alla Integrazione Europea molto danno e, inoltre, nessun servizio utile fanno ai cittadini e alle cittadine europei.

(articolo 50 del Trattato per uscire; art. 49 per entrare)

Con molta enfasi e come se fosse una scoperta dell’ultima ora, all’indomani del voto (quindi il 24 giugno) comunicatori e addetti vari hanno tutti citato – a gran voce- l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Il breve Trattato dell’Unione è composto di soli 55 articoli; ogni giornalista o comunicatore di eventi europei dovrebbe conoscerli a memoria. I lettori e le lettrici di “Diario” hanno già avuto occasione ( Diario del 12 gennaio 2016) di conoscere questo importante e significativo articolo, evocato – in quella occasione – per ricordare ad alcuni Paesi o Stati membri (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) che la membership europea non è una prigione da cui non si può uscire; tanto meno una calamità piovutaci addosso “nostro malgrado”.
Di fronte ai prossimi strategici e cruciali mesi, Diario sente il bisogno di insistere su questi aspetti fondanti la adesione, libera e responsabile, all’ Unione Europea.

L’articolo 50 si presenta senza alcun tono minaccioso; dice: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. Lo Stato membro che decide di recedere dall’Unione, notifica tale intenzione al Consiglio europeo…”. A seguito della “notifica” ufficiale, non inizia – immediatamente o automaticamente – il negoziato conseguente, finalizzato a regolare la separazione. Il Consiglio europeo – senza alcun coinvolgimento dello Stato membro che ha già deciso legittimamente di recedere – “formula orientamenti”, alla luce dei quali “l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione” (ex art. 50).

Sono, quindi, del tutto incomprensibili sia le accuse di “fretta”, sia le richieste di tempo, al fine di – come si apprende dalle varie dichiarazioni – “preparare bene il negoziato”. Forse che lo Stato –Regno Unito – (e il’ Paese’: i cittadini che hanno scelto con un esplicito voto di recedere)- che ha indetto un referendum, sviluppato una lunga campagna elettorale deve ancora riflettere se recedere o meno? Non è plausibile. Deve ancora chiarirsi le idee sulle conseguenze delle scelte sollecitate, dibattute e fatte? Ma, allora, sulla base di quali disegni strategici, il Governo britannico ha indetto un referendum e su quali progetti ha chiamato il suo popolo ad una scelta così fondamentale? Oppure pensa che possa “negoziare” modalità e contenuti prima della comunicazione? E su quali basi giuridiche, e in quali sedi extra-territoriali (visto che il Trattato non li prevede) bisognerebbe “preparare” il normale e conseguente negoziato di cui parla, invece esplicitamente, il Trattato? Nell’articolo 218 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), unica base giuridica – dopo l’artico 50 del TUE- il negoziato con un ex Paese membro è sotto il titolo ‘Accordi internazionali’ e il Paese/ Stato viene denominato “Paese terzo”; il “nome” che viene dato a chi è fuori della Unione Europea. Le parole pesano, come pietre: sono le basi di una costruzione europea, affidabile di fronte al mondo.
La realtà è che il Trattato della Unione Europea, limpidamente, prevede, con solennità istituzionale, la possibilità di uscire dall’Unione, perché concepisce se stessa come una Scelta, una Opportunità, una Libertà; e non come una prigione o una mera, altalenante consorteria di tipo commerciale.

La serietà di uno Stato e la dignità di un popolo – in questo caso il Regno Unito e i popoli britannici – avrebbero dovuto consigliare quel Governo o quel Parlamento ( opzione non in capo alle Istituzioni europee) a comunicare al Consiglio europeo, subito ( o un minuto dopo la conferma della regolarità e l’efficacia del referendum da parte dei rispettivo organo preposto) la notifica di recesso. E soltanto dopo, nel caso che lo avesse ritenuto necessario, procedere alle dimissioni del Governo o del suo primo minsitro (che aveva indetto il referendum, con l’invito esplicito – e politicamente impegnativo- a votare per rimanere nell’Unione).
E’ del tutto evidente che il Governo del Regno Unito ha sbagliato ogni mossa, e ha proceduto pasticciando e rincorrendo unicamente i propri interessi (o pulsioni) nazionalistici o addirittura di partito; mettendo a rischio non solo la stabilità della propria moneta, ma anche quella (l’euro) di 18 Stati membri (su 28 ) della Unione, ai quali, ora chiede ancora “tempo”.
Con l’articolo 50, dunque, questa Unione dimostra di essere una casa con le porte aperte. E non solo; c’è un altro articolo del Trattato, la cui lettura e memoria danno della Unità Europea una esauriente, indispensabile consapevolezza. Prima che i mitici comunicatori dei fatti e della vita di questa Unione Europea, lo scoprano – anche in questo caso come fosse la novità dell’ultima ora – Diario ritiene di grande interesse e importanza affiancare all’articolo 50, la lettura meditata dell’ articolo 49, appena precedente: insieme, infatti, delineano – seppure con la sobrietà e la freddezza tipiche di un testo giuridico- il carattere fondamentale della Integrazione europea.

Dice, l’articolo 49: “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli, può domandare di diventare membro dell’Unione. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono informati di tale domanda. Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo. Le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione, da essa determinati, formano oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente. Tale accordo è sottoposto alla ratifica da tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali”.

‘Diario europeo’ ha voluto riportare integralmente l’intero articolo per le seguenti ragioni: diventare membro dell’Unione non è un atto burocratico; implica l’assunzione di “valori” (art. 2) non generici; assunzione che viene caratterizzata da due elementi espliciti: “rispetto” e “promozione”; tutte le Istituzioni europee sono coinvolte nel processo di adesione di un nuovo Stato membro; le Istituzioni nazionali di ciascuno Stato membro sono corresponsabili, e anche il popolo ( il cui Stato avanza la domanda di adesione) attraverso il Parlamento nazionale; interviene un ‘accordo’ esplicito tra lo Stato richiedente e gli altri Stati membri, i quali si pronunciano esplicitamente, uno per uno, attraverso la Istituzione nazionale che la sua Costituzione indica ( parlamento o governo).

Alla luce di questa “solennità” è lecito chiedersi: quanta consistenza hanno le litanie sulla scarsa o mancata partecipazione democratica nella costruzione europea e quanto spessore democratico hanno le grida e lo sdegno di quegli Stati membri che si urtano e si offendono quando le Istituzioni europee – in nome e per conto degli altri Stati e dei popoli (i rispettivi parlamenti) – attuano un monitoraggio dei processi legislativi e della qualità dello “stato di diritto” di uno Stato membro? E’ il caso in questi mesi della Polonia. E’, per altri versi, il caso della Ungheria; ma è, per altri versi ancora, il caso dell’Austria; e via navigando dentro il dibattito politico e anche istituzionale dei Paesi membri. Oppure, drammaticamente in queste ore, è anche il caso di un Paese-Stato “membro candidato” (ancora?), come la Turchia!
E che dire, poi, dei “Discorsi” e dei “Richiami” – variamente autorevoli, tutti utili, qualcuno non indispensabile – ai “valori”?
Leggiamo-ascoltiamo (e scopriamo), dunque, anche l’articolo 2 del Trattato, intimamente connesso all’art. 49 sopra citato; dice: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo. Dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Non ci sono commenti da fare; sarebbe un’offesa alle intelligenze dei lettori e delle lettrici, che possono spaziare in ogni verso per misurare la distanza tra i comportamenti politici e istituzionali nazionali e questi “impegni” solennemente assunti, al momento della richiesta di adesione alla “Unione” (in toto, e non ad una delle sue componenti che maggiormente “conviene”; ad esempio: il “mercato unico”).

(Forma e natura del negoziato di uscita)

Mentre scriviamo questo ‘Diario’ ci arriva una buona notizia: la nomina a capo negoziatore per la Unione Europea, del negoziato Brexit di Michel Barnier. La reazione del mondo finanziario e politico inglese, dicono i ben informati, è stata gelida. Il sig. Barnier è stato commissario europeo per il “Mercato interno e i servizi”, l’architetto delle riforme finanziarie nell’Unione, dopo la crisi del 2008, un europeista convinto che conosce dettagliatamente tutte le norme e i tecnicismi che regolano il Mercato interno e i servizi finanziari e gli accordi esistenti tra i 28 Stati membri.

