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The hateful one

di Luca ReaDocumentario  Italia 2021

Il film è innanzitutto una lunga chiaccherata/intrevista di Quentin Tarantino. Lui è notoriamente appassionato dei western-spaghetti e di tutto il cinema di genere italiano di quegli anni; in particolare ha sempre amato Corbucci (racconta di essere stato tentato di scrivere un saggio su di lui, intitolandolo – in riferimento a LeoneL’altro Sergio) e dimostra di conoscerne perfettamente la filmografia. Si comincia con i disegni di Giordano Saviotti che raccontano tutto il non detto in C’era una volta a … Hollywood sull’esperienza in Italia di Rick Dalton (Leonardo Di Caprio): a pranzo con Corbucci e la moglie Nori (riconosciamo la “Taverna Flavia”, tempio della Hollywood sul Tevere degli anni ’60, ’70) lo confonde con Sergio Leone e, subito dopo, gli dice di aver visto in aereo un pessimo western italiano (è il suo Navajo Joe); il regista gli dice di essere poco propenso a prenderlo visto il suo atteggiamento ma Rick lo convince dicendogli: ”Io sono bravo nei western: è irrilevante se la storia o il regista mi piacciono o no” ma  quando gira si rende insopportabile: è disgustato dal caos del set, tratta tutti male e recita quando gli pare. Così i suoi successivi film in Italia saranno con registi minori e Corbucci non lo chiama più. Poco dopo vediamo lo stesso Corbucci raccontare, in un’intervista, di come abbia aggirato le manie da Actor’s Studio di Tony Musante, che chiedeva di potersi isolare a riflettere per rigirare una scena con dei lievi cambiamenti, risolvendo con la controfigura. Guidati da Tarantino entriamo nel vivo della produzione western di Corbucci: lui ci ricorda la grande rivoluzione operata da Leone nel genere: prima di Per un pugno di dollari in Italia si producevano pellicole che erano sfocate copie degli originali americani; lo stesso Corbucci aveva diretto Massacro al Grand Canyon, con James Mitchum, il figlio di Robert, ma già con il successivo Minnesota Clay con Cameron Mitchell viene fuori la sua vena aspra e violenta (“da lui ho imparato la cattiveria: era proprio cattivo e sanguinario” dice di lui un, altro testimonial, il regista Ruggero Deodato, allora suo aiuto). Prima della decisiva svolta di Django, arrivano i meno riusciti Navajo Joe, con l’allora poco noto Burt Reynolds e Johnny Oro, interpretato dal cormaniano Mark Damon. E’ lo stesso Franco Nero ad introdurci sul set sporco e fangoso di Django, divenuto un cult già dall’uscita tanto che Corbucci lo volle protagonista di altri tre westren; Il mercenario, con Musante, Gli specialisti con Mario Adorf e Vamos a matar companeros, insieme, a Tomas Milian; lui conferma che Corbucci (lo dice lui stesso in un’altra intervista) voleva fare dei film di sinistra: con i cattivi assimilabili ai nazisti e con un eroe (non necessariamente un buono) che riscatta gli oppressi. Il regista era così convinto del carisma di Nero, da affidare a malincuore il ruolo di protagonista de Il grande silenzio a Jean-Louis Trintignant quando l’attore aveva scelto partire per Hollywood. Vediamo scene degli ultimi tre titoli: l’imperfetto I crudeli con Joseph Cotten, il quasi altmaniano La banda di J. E S, (rispettivamente Tomas Milian e Susan George) e, infine, il comico Che c’entriamo noi con la rivoluzione? con Paolo Villaggio e un palesemente riluttante Vittorio Gassman. La conclusione di Tarantino è che mentre è difficile – dando per scontato (ma lui non è esattamente d’accordo) che John Ford sia il numero 1 del western – stabilire chi sia il numero 2 (Raoul Walsh?, Delmer Daves?, Sam Peckinpah?), tra gli italiani, dopo Leone c’è sicuramente Corbucci. Nei titoli di coda, lui si diverte ad immaginare un’improbabile e godibilissima spiegazione dello scatenarsi della vendetta di Django in seguito alla visita alla tomba di una non specificata Mercedes.