La decisione fa seguito ad una pericolosa e non dignitosa discussione (e anche divisione) interna alle Istituzioni della UE: tra Consiglio europeo e Commissione europea (muto il Paramento europeo). Il Consiglio europeo, infatti – espressione degli Stati membri e geloso delle prerogative degli Stati e della concezione intergovernativa della integrazione europea – precedendo la Commissione Europea e senza consultarsi con essa aveva già designato un proprio negoziatore nella persona di un diplomatico belga, Didier Seeuws. L’intervento della Francia e dell’Italia, ha consentito alla Commissione di rientrare in campo, con la mediazione di non impegnare direttamente la persona del suo presidente – Jean Claude Juncker – ma nominando un rappresentate di alto livello, non attualmente membro della Commissione. L’Unione ha , dunque, già compiuto – da parte sua – il primo passo, e nella direzione giusta: garantendo – sia alla controparte (Regno Unito) sia agli Stati membri – la massima competenza del negoziatore. Ora risulta urgente che lo Stato – Regno Unito, che sia il suo parlamento o il governo sta ad esso decidere – invii la notifica della richiesta di recesso. Poi tocca al Consiglio europeo dei 27 Stati membri fare il secondo passo: “formulare gli orientamenti” sui quali l’Unione negozierà; l’Unione, non gli Stati membri, singolarmente. Quale è l’oggetto del negoziato? Per quanto attiene ad eventuali fatti o elementi patrimoniali, il negoziato attiene – come è noto- alla separazione dei rispettivi “patrimoni”; ma per quanto attiene ad eventuali “interessi” che le due parti ritengono di vicendevole utilità perseguire nel futuro, il negoziato parte da zero; e alla luce della “unicità” dei mercati e dei servizi finanziari nell’Unione: il negoziatore è unico, l’Unione. “Gli orientamenti del Consiglio”, pertanto dovranno prima di tutto scegliere ed indicare il modello di partnership che meglio risponde agli interessi dei 27 Stati membri, in quanto Unione. La cosa migliore sarebbe – per ambedue le parti – avere come riferimento un modello consolidato e noto: potrebbe essere quello dello “Spazio economico europeo” (See), del quale altri Stati europei sono già partner. In queste settimane – a partire dal giorno dopo il referendum- si è molto favoleggiato del cosiddetto “modello Norvegia”, sia sulla stampa europea sia su quella britannica. E’ appena il caso di ricordare che il modello di relazione tra la Norvegia e l’Unione europea comprende da una parte il vantaggio per la Norvegia di godere di gran parte delle norme europee sul Mercato unico e dall’altra l’accettazione delle quattro fondamentali libertà fondamentali della UE: libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali. Immaginiamo che la libera circolazione dei servizi e dei capitali e dei servizi siano di speciale gradimento per il Regno Unito; ma non la libera circolazione delle persone: sulla quale è stata condotta buona parte (con rilevanti dosi di falsificazione della realtà) della campagna pro Brexit (a tale specifico proposito, è appena il caso di ricordare un po’ di storia: nel 2004, quando L’Unione aprì le porte ai polacchi – e quando avrebbe potuto valersi della clausola che consentiva di ritardare l’applicazione del principio, cosa che fece la Germania – il Regno Unito procedette subito all’applicazione del principio della libera circolazione delle persone e, quindi, all’accesso dei lavoratori polacchi nel Regno Unito, per flessibilizzare il suo mercato del lavoro e guadagnare in competitività). Ma se al principio della libera circolazione delle persone, il Regno Unito ha espresso ed esprime non condivisione non potrà mai godere del benefici del Mercato Unico europeo: su tale questione, infatti, la Unione Europea non può ‘transigere’, pena la perdita del cuore della sua identità. Come si può vedere il “negoziato” sarà aspro, non facile, non indolore e neppure breve.

Anche da questo punto di vista si conferma la necessità di una rapidissima notifica del recesso: i 27 Stati membri della Unione, infatti, devono potersi riunire nei propri organi istituzionali e decisionali, con i propri membri effettivi ed affrontare il proprio destino e quello strategico dei propri popoli, con la determinazione e la tempestività necessari.

(scenari economici)

L’incontro di Ventotene non potrà, dunque, non dedicare un “pensierino” a Brexit: non per recriminare (non sarebbe dignitoso né per i tre grandi protagonisti della integrazione europea, né per il luogo e la memoria dei protagonisti storici che lì, nella dura e buia prigionia, hanno formulato il primo pensiero per la Unità europea, né per il Regno unito e i suoi popoli – anche per quella parte di essi che ancora vorrebbero esserne parte: la maggioranza degli Scozzesi e degli Irlandesi).

Ripartire da Brexit, significa prima di tutto focalizzare l’accentuazione della crisi economica dell’Unione causata dallo choc Brexit. ”Negli uffici delle istituzioni finanziarie della City si stanno disegnando gli scenari economici del dopo Brexit. E il quadro complessivo che ne esce è di concreta preoccupazione”, informava da Londra il corrispondente del ‘Corriere della sera’, Fabio Cavalera, l’11 luglio scorso. E sottolineava: “ … ora che il voto è alle spalle, i conti bisogna farli sul serio e non sono numeri di fantasia o sulle proiezioni virtuali. Due analisti dell’ufficio studi della Barclays, Michael Gavin e Aiay Rajadhyaksha, certificano che la contrazione degli investimenti è cominciata e che alla fine del 2016 sarà pari all’1,6%; ancora maggiore nel 2017 con un meno 2,6; il tasso di disoccupazione che si sarebbe dovuto attestare sul 5%, sarà più alto di oltre un punto, al 6,1”. In casa Italia, le analisi dell’Upb, l’ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente che per statuto verifica le previsioni del governo certifica a sua volta: “una crescita nel 2016 dell’1,2%, come ipotizzato dal governo nel Documento di economia e finanza, appare non raggiungibile. In buona parte si tratta dell’effetto Brexit; le stime di crescita riguardano anche l’anno prossimo, si prevede una ripresa meno dinamica”. Di fronte alle manovre dilatorie, gli analisti formulano questo interrogativo: “e se la Gran Bretagna per limitare i danni dell’uscita dalla UE avviasse una politica aggressiva dal punto di vista monetario? Insomma se avesse ragione il vecchio saggio Henry Kissinger che sul ‘ Wall Street Journal’ definisce la Brexit ‘ una classica dimostrazione della legge delle conseguenze a catena non volute’” (Eugenio Occorso, “Tasse a buon mercato, l’ultima tentazione in vista della Brexit”, in ‘la Repubblica –Affari & Finanza- 25 luglio 2016)? Brutalmente, torna a farsi vivo lo spettro della strategia di una Gran Bretagna fuori dalle pastoie (le regole comuni) unioniste, evocato da Farage durante la campagna elettorale: un grande paradiso fiscale dentro il continente Europa. Mentre a Londra, il sindaco Sadiq Aman Khan – persona responsabile e lungimirante, attualmente forse l’unico dirigente politico e istituzionale degno di questo nome, in Inghilterra- si affanna a ricordare che “London is open”. E la premier scozzese – Nicola Sturgeon – organizza (17 agosto) una discussione pubblica, coinvolgendo circa 450 cittadini dell’UE che vivono in Scozia, “per spiegare loro il forte impegno del governo scozzese a proteggere il legame del suo Paese con l’Europa, dopo il sì della Gran Bretagna alla Brexit”.

Ecco altre, pressanti, ragioni per accelerare la “Notifica” del recesso (la premier May, intanto fa belle camminate sulle Montagne svizzere!) e iniziare un serio negoziato. Non per fretta ma per serietà: compiere gli atti conseguenti alle proprie iniziative. Un referendum consultivo e non obbligatorio, con il “quesito” fondamentale che conosciamo (si potevano sottomettere alla consultazioni altri tipologie di quesiti, come la modesta e piccola Grecia insegna!) rappresenta molto di più di una “intenzione”( dice l’art. 50: “lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo”). I mercati delle monete e dei beni se sono resi conto con chiarezza e già presentano il conto agli Stati membri ed ai cittadini di questa Unione Europea (persino i Soci delle due “Borse” – di Londra e di Francoforte – dopo il via libera della “London Stock Exchange – hanno, in queste ore, proceduto alla fusione).

(more perfect Union)

Il 22 agosto, i tre massimi protagonisti di ‘questa’ Union Europea di 27 Stati membri, devono (devono!) sciogliere, di fronte alle opinioni pubbliche dei rispettivi popoli, il dilemma che pesa da sempre sulle ali di un areo che non riesce, appunto, a volare: “l’Europa unita è una mera associazione di stati per perseguire obiettivi di natura economica (comunità economica) oppure un’unione di stati per perseguire obiettivi di natura preminentemente politica (unione politica)?” (Sergio Fabbrini, “Ma chi negozia davvero con il Regno Unito?”, in: Il Sole-24 ore del 31 luglio 2016)

C’è, in effetti, di che essere spaventati della stanca e a volte furbastra reazione di tanti governi e cancellerie: dimenticano che sono proprio questi comportamenti e metodi politicistici alla base delle tendenze e delle concezioni populiste della democrazia. E non ci si venga a dire che il “tempo” serve per “sedimentare lo choc”, e che allo choc si risponde non con “visioni” ma con cose concrete (ho letto che in Germania, in questi giorni rispolverano un loro modo di dire: ”visionari dall’oculista”; sarebbe bene che prendano nota anche che in altri Paesi e culture, europei, si racconta di un malcapitato – chiamato erroneamente Pasquale dal suo aggressore – che prendeva sberle e ceffoni, ostentando noncuranza e dicendo: “e ch’è, sono forse Pasquale, io?).

Ora, è indubitabile che la integrazione europea sta prendendo molti colpi da qualche tempo: con una crescente intensità e da versanti differenziati, che, però, si cumulano; non vederli o non sentirli è manifestazione di miopia e sordità. Assistiamo, infatti, a reazioni diversificate, e poco comprensibili. Ad esempio: un giorno leggiamo che il ministro tedesco Schauble, nervoso e ipercritico verso la Commissione europea, minaccia una iniziativa da parte dei governi nazionali; un altro giorno lo stesso ministro (delle finanze) nega che l’Eurozona abbia bisogno di più integrazione, nello stesso tempo, però, rilancia la cosiddetta “Europa a due velocità”. Il ministro degli esteri della stessa Germania (Frank-Walter Steinmeier) dichiara (il 7 luglio) : “Ciò che ci possiamo aspettare da Londra è una road-map per avviare i negoziati per l’uscita e indicazioni su quanto si prefigurano; anche noi dobbiamo preparaci bene e il mio ministero ha già creato una taskforce”. Ma un altro giorno (20 luglio) apprendiamo che la cancelliera concede a Londra più tempo. Nel frattempo (il 9 luglio) il viceministro delle Finanze Jens Spahn – uomo di fiducia di Wolfgang Schauble e ascoltato membro della CDU (partito della cancelliera) – in una intervista, afferma: “L’idea che otto o dieci Paesi facciano un passo avanti sulla Difesa comune era già stata del generale De Gaulle, negli anni ’50. Noi vorremmo fare questo passo e costruire un esercito comune. Non è necessario che tutti partecipino subito”. C’è molta confusione sotto il cielo di Europa. E’ urgente dare un segnale di chiarezza e di ripartenza, non velleitaria e concreta.

“More perfect Union” è la formula che ha usato Obama nel discorso alla Convention democratica di Philadelphia. Mi piace prenderla in prestito: dà il senso del lavoro da fare, del lavoro fatto, di un approccio positivo, dell’urgenza non frettolosa, della visione necessaria e dell’urgenza dell’ora:
* Una strategia comune per la sicurezza. La domanda di Sicurezza non è una richiesta di guerre, non è un prurito malsano, non è di “destra”, non è “euro-scettica”, non è una misura settorialistica. I popoli europei hanno diritto (e bisogno) a un “Progetto europeo” della Sicurezza. Di che si tratta? E’ Difesa comune, ‘Intelligence’ comune, Frontiera esterna comune; una ‘lettura’ comune del mondo (quindi, attuazione del “compact migration”). Al suo interno, quasi con naturalezza, trova posto la comune accoglienza dei rifugiati (non per ‘buonismo’ ma per dovere verso il mondo) e una intelligente concezione del fenomeno migratorio (non per solidarietà, ma per ‘tornaconto’: vedi i tassi europei di invecchiamento e la conseguente crisi del welfare europeo). Nella conferenza stampa a Berlino, prima di ferragosto, la Cancelliera Merkel ha detto tante cose giuste sul terrorismo e altro, ma non ha evidenziato la Unione europea come luogo ed opportunità unici per dare sicurezza agli Stati membri: egemonia riluttante o distrazione politica? La recente (11 agosto 2016) proposta dei due ministri italiani – degli Esteri, Paolo Gentiloni e della Difesa, Roberta Pinotti – di una “Schengen della difesa” va nella giusta direzione ed è coerente con l’attuale Trattato; quindi immediatamente realizzabile: senza alcuna modifica agli articoli dei Trattati vigenti, basta la volontà politica di alcuni Stati membri.

• Eurozona. Esigenza non più procrastinabile di un Modello di leadership istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria. La Banca europea (BCE), la chiede da tempo. Non lasciamola sola a governare una moneta comune.

• Il futuro come fatto culturale. Il “cuore” di Europa è spezzato tra due metà, due pulsioni; il suo “Pensiero” è diviso. La manifestazione più appariscente è quel “surplus di rabbia” che cova e, di tanto in tanto, esplode. Si può anche osservare – lecitamente e con fondamento – che persino gli Stati Uniti d’America è alle prese (e anche vittima) con questo fenomeno politico-antropologico. Vero, e allora? E’ tornata in campo e nelle vite delle persone e dei popoli la questione di “darsi un’anima”! Her Schauble, ha qualche idea in proposito?

• La potenza svogliata. Di tanto in tanto riemerge questa analisi/congettura della riluttanza della Germania e del tedeschi ad esercitare una positiva egemonia. Dalla felice intuizione di “Economist” che nel 2013 coniò la definizione di “egemone riluttante”, questa questione politica è diventata oggetto di dibattiti e analisi: dal “ Die Schuldfrage” di Karl Jaspers (1946 – “Il senso di colpa”); alla “ Germania troppo piccola per il mondo, troppo grande per l’Europa”; alla affermazione di Joschka Fischer: ”ci siamo svegliati (dopo la riunificazione) e improvvisamente ci siamo accorti di avere un ruolo da leader almeno in Europa, ma senza averne voglia”; alla Brexit, con la Germania da una parte e la Francia dall’altra senza più la Gran Bretagna, che faceva da scusa per non procedere nella integrazione. “Hic Rhodus, hic salta” – tradotto in inglese: “ prove what you can do, here and now”.

• Una penultima chance? ‘Diario’ ha letto di una ricerca realizzata dall’Ifop in 6 Paesi, per conto di “Institut Jean Jaurés” e di “Fondation européenne d’étude progressistes” (Feps). La ricerca registra che Brexit ha provocato in molti Paesi europei un nuovo senso di appartenenza: uno dei paradossi di questa strana storia. Cittadini che pensano sia meglio stare dentro l’UE:
Germania + 19%; Francia + 10; Belgio + 33; Italia + 4. Inoltre, nei Paesi tre fondatori della Unione: sono contro la organizzazione di referendum per un “leave”: 59 % in Germania, 54 %, in Francia e in Italia. Sono ‘messaggi in bottiglia’ in un mare tempestoso, raccogliemoli.

Il ritorno a Ventotene, come luogo e memoria (e l’Italia, come partner fondamentale) non sia, dunque, soltanto un appuntamento qualsiasi di mezzo agosto.




Bando Periferie: un rinvio per poter coinvolgere i territori

Il Coordinamento delle periferie di Roma e l’Osservatorio Pubblica Amministrazione chiedono al Governo di prorogare di almeno due mesi la scadenza del bando periferie, il programma di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei Comuni capoluogo di provincia. Presenti alla conferenza stampa, tenutasi mercoledì 27 luglio presso la sede dei Centri di Servizio per il Volontariato Cesv-Spes, Pino Galeotta, Eugenio De Crescenzo e Renato Mastrosanti, del Coordinamento delle periferie di Roma, Francesca Danese, epidemiologia sociale, l’avvocato Stefano Rossi dell’Osservatorio Pubblica Amministrazione e Antonio D’Alessandro, Vicepresidente del Centro Servizi per il Volontariato del Lazio (Cesv).