Il western-spaghetti, secondo alcuni di noi ai tempi del suo successo, non era altro che una metafora del nostro cinema: un eroe male in arnese ma furbissimo (il produttore) imbroglia, tradisce e ammazza sino ad arrivare al malloppo o a raccogliere tante taglie sui fuorilegge che uccide (il finanziamento del film). L’idea ci divertiva e non era del tutto campata in aria (gli americani raccontavano l’epopea pioneristica, noi la nostra arte di arrangiarsi) ma non valeva per Corbucci: lui voleva caratterizzarsi come autore degli western più sanguinari (vedi Deodato) della storia. In realtà il genere era uno degli esempi di come il nostro cinema di quegli anni abbia fatto scuola nel mondo per la enorme capacità artigianale dei nostri autori, produttori e tecnici di creare, con budget risibili rispetto alle mega-produzion,i prodotti efficacissimi. E Tarantino, che per il suo primo film Le iene aveva dovuto fare miracoli con i pochi soldi a disposizione, lo ha capito benissimo e, sicuramente per merito della produttrice Nicoletta Ercoli e degli autori, qui si concede generosamente, ridando un clima che anche da noi è stato da un pezzo dimenticato. Il regista Luca Rea (autore del prezioso Liberi tutti che, in un’ora, racconta le mille sfaccettature delle tv private ai loro tempestosi esordi) e il co-autore Steve Della Casa sono perfetti per arricchire le parole di Tarantino con disegni, interviste e calibratissimi spezzoni di film che – come loro stessi dichiarano – fa amare il documentario anche da chi non sa neanche chi sia Django. Della Casa, in particolare, prosegue il suo geniale discorso di riscoperta del cinema italiano dei generi: da Uomini forti sul peplum, a  I tarantiniani , carrellata di autori amati da Tarantino ( con la mitica dichiarazione di Castellari sui titoli dei film;” se te fanno di’ “me cojoni!” incassano, se dici “e sti cazzi?” nun fanno ‘na lira”), al più serioso Lorenza Mazzetti – Perché sono un genio, bella riscoperta di una regista e scrittrice dimenticata, a Nessuno ci può giudicare sul musicarello “politico”, a Bulli e pupe, carrellata sui giovani degli anni ’50 visti dal nostro cinema, a Boia, maschere e segreti – l’horror italiano degli anni Sessanta, fino a Siamo in film di Alberto Sordi? Un percorso importante e da difendere gelosamente dagli artigli delle ignobili vestali del cancel culture; anche in questo senso, Django e Django è già una pietra miliare.

Antonio Ferraro

 




Un bel thriller quasi femminista nel deserto

di Robert Connolly. Con Eric BanaGenevieve O’ReillyKeir O’DonnellJohn PolsonJulia Blake Usa- Australia 2021

Il famoso detective federale Aaron Falk (Bana) torna dopo vent’anni da Melbourne a Kiewarra per i funerali del suo amico Luke Hadler (Martin Dingle Wall), accusato di essersi suicidato dopo aver ucciso la moglie Karen (Rosanna Lockhart) e il figlio Billy (Jarvis Mitchell). I genitori di Luke, Gerry (Bruce Spence) e Barb (Blake), lo supplicano di restare per indagare su quelle morti, che il paese ha liquidato nell’ipotesi omicidi-suicidio. Aaron – che, a sua volta, era stato da ragazzo (Joe Klocek), costretto ad abbandonare il paese, insieme al padre (Jeremy Lindsay Taylor), perché a sospettato di aver ucciso la sua amica Ellie (BeBe Bettencourt) –   accetta e va a dormire nell’unico bar-albergo del paese, gestito da McMurdo (Eddie Baroo); la sera viene aggredito verbalmente e minacciato da Mal Deacon (William Zappa), padre di Ellie. Il giorno dopo incontra il sergente Greg Raco (O’Donnell), che è ancora sotto shock per aver visto i cadaveri ed è ben felice che Aaron lo aiuti nelle indagini. Il primo indizio su quale si muovono sono i bossoli trovati vicino ai corpi, diversi da quelli usate da Luke. Interrogano Jamie (James Frecheville), vicino degli Hadler, che sostiene di aver passato parte del pomeriggio con Luke a sparare ai conigli ma di essere tornato dalla nonna (Dawn KIingberg) all’ora degli omicidi; un sobbalzo di quest’ultima fa capire ad Aaron che sta mentendo. Nella scuola dove lavorava Karen, il preside Scott Whitlam (Polson) li accoglie e mostra loro la scrivania alla quale la defunta lavorava per l’ottenimento di un prestito per l’istituto e qui Falk incontra Gretchen (O’Reilly), la sua ex-fidanzatina. Durante l’indagine, i ricordi di affollano nella mente di Aaron: rammenta i tanti pomeriggi passati con Luke (Sam Corlett), Ellie e Gretchen (Claude Scott-Mitchell), le piccole brutalità di Luke su Ellie, le fragilità di lei – spaventata dal padre – e la volta in cui si erano dati appuntamento di nascosto (Ellie filava con Luke) ma lei non era mai arrivata e, quando era stata trovata morta nel fiume, lui era stato sospettato e Luke gli aveva fornito un alibi, dichiarando di essere andato con lui a sparare ai conigli (questo lo aveva formalmente scagionato ma i compaesani, convinti della sua colpevolezza, lo avevano costretto a partire). Il dottore del paese Leigh (Daniel Frederiksen) gli conferma le circostanze delle morti e lo mette in guardia dai pregiudizi dei paesani. La seconda sera lui invita a cena Gretchen e quando salgono in camera sua, il farmer e meccanico Grant (Matt Nable) – che, sapendolo interessato alla fattoria di Luke, Falk e Raco avevano interrogato – li insulta pesantemente. La mattina successiva Aaron trova il cadavere di un cane sopra la propria macchina e i muri tappezzati di manifestini che lo indicano come assassino. Sta per reagire ma il preside Scott lo calma e lo porta a casa sua dove la moglie Sandra (Renee Lim) lo invita a desistere dalle indagini: lei era grande amica di Karen ed è sicura che il violento Luke sia il vero colpevole. Anche la moglie di Raco, Rita (Miranda Tapsell), gli chiede di non appesantire il marito con un compito così psicologicamente arduo e pericoloso. Intanto nelle carte personali di Karen, Bab trova un biglietto con la scritta “Grant!?” e il farmer, messo alle strette, fornisce un alibi chiaramente falso, mentre Jamie confessa che il pomeriggio fatidico era a letto con il dr. Leigh e che aveva mentito per timore delle reazioni omofobiche dei suoi amici. In hotel incontra Sandra agitata che cerca il marito e, poco dopo, McMurdo gli racconta della ludopatia della quale il preside è affetto.