Il Bando Periferie

Il bando in questione (“Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia – G.U. Serie Generale n. 127 del 1/06/2016”) prevede lo stanziamento di 500 milioni di euro per interventi di riqualificazione urbana intesa in senso ampio, da quello urbanistico a quello sociale. Molti gli obiettivi per i quali possono essere presentati progetti; si va dal decoro urbano alla manutenzione e riuso di aree pubbliche e di strutture edilizie esistenti, alla sicurezza, ai servizi di welfare, alla mobilità sostenibile e all’adeguamento delle infrastrutture destinate al sociale e alla cultura. Un intervento importante che finalmente mette a disposizione qualche fondo per il recupero e la riqualificazione delle periferie ma che rischia di non poter essere sfruttato nel migliore dei modi, soprattutto da quei Comuni in cui si sono tenute le elezioni nell’ultima tornata elettorale. Considerato che la scadenza per la presentazione dei progetti è prevista per il 30 agosto infatti «le Amministrazioni appena insediate», sostengono i promotori dell’appello, «non hanno i tempi tecnici né il personale per avviare percorsi di progettazione partecipata di lungo respiro».

L’appello al Governo e all’ANCI

I fatti contingenti che hanno accompagnato l’apertura del bando periferie evidenziano «una disparità di trattamento da cui deriva lesione del principio di massima partecipazione», ha sottolineato l’avvocato Stefano Rossi. Da qui la necessità di presentare la richiesta di rinvio di almeno due mesi fatta dal Coordinamento e dall’Osservatorio attraverso una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio Matteo Renzi, alla quale hanno già aderito i Comuni di Roma, Napoli, Bologna, Cagliari, Trieste, Novara, Grosseto e Oristano-Carbonia. Anche la Presidente della Camera Laura Boldrini avrebbe espresso il suo sostegno alla richiesta, scrivendo a Matteo Renzi affinché la accolga.
Oltre all’appello rivolto al Presidente del Consiglio, a cui è stata recapitata una lettera ufficiale di richiesta, il Coordinamento e l’Osservatorio si sono rivolti anche all’Anci, chiedendo di prendere una posizione al più presto possibile sulla questione. A trovarsi con i tempi ristretti sono infatti moltissimi comuni: oltre alla Capitale e alle altre città già citate sarebbero interessate dal problema anche molte altre, come Milano, Torino e Benevento, per un totale di oltre sette milioni e mezzo di cittadini.

Coinvolgere i territori nella presentazione dei progetti

Come hanno avuto modo di spiegare i relatori durante la conferenza stampa però, l’obiettivo di questo rinvio, oltre alle necessità contingenti dovute al cambio di Amministrazione in molti Comuni, è quello di dare la possibilità ai Comuni di presentare dei progetti partecipati, ascoltando le necessità dei cittadini e coinvolgendo le realtà attive sul territorio, dal Terzo Settore alle attività produttive, ai comitati di quartiere.
«Non vorrei che qualche burocrate tiri fuori qualche vecchio progetto scritto senza il coinvolgimento del territorio e la partecipazione dei cittadini» ha detto Francesca Danese, sottolineando come «sia necessario che Welfare e Urbanistica lavorino insieme, come si sta facendo ora a Napoli su Scampia». «Bisogna avviare un processo a livello culturale per il coinvolgimento delle periferie e chiedere una stabilità per questi fondi nel tempo» ha detto Antonio D’Alessandro «poiché per la progettazione ma soprattutto per l’implementazione dei progetti serve la partecipazione territoriale altrimenti si stanziano fondi che non vengono spesi (come succede con quelli europei) o si mettono in atto progetti che non danno risultati». Sul binomio Periferie-Partecipazione ha insistito anche Eugenio De Crescenzo sottolineando tra l’altro il fatto che i tempi per la risoluzione dei problemi delle periferie sono spesso più lunghi di quelli dei mandati delle amministrazioni. Da qui la necessità di un coinvolgimento attivo delle realtà locali, che conoscono bene il territorio e le sue necessità e che non sono vincolate a mandati elettorali. “Per dare delle linee guida e una continuità a questo lavoro”, ha detto Pino Galeota, “chiediamo anche di organizzare una conferenza nazionale con tutti i soggetti che lavorano sui territori, Università, i centri di ricerca e le attività economiche e produttive”.
L’obiettivo è uscire dalla logica frammentaria dei bandi e della progettazione fatta da tecnici all’interno degli uffici senza il coinvolgimento e la partecipazione delle periferie, dei cittadini che le abitano e delle associazioni, aziende e comitati che al loro interno portano avanti le loro battaglie e le loro attività. Il rinvio della scadenza del bando periferie può essere un primo passo per dare la possibilità a tutti i Comuni di sviluppare questo tipo di progettazione partecipata, fondamentale per la successiva implementazione e riuscita dei progetti e di una riqualificazione reale delle periferie.

Christian Cibba

Christian Cibba

Giornalista pubblicista, laureato in Scienze della Cooperazione e dello Sviluppo, lavora nel Terzo Settore per coniugare le due cose. Appassionato di lingue, Storia e storie, viaggia per coniugare le tre cose. Collabora con l’Area Comunicazione del Cesv nell’ambito del programma “Torno Subito”.

Leggi il comunicato stampa

Fonte : romainpiazza.it apri l’articolo originale




Scusate l’interruzione

Ci eravamo salutati con questo augurio: “Diario europeo” tornerà in ‘edicola’ agli inizi di Settembre. Augura ai lettori e alle lettrici un buon riposo e buone letture. La velocità degli accadimenti, la loro crudezza mi spingono a interrompere il “riposo” dei lettori e delle lettrici. Lo farò, scusandomi della interruzione solo parziale. Non interromperò, infatti, le loro “buone letture”, proponendovene una coerente con il tempo della prova che stiamo vivendo. E ricorrendo ad un nostro comune amico e maestro: il filosofo Roberto Esposito, che i lettori e le lettrici conoscono attraverso le tre puntate di ‘Diario’ su: “Una filosofia per l’Europa”.

Il 20 luglio, dunque, Roberto Esposito – docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – ha scritto un articolo dal titolo: “Brexit, Nizza ed Ankara: la fatica di capire”, che ‘Diario europeo’ desidera aggiungere alle vostre buone letture estive.

Perché facciamo tanta fatica a capire quel che sta accadendo? Forse perché i fatti di queste settimane, dalla Brexit, alla Turchia fino al terrore di Nizza e a quello del treno in Germania, così diversi tra loro, nella portata, negli effetti e nelle cause, hanno un punto in comune: “i fatti” di queste settimane non sono più quelli di una volta. L’idea stessa di “fatto” o di avvenimento è tale (diventa tale) perché riusciamo ad inserirla in una cornice di pensiero più o meno consolidata.

Ora quella cornice che ha retto la seconda parte del Novecento non c’è più. L’Inghilterra che ha salvato l’Europa decide di lasciarla, possiamo assistere in Turchia a quello che è stato un golpe democratico contro una democrazia autoritaria, possiamo vedere dei terroristi che non hanno più un rapporto forte con un’ideologia, folle e totalitaria, ma la prendono a prestito, in leasing, per poche settimane, mettendo in gioco il loro corpo, la loro vita.

Ad essere più sotto attacco è quello che abbiamo chiamato a lungo “vecchio mondo” – Europa e Medio Oriente, da Lisbona ad Ankara, passando per Parigi e per Londra. Certo, in America il nuovo potrebbe presto annunciarsi con il profilo, non proprio rassicurante di Trump. Ma finora i sussulti che la scuotano sembrano venire da lontano, dalle viscere del secolo scorso. Dall’Alabama a Dallas, in una storia che ha visto alternarsi Ku-Klux-Klan e Black Panthers, segregazione razziale e Martin Luther King. Sono fantasmi di ritorno di un antico conflitto, apparentemente sopito, ma in realtà sempre strisciante sotto le ceneri dell’integrazione.

In Europa, invece, con la sua propaggine anatolica, il mutamento ha le sembianze di un vero cataclisma. A collassare, prima dei confini geopolitici, sono le categorie che hanno segnato in profondo l’intero orizzonte della modernità fino a ieri. Proviamo a mettere in fila gli eventi: Brexit, Nizza e Turchia sono tre onde d’urto che, a distanza di qualche giorno, vanno sconquassando il paesaggio storico e mentale che abbiamo a lungo percepito come nostro.

Brexit. E’ vero che il Regno Unito non è mai stato il Paese più europeista. E’ vero che la sua opzione atlantica è antica quanto l’opposizione simbolica tra terra e mare. E’ vero insomma che la Gran Bretagna non ha mai smesso di sentirsi Isola – fieramente autonoma dal Continente. Ma è anche vero che il vascello che negli anni Quaranta del secolo scorso ha salvato l’Europa dai suoi demoni interni rompe gli ormeggi, salpando verso destinazione ignota. Ignota per l’Europa, che perde un suo pezzo per molti versi insostituibile, insieme alla sua maggiore potenza militare. E ignota anche al suo equipaggio, che ancora guarda, smarrito, la terra da cui si stacca senza sapere a quale porto approdare.

Nizza. Certo, si è trattato dell’ultimo colpo di una deriva terroristica in atto da almeno quindici anni. Ma anche di un salto di qualità di una furia distruttiva che lascia senza parole. Non solo per la ferocia ottusa del terrorista, ma anche per la anomalia delle sua figura. Inassimilabile sia a quella, ormai scomparsa, del partigiano, sia a quella del soldato della fede. Diversa dall’una e dall’altra, la sua sagoma si perde nell’insensatezza assoluta della morte per la morte. Se si pensa che l’attentatore ha fatto un numero di vittime pari a quelle prodotte dal gruppo di fuoco organizzato al Bataclan con un camion noleggiato per poche centinaia di euro, lo scarto appare netto. L’escalation nichilista senza paragoni. Tale da rendere ancora più spettrale il panorama che abbiamo di fronte e più indistinto il nemico da combattere.

Infine la Turchia. Nel golpe dell’altra notte – vero o falso che sia: le due cose nella società dei nuovi media si accostano sempre di più – va in frantumi una categoria alla quale, almeno in Occidente, eravamo particolarmente affezionati –quella di democrazia liberale. Dobbiamo abituarci a pensare che questi due termini non vanno necessariamente insieme. Che può esistere, a est del Bosforo, una democrazia illiberale e anzi decisamente autoritaria. Non troppo diversa, del resto da quella russa con cui da tempo è in concorrenza nella stessa area. Dobbiamo constatare che una tale democrazia può inglobare, funzionalizzandolo al potere del suo capo, perfino un putsch militare. Il quale anche, del resto, si è richiamato alla democrazia. Come democratici sono presentati dai seguaci di Erdogan i mezzi repressivi impiegati in queste ore alla luce del sole e nel buio dei sotterranei.

Ce n’è abbastanza per dire che un intero universo concettuale sta andando in pezzi. Nessuno dei parametri validi fino al secondo Novecento funziona più nella globalizzazione e nella politica della vita e della morte. Dove i corpi umani sono usati come bombe esplosive e il web appare l’unico spazio praticabile del confronto pubblico. Tutto ciò non può non allarmare. Ma, se vogliamo rispondere efficacemente alla sfida in atto, dobbiamo attrezzarci a modificare rapidamente il modo di rapportarci al nostro tempo – di affrontare le sue minacce e di adoperare le sue risorse.

Mentre scrivo, riportando fedelmente l’analisi e lo sforzo intellettivo del filosofo, impegnato a dare un senso a questo nostro tempo, “Diario europeo” apprende ancora l’ultima ma non ultima notizia di attacco terrorista (?), questa volta, nel cuore della Germania. Monaco di Baviera, attacco in un Centro commerciale; dieci morti e feriti gravi, l’attentatore (?) – un diciottenne tedesco di origine iraniana -si suicida.

L’epidemia da “ansia globale” continua. Mi sovviene la confessione di qualche giorno fa di Beppe Severgnini: “Certi dibattiti televisivi sembrano una riunione di naufraghi sulla spiaggia dopo la tempesta: solo il trauma subìto giustifica la pochezza della discussione. Noi giornalisti sapremo trovare un ruolo?” Potrà apparire una banalità, ma dal quadro emerge, con una forza e una evidenza mai così limpide, la necessità dell’Europa, coesa, unita, attrezzata, forte, affidabile, rassicurante, reattiva. Il ripiegamento su se stessi degli Stati nazionali è la nota, ben nota e sperimentata, cecità dei sonnambuli.

  • L’articolo di Roberto Esposito è stato pubblicato in “la Repubblica del 20 luglio 2016
  • La citazione di Beppe Severgnini è tratta da: “Il torrente dei fatti in diretta mondiale ci prende e trascina tutti. Dove porta?” (in ‘Corriere della sera’ del 17 luglio 2016).
  • L’evocazione dell’epidemia da “ansia globale” è tratta da: “L’avvento dell’ansia globale” di Ugo Tramballi, in ‘ Il sole 24 ore’ del 17 luglio 2016.



Oltre le Mura Festival – Roma Village via Appia Antica 18

Una collaborazione nata spontaneamente dalle frequentazioni dei locali di Via Savorgnan (Certosa) e dalla grande musica che li accomuna. Fare musica nel Prenestino Labicano è la prova dell’impegno civile di una generazione di artisti, testimonianza di una realtà esistenziale, tutt’altro che depressiva,  che ha influenzato la formazione culturale di musicisti  e si afferma con successo di pubblico e di ascolto.

“Oltre le Mura Festival è il luogo di chi non è legato ad ambienti a cerchie a collettivi, ma che liberamente vuole esprimere le proprie idee per mezzo della voce o di uno strumento musicale” afferma Giuseppe Chimenti (Modì) che ha realizzato l’evento insieme al grafico Alessandro Langella.
Gli artisti: Modì, Capobanda, Bombay, Il Sogno della Crisalide, Alaveda, Ryan il Figlio di Margaret saranno accompagnati da una madrina d’eccezione Patty Olgiati (show girl nota al grande pubblico per Sex & Detriti)

Segreteria e ufficio stampa:  informat.agenzia@gmail.com   mob. 335335202

Giuseppe Chimenti in arte Modì

Giuseppe Chimenti in arte Modì

Ryan il figlio di Margaret

Ryan il figlio di Margaret

Bombay

Bombay

Capobanda

Capobanda

Il sogno della crisalide

Il Sogno della Crisalide

Patty Olgiati

Patty Olgiati

Via Appia Antica 18

Via Appia Antica 18

 

Fonte : romainpiazza.it apri l’articolo originale



“Completare la Unione economica e monetaria” (II): il Tempo si è fatto breve!

…dove eravamo rimasti? Avevamo compiuto un’analisi sul percorso di completamento della Unione economica e monetaria – quella configurazione politica, economica e strategica che tiene uniti i Paesi membri della U.E. che hanno liberamente adottato la moneta unica; e – di fronte alla prospettiva di una tempistica lenta che rinvia ad una ipotetica “fase 2” e ad un futuro “Libro bianco” calendarizzato per la fine del 2017 – Diario europeo si era chiesto: dobbiamo attendere uno ‘choc’ per convincere i Paesi della ‘ zona euro’ a fare quello che finora non hanno fatto? Lo ‘choc’ è arrivato.
(Da Londra, ‘Diario europeo’, il 24 giugno scorso, ha fatto una prima valutazione della situazione. Tornerà sulle conseguenze, anche giuridiche e istituzionali, del referendum britannico, agli inizi di Settembre, quando il governo U.K. si sarà ricostituito e nel pieno delle sue funzioni – con ritardo grave e inaccettabile, stante il Trattato vigente e sottoscritto anche dal Regno Unito – si assumerà fino in fondo la responsabilità politica, istituzionale e giuridica di scelte – legittime, benintesi e, persino utili se saranno, alla fine, servite a fare chiarezza tra i popoli britannici e tra essi e la Unione europea- che hanno, fra l’altro, prodotto e svelato la débacle di un’ intera classe politica del Regno Unito stesso).
Lo choc, dunque, c’è stato, ma non ci sono state, subito, le risposte adeguate da parte della Unione Europea (il Consiglio europeo successivo al “Brexit” è stato particolarmente afono); neppure sono apparse chiare e nette le consapevolezze sulla situazione da parte di tutti e di ciascuno degli Stati membri. Faccio soltanto due esempi di ‘notizie’ europee: il Paese membro Ungheria, ha annunciato la data di un suo referendum per il 2 ottobre, la domanda alla quale i cittadini saranno chiamati a rispondere, questa volta, è: “Volete che l’Unione europea sia autorizzata a decidere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento”? Mi limito ad osservare che l’Ungheria – quindi anche il suo Parlamento – è membro dell’area Schengen. Altra notizia: le acque agitate della finanza- dopo il fatidico referendum britannico- non sono una esclusiva del Sud Europa e delle sue banche. In Germania i credit default swap a cinque anni – una sorta di assicurazione contro il default- su Deutsche Bank sono saliti dai 184 punti base in data 23 giugno, ai 250 odierni (Unicredit, per dire, ha subito un rialzo da 180 a 226)! In Gran Bretagna, d’altra parte, si sta profilando una fuga dal settore immobiliare, svelando (forse) una (finora nascosta) bolla immobiliare nella mitica Britannia, le cui conseguenze sono tutte da capire. Non solo Mediterraneo, quindi e non solo Eurozona!! Ma torniamo alle sfide e alle responsabilità proprie della Unione europea e specificamente dei membri che compongono la UEM. Il compito di tutti – e senza “primi della classe”, dispensati dai ‘compiti a casa’- è volere le conseguenze di ciò che si è voluto.