Come era abitudine di Ellery Queen alla fine dei suoi gialli: avete tutti gli elementi, a voi la (doppia) soluzione.

Il poliziesco d’oltreoceano (qui siamo in Australia) ha molteplici sfaccettature ma, volendo semplificare, quando il racconto è incentrato su di un uomo solo contro tutti possiamo azzardare due macrogeneri: il cittadino, con l’eroe (non necessariamente positivo e non necessariamente vincente) che deve vedersela con le ramificazioni della malavita che governano i bassifondi della città (film archetipo I trafficanti della notte di Jules Dassin del 1950) e il campagnolo, dove un eroe venuto da fuori combatte l’omertà di un paese sperduto e corrotto (film archetipo Giorno maledetto di John Sturges). Il primo romanzo – subito best-seller – dell’australiana Jane Harper, Chi è senza peccato (da cui è tratto il film) appartiene a pieno titolo al secondo genere (filiazione, in fondo, del vecchio western). Robert Connoly è un interessante regista, sceneggiatore e produttore australiano; la sua prima regia, The bank (storia di un genio matematico che aiuta un losco banchiere per poi distruggerlo,) nel 2001 ebbe buon riscontro internazionale e molti premi (e preconizzò il crollo finanziario degli anni successivi) ma già nel 1998 con The boys, da lui scritto e prodotto, aveva vinto a Berlino come sceneggiatore. The dry giustamente non si discosta troppo dal romanzo della Harper, arricchendolo con panorami aridissimi (nell’immaginaria cittadina di Kiewarra non piove da tempo e anche il fiume è diventato un pezzo di deserto), che ben rendono l’animo dei protagonisti (arido, dry). La fotografia talora volutamente sfocata di Stefan Duscio immerge le vicende nella giusta atmosfera soffocante; il cast è ottimo e lo stesso Bana (sicuramente scelto perché australiano e noto internazionalmente) sembra ogni tanto aggrapparsi allo spaesamento del Bruce Banner, alter ego di Hulk che lui aveva interpretato, ma, proprio per questo, rende benissimo il ruolo di investigatore che, come una cartina di tornasole, fa emergere le miserie dei cittadini di quella specie di villaggio fantasma. La Harper – e Connoly la segue fedelmente –  è erede della grande scuola hard-boliled ma con un tocco efficacemente femminista: quasi solo le donne, in quel mondo disseccato dai sentimenti, mantengono un tratto umano.

Antonio Ferraro




Almodovar: Il discreto fascino della maturità

di Pedro Almodóvar. Con Rossy De PalmaPenélope CruzMilena SmitAitana Sánchez-GijónIsrael Elejalde Spagna 2021

Janis (Cruz) è una fotografa di moda ed un giorno fa un servizio al famoso archeologo forense Arturo (Elejade). Lei, finita la sessione, va a cena con lui e gli chiede se può aiutarla a recuperare il corpo del suo bisnonno, ucciso dai falangisti insieme a tanti compaesani e con loro gettato in un fossa comune. Lui, che collabora con un’associazione che si occupa del recupero delle vittime del franchismo, le promette il suo appoggio. I due diventano amanti e dopo qualche tempo lei rimane incinta. Arturo – che ha una moglie gravemente malata e non può aggiungerle la sofferenza di una separazione – cerca di convincerla ad abortire ma lei non ne vuol sapere e decide di lasciarlo e tenere il nascituro. In clinica, si trova in stanza con una ragazza giovanissima, Ana (Smit