Il momento è questo! Non c’è da attendere nessun altro giorno. La risposta deve venire dai 18 Stati che hanno adottato l’Euro. Ma – tra essi – il cuore della responsabilità storica sta soprattutto in alcuni: Germania, Francia, Italia, Spagna. In questi giorni (lunedì 4 luglio 2016), Wolfgang Schauble, potente e avveduto super ministro tedesco, ha rilasciato una lunga intervista al “Corriere della sera” (4 luglio 2016) piuttosto inquietante: appariva nervoso (e a ragione) ma non si capiva quali “decisioni” la Germania è pronta ad assumere per arginare la slavina della disintegrazione dell’Unione e della Eurozona. Certamente, ‘Unione digitale’ e ‘ Unione energetica’, sono due delle, ancora troppo numerose, ‘Politiche comuni’ di cui l’Unione non è ancora dotata. Ma, il ministro Schauble nulla ha detto delle tappe di completamento della Unione economica e monetaria da definire per evitare nuove crisi alla moneta unica e i conseguenti ulteriori sconquassi ai bilanci pubblici di alcuni di questi Paesi. Mentre il pensiero del super ministro va – lodevolmente – alla Unione energetica, su cui le responsabilità della Germania sono prevalenti, considerate le relazioni speciali con la Russia, il completamento della Unione bancaria (la garanzia europea comune dei depositi sotto i centomila), tanto per citare una tappa, tarda ad essere completata per la opposizione del super ministro. Non mancano, peraltro, suggerimenti ed analisi puntuali da parte di intellettuali assolutamente esperti (certamente non meno di Herr Wolfgang); ha dichiarato in questi giorni Lucrezia Reichlin: “C’è sempre meno appetito politico di più Europa e in molti paesi si alzano muri. Eppure anche con le istituzioni che abbiamo si può fare una riforma ‘minima’ che renda la Unione più robusta dal punto di vista economico” (la Repubblica 9 maggio 2016). La professoressa della ‘ London Business School’, insieme ad altri studiosi di varie tendenze, ha elaborato precise proposte per attaccare la madre di tutte le instabilità economiche e finanziarie: i Debiti sovrani pubblici. Dice: “ Instaurare un meccanismo che renda possibile la ristrutturazione del debito pubblico in Paesi non solvibili. Quando un Paese diventa a rischio si adotta una serie di misure preventive, ma oltre un certo limite scatta la ristrutturazione secondo regole certe e conosciute ex-ante. Per evitare attacchi speculativi e prima di applicare questa riforma si deve negoziare il patto per abbattere una parte del debito così da far tornare tutti ai livelli tra il 90-95%. Andrebbe, quindi, creato un Fondo di stabilità che compri una parte del debito di ogni stato e finanzi gli acquisti e i costi per gli interessi con titoli di nuova natura garantiti dalle entrate fiscali future dei Paesi. (…) Non sono eurobond perché le risorse a garanzia sono nazionali e non c’è mutualizzazione del debito.”

Mentre leggevo, pensavo: immagina (“Imagine…” suona in lingua inglese!) l’effetto che farebbe, questa o altre proposte e decisioni – la cui realizzazione benintesi occuperebbe comunque anni a venire – sulla situazione del Brexit e dei tanti, troppi impulsi euroscettici dell’attuale Unione. E, anche, di fronte al Mondo! Chi sarà a prendere sulle spalle questa sfida? Chi sarà il nuovo (europeo, questa volta) ‘Alexander Hamilton’? ( Ministro del Tesoro americano che prese in mano i destini incerti degli Stati americani e indirizzò, definitivamente, nella Storia, gli “Stati Uniti d’America”. Le tappe della costruzione degli Stati Uniti hanno visto in primis la costituzione di un debito comune e solo dopo aver ottenuto un debito comune, fu istituita una moneta comune e fu fatta la proposta dallo stesso Hamilton di una banca centrale; che fu però istituita solo più di cento anni dopo, nel 1913! Nella Europa unita si è fatto il percorso inverso: ma le componenti sono e devono essere le stesse; altrimenti la casa non regge!).

Il momento è questo! “L’esigenza fondamentale è di restituire chiarezza e fiducia all’assetto istituzionale dell’area euro, dal momento che sappiamo che quello attuale è incompleto”, così Mario Draghi intervenendo il 9 Giugno all’appuntamento annuale del ‘Brussels Economic Forum’, organizzato ogni anno a Bruxelles dalla direzione generale ‘Economia e finanza’ della Commissione europea. Draghi, in quella occasione – e non è certamente la prima, ma una delle molteplici nella quali il presidente della Banca Centrale Europea invia moniti e suggerimenti alle Istituzioni europee e agli Stati membri –si è soffermato su: strumenti di bilancio europei per la spesa in programmi comuni, fondi dell’area euro di assicurazione dal rischio di una crisi in questo o quel Paese, istituzioni dell’Unione monetaria, dotate di poteri reali.

Il Comitato Economico e Sociale – relatori: l’italiano Carmelo Cedrone e l’olandese Van Iersel – già nel maggio 2015, ha elaborato un dettagliato e accurato ‘ Parere’ (“Completare l’UEM: il pilastro politico”), distinguendo il percorso per tappe successive (si veda, per una lettura completa www.eesc.europa.eu). “Parallelamente alla convergenza economica – affermano i due relatori – vi è bisogno di legittimità democratica, di un quadro politico solido e di un senso condiviso di un destino comune. A tal fine, misure concrete possono essere intraprese già nel quadro del Trattato attuale e delle altre norme vigenti; a medio-lungo termine, una revisione del Trattato dovrebbe riportare le disposizioni in linea con i requisiti indispensabili di una vera Unione economica e politica. Alla fine del percorso, dovrà risultare chiaro ed evidente che la moneta unica ha un “sovrano”. Scriveva – con una buona dose di preveggenza – la professoressa Lucrezia Reichlin: “Nonostante le tensioni politiche siano in aumento, un’opportunità c’è ed è proprio data dalla prospettiva dell’uscita del Regno Unito dall’Unione o comunque dall’allentamento del suo rapporto con essa. Per cogliere questa opportunità, è essenziale che si rompa l’ambiguità e si chiarisca se l’obiettivo sia una maggiore centralizzazione dei processi decisionali dell’Unione o invece il consolidamento di un sistema decentralizzato a livello nazionale” (‘Le scelte giuste sull’Europa’, Corriere della sera 25 febbraio 2016). Sempre prima dello svolgimento referendario britannico, ministro dell’economia italiano ed europeo, Pier Carlo Padoan (già direttore esecutivo del FMI, poi vice segretario generale e capo economista dell’OCSE), ha dichiarato nel corso del Festival dell’economia di Trento: “Tutti ci auguriamo che la Brexit non ci sia, ma nel caso contrario la BCE sarà in prima fila per scongiurare le tensioni sui mercati e l’Europa farà un forte annuncio di integrazione”. Ben detto, ma mentre l’azione della BCE si è puntualmente manifestata, di “annunci di integrazione” non ne abbiamo visto: né forti né deboli. E della volontà e anche perspicacia di Pier Carlo Padoan non abbiamo dubbi; quindi è nelle altre capitali che bisogna cercare e scovare le non volontà. Insomma, un “annuncio” di integrazione per l’area euro potrebbe – ad esempio – essere che i 5 presidenti delle cinque Istituzioni europee che hanno redatto il Rapporto: “Completare l’Unione economico e monetaria”, nel Giugno 2015, decidano di integrare il loro Rapporto, con un “Allegato strategico”, anticipando le fasi e le scansioni temporali precedentemente indicate! Perché? Perché, il tempo si è fatto breve!

L’accelerazione delle tappe di completamento della Unione economica e monetaria riguarda i Paesi membri che hanno sulle spalle l’opportunità/vincolo della moneta unica.
La manifestazione della loro volontà di intensificare la “loro unione” non dovrà essere percepita come una sfida ai colleghi Paesi membri, ma come un grande atto di fiducia nella comune costruzione unitaria. Ed anche un incoraggiamento a cercare su altri campi, altre sfide e altri terreni comuni nei quali portare avanti la “Comune Integrazione differenziata”.

Qualche giorno prima del referendum britannico, lo psicanalista Massimo Recalcati, analizzava e commentava, così, il mito della “Torre di Babele”: “Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? E’ quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: ‘un solo popolo’ e ‘una sola lingua’. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi” (“La Torre di Babele, simbolo eterno dell’antipolitica”, in ‘ la Repubblica, 12 Giugno 2016).
Ma così non è per la costruzione europea, della quale la realtà della storia fatta insieme fino ad ora e il sogno della futura costituzione comune suonano così: “Noi, Popoli d’Europa, diversi e uniti….”.

PS.
“Diario europeo”: tornerà in ‘edicola’ agli inizi di Settembre. Augura ai lettori e alle lettrici un buon riposo e buone letture.




Il cantiere del Coordinamento Periferie

Periferie Cantiere Aperto… ovvero inclusivo, che si apre al confronto presentando un’idea del come intervenire e del come collaborare insieme con le Istituzioni, con le università e i centri ricerca, con il mondo del lavoro e delle associazioni, con le Imprese sociali e private, e con tutti i soggetti che intervengono nella quotidianità del  nostro vissuto day-by-day continuando ad essere presenti nei nostri territori.

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giovedì 26 maggio 2016 – ore 16.00 – Città dell’Altra Economia

Largo Dino Frisullo-Testaccio

Nel corso di questi anni, salvo rare e positive eccezioni, abbiamo assistito al connubio periferie uguale emergenze. La risposta è sempre stata, nel migliore dei casi, una mera amministrazione del problema. Spesso con interventi che avevano il solo scopo del ripristino di sicurezza e legalità e quindi senza nessuna capacità progettuale di indirizzo e di scelta che avesse l’orizzonte lungo e work in progress per la città del futuro. Le periferie, vecchie e nuove, in questi anni hanno subito mutazioni, cambiamenti, migrazioni che non conosciamo. Un fiato corto che relega il tema da affrontare al come “sedare” conflitti, esplosioni e violenze che di volta in volta si verificano. Una risposta emergenziale che non giunge mai al come intervenire. Programmazione, pianificazione, inchiesta, analisi dei territori sono concetti ormai, da tempo, non frequentati pur essendo essenziali per la rigenerazione urbana di cui tanti parlano. Noi ci siamo conosciuti sul campo nel marzo 2015 quando organizzammo 50 piazze contro le mafie, purtroppo unica e pubblica risposta a mafia capitale. E’ da questo rapporto che abbiamo condiviso la necessità di dire la nostra sul tema periferie. Nella nostra proposta quei concetti li abbiamo usati e declinati avendo ben presente che il cambio di paradigma che riteniamo necessario e urgente richiede disponibilità culturale, conoscenza delle situazioni, condivisioni e assunzioni di responsabilità. Nel nostro dna c’è la consapevolezza della necessità di collaborare insieme istituzioni, società civile e settori produttivi a forte valenza sociale. Concetti che ci hanno consentito di cooperare e di incontrare altre competenze e passioni che esistono e che ci hanno arricchito. Inviteremo i candidati sindaci a venire ad ascoltare perché le valutazioni e il “da fare” spetta a loro. Affermiamo che su questi contenuti c’è la nostra disponibilità alla collaborazione, con chiunque sarà eletto o sarà all’opposizione.

Il racconto delle periferie

Corviale, Statuario, Torbellamonaca, Torpignattara, TorreSpaccata

VIDEO DELL’EVENTO

 

Fonte : romainpiazza.it apri l’articolo originale



La notte delle Periferie, collegati e di’ la tua

Donne e uomini che da sempre hanno testa, cuore e piedi nelle Periferie di Casalotti, Corviale, Statuario, Tor Bellamonaca, Tor Pignattara e Torre Spaccata, nonché a persone che ci lavorano, le vivono, le studiano dando un contributo al loro vissuto quotidiano e alle comunità.

La notte delle Periferie…aspettando il sorgere dell’alba collegati e di’ la tua

I dati delle ultime elezioni ci confermano la centralità delle comunità che inascoltate ci interrogano sul come ricostruire un sistema sociale culturale ed economico che metta al centro i territori e i suoi residenti.
Le ricostruzioni necessitano di fondamenta e muri portanti, hanno bisogno di tempo, pazienza, umiltà e di orecchie da elefanti per l’ascolto fuori da arroccamenti di competenze e dei ruoli ricoperti.
Ricominciamo dopo elezioni a parlare dei territori con i protagonisti di tante battaglie.

www.radioimpegno.it/

Radioimpegno

La lunga notte delle periferie (formato stampabile)




Londra, 23 giugno 2016, remain or leave?

Scrivo queste note da Forest Hill (Londra).

Giovedì 23 giugno, alla domanda: “Il Regno Unito deve rimanere come membro dell’Unione Europea o deve lasciare l’U.E.?”, i cittadini e le cittadine britannici hanno risposto: Leave-Lasciare.

Non è servito a nulla l'”Accordo speciale” siglato il 16 febbraio 2016 per dare al Regno Unito uno statuto particolare di membro dell’Unione. Diario europeo, il 16 febbraio 2016, all’indomani di quello che va ancora considerato l’ultimo atto di generosità e di responsabilità dei 27 Paesi membri dell’U.E. per dare alla Gran Bretagna una possibilità di sentirsi ancora membro effettivo e convinto della Unione – faceva due considerazioni dalle quali vogliamo ripartire.

La prima. Il primo ministro David Cameron, scrivevamo

“non ha investito nel delineare e approfondire una forte politica europea del suo Paese, evidenziando e sottolineando, ad esempio, i vantaggi per il Regno Unito della partecipazione al vasto Mercato unico europeo. Non ha neppure provato ad aprire un confronto duro e serrato nel suo stesso partito”.

Le conseguenze di questa errata impostazione politica le abbiamo potuto verificare durante una lunga campagna referendaria, nella quale sono emerse gravi segnali di una situazione sociale, etica e valoriale che devono preoccupare tutti i cittadini e le cittadine britannici – qualsiasi sia stata la scelta fatta da ciascuno nelle urne referendarie.
Durante le ore terribili successive all’assassinio della deputata Jo Cox, tutti gli europei hanno dovuto constatare

“il tragico fallimento dell’establishment britannico, e naturalmente c’è la responsabilità di Cameron: non aveva capito quanto alta fosse l’intossicazione portata dal veleno anti europeo nel Paese, e nello stesso partito”

(così si esprimeva sul Corriere della Sera, il 17 giugno 2016, Graham Watson, britannico, già presidente dell’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (Alde) al Parlamento europeo nel 2011-2014).

Alla memoria della splendida Jo Cox, assassinata mentre svolgeva la sua doverosa azione democratica tra la sua gente, vogliamo dedicare le parole dal suo conterraneo John Donne (Londra 1572-1631), ancora scritte nella memoria di tutti i tempi, aggiungendovi una connotazione di genere per onorare la bellezza della pur breve vita di Jo:

“Nessun-a uomo-donna è un’isola,/ completa in se stessa;/ ogni uomo-donna è un pezzo del continente,/ una parte del tutto./ Se anche solo una zolla/ venisse lavata via dal mare,/ l’Europa ne sarebbe diminuita,/ come se le mancasse un promontorio,/ come se venisse a mancare/ una dimora di amici tuoi,/ o la tua stessa casa”.

In effetti una “zolla” della terra britannica è stata “lavata” da una mano assassina; Europa è “stata diminuita” di una componente della sua storia e della sua vitalità. Se nessun britannico e nessun europeo lo dimenticherà, allora la domanda fatidica: “Per chi suona la campana?” potrà avere la risposta sempre necessaria, impegnativa e inequivocabile : “Essa suona per te”. E sarà la risposta veramente strategica per tutte le generazioni di europei. La campana suona per te, Britannia. La campana suona per te, Europa.

Jo Cox si era laureata a Cambridge, dove insegnava ed insegna lo storico australiano, Christopher Munro Clark, il quale nel 2013 ha pubblicato una monumentale ricerca storica sulla prima guerra mondiale, dal titolo: “I sonnambuli. Come l’Europa è andata alla guerra nel 1914” (pubblicata in Italia dall’editore Laterza).

“Siamo ancora in tempo per evitare una nuova edizione aggiornata a questo secolo. A meno di continuare a far finta di nulla, mentre il campo della politica ingiallisce e nelle praterie dell’antipolitica crepitano le fiamme”

(Lucio Caracciolo, “L’Europa della paura e i politici sonnambuli”, in: la Repubblica 17 giugno 2016).

La seconda considerazione di Diario (16 febbraio 2016) diceva:

“due debolezze sono a confronto, una Gran Bretagna alle prese con i suoi specifici conflitti ideologico-culturali e sociali, che scarica il tutto su una Unione Europea perennemente a metà del guado di un processo di integrazione mai compiuto; sul cui percorso di completamento annaspa e non riesce a trovare una strategia comune e condivisa. Si chiede Etienne Davignon: “ La domanda è: dovremmo ripensare a un nuovo giuramento? Io credo che sia arrivato il momento di farlo”.

Sì, è giunto il momento di nuovamente compromettersi con l’unico futuro possibile per il continente europeo. La sua Unità. Ma, quale? Come? Con chi?

Mentre attendevo l’esito del Referendum (anche per attenuare un poco l’ansia dell’attesa, mentre l’altalena dei risultati arrivavano dalle numerose circoscrizioni britanniche, con lenta ma, alla fine, con inesorabile determinazione ) mi sono “distratto” con la lettura dell’ultimo volume di Andrea Camilleri (“L’altro capo del filo”, maggio 2016), in compagnia del commissario Montalbano e mi sono imbattuto in questa inattesa e bella pagina:

“…il vrazzo di molo indove lui s’attrovava erano stati divisi in tante sezioni tutte transennate. Taliati da lontano, parivano ‘na specie di labirinto. Gli vinni logico pinsare che erano meglio ‘sti transenne mobili chiuttosto che mura e filo spinato come stavano pinsanno di fari tanti paesi europei”. Poi, in compagnia della sua solitudine, diresse la sua parola al vicino: “Chi pensi tu dell’Europa? spiò al grancio che dallo scoglio allato lo stava a taliare. Il grancio non gli arrispunnì. “Prifirisci non compromittiriti? Allura mi compromitto io. Io penso che dopo il granni sogno di ‘st’Europa unita, avemo fatto tutto il possibili e l’impossibili per distruggerinni le fondamenta stisse. Avemo mannato a catafottirisi la storia, la politica, l’economia ‘ncomuni. L’unica cosa che forsi restava ‘ntatta era l’idea di paci. Pirchì doppo avirinni ammazzati per secoli l’uni con l’autri non nni potivamo cchiù. Ma ora ce lo semu scordati, epperciò stamo attrovanno la bella scusa di ‘sti migranti per rimittiri vecchi e novi confini coi fili spinati. Dicino che tra ‘sti migranti s’ammucciano i terroristi ‘nveci di diri che ‘sti povirazzi scappano dai terroristi’. Il grancio che non voliva esprimiri la so pinioni prifirì sciddricari nell’acqua e scompariri” (p. 85).

Improvvisamente, questa lettura mi è parsa una sorta di parabola di questa Europa incerta, indefinita, contraddittoria. E l’urgenza di una assunzione di responsabilità piena, definitiva, da parte di individui, popoli e Stati mi è parsa essere la risposta necessaria alla ‘campana che suona’.
I cittadini e le cittadine della Gran Bretagna si sono, dunque, espressi. I paesi membri della Unione sono ora 27. Il Regno Unito è un Paese “terzo”. (Se le diverse componenti dei “popoli britannici” – ad esempio la Scozia, ma anche la Irlanda del Nord – non condivideranno questo approdo, dovranno trovare il modo di dirlo. Ci vorrà del tempo. Molto tempo. Mentre non c’è più tempo per tergiversare sulle conseguenze del Referendum).

“Out is out”. Ventisette Paesi membri della Unione conoscono bene i capisaldi dei Trattati: nelle prossime ore (non mesi e neppure settimane di stanche discussioni o inattuali negoziati) il Governo della Gran Bretagna dovrà formalizzare al Consiglio Europeo (dove tutti i 27 Paesi membri sono presenti) la loro richiesta di recesso. “Tertium non datur”.

Le attese dei popoli europei – convinti membri di questa Unione – e il compito dei Governi degli Stati membri di questa Unione richiedono una piena e consapevole assunzione di responsabilità nel delineare il destino della integrazione europea.
Subito, a partire da queste ore, possiamo e dobbiamo, dunque, riprendere il cammino della integrazione, approfondendo l’unico percorso utile per tutti i Paesi e per tutti i popoli europei: quello di una “integrazione differenziata ed univoca”, nel quadro comune di una Europa unita, voluta e tenacemente promossa da tutti i membri della Unione.
Ripensare a “un nuovo giuramento” ( a cui ci invitava Etienne Davignon, uno dei padri della costruzione europea) non significa inerpicarsi per sentieri di sogno indeterminato.

Utilizzando l’attuale “Trattato sull’ Unione europea”, da una parte, si tratta di proseguire il percorso della integrazione dei Paesi che non hanno adottato la moneta unica, intensificando la integrazione delle politiche comuni necessarie ed adeguate alla complessità dell’essere liberi e forti nella vastità e complessità del mondo globale ed interconnesso. Dal mercato unico, al digitale, all’innovazione tecnologica, ad una nuova fase di industrializzazione, alla comune sicurezza dei nostri popoli.

La consapevolezza che deve animare questa importante componente della Unione è che – anche se al di fuori della zona euro e della integrazione politica – il mero “mercato unico”, non può bastare a dare ai propri popoli una certezza di stabilità nel mondo globale. Un soloesempio. In tema di lotta al crimine organizzato, la strada più efficace è rappresentata da accordi multilaterali e non bilaterali. Si pensi alla minaccia del terrorismo. Si pensi ai crimini economici. Si pensi al traffico degli esseri umani. Tutte queste attività criminose passano attraverso infrastrutture illegali che hanno diramazioni in ogni singolo paese. E’ possibile combattere da soli? Occorrono infrastrutture di “intelligence” per condividere informazioni, con paesi amici, dunque con l’Europa unita. Occorre che i criminali siano inseguiti, arrestati e processati oltre le singole giurisdizioni di competenza. Dunque abbiamo bisogno di una stabile, fiducia e di istituzioni comuni, europei. La conclusione è che il solo “mercato comune delle merci” non basterà ai Paesi che pure scelgono un modello di integrazione non-politica.

Nello stesso tempo, i Paesi che hanno adottato la moneta unica – senza subire sospetti e neppure tentativi di invasioni di campo – devono poter procedere ancora più speditamente verso il completamento della Unione economica e monetaria e la costruzione di una Unione Politica. Necessaria , indispensabile per sostenere l’impegno di una moneta unica, di fronte a mercati mondiali: delle merci, delle monete e delle istituzioni globali connesse.
L’impatto positivo di questa più intensa integrazione (“cooperazione rafforzata”, dice l’attuale Trattato) dei Paesi “euro” si estenderà certamente anche verso i Paesi, non Euro, membri della stessa, unica Unione europea. Ecco alcuni esempi di una “integrazione differenziata” dentro una condivisa scelta di Unione Europea, con le sue Istituzioni, ancora meglio e di più, democratiche di quelle vigenti nel modello di governance attuale, tutta da ripensare.

Molte, e altre, fasi dovrà affrontare questo percorso di Unità Europea.

“Il grande errore della mia generazione – ha dichiarato Bernard-Hery Lévy, in un recente dibattito a più voci – è stato credere che l’Europa fosse fatta, che fosse un lavoro finito, che fosse iscritta nel senso della Storia e che qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe rimasta e andata avanti. Non è così”

(cfr. “Il Corriere della sera, 20 giugno 2016).

Appartengo a quella generazione; quell’errore mi appartiene. Imparo giorno per giorno, perciò, la lezione, affinché questa Europa, diversificata e unita, possa e debba incontrare e fare la Storia. E’ l’unico modo per vivere il presente non da “sonnambuli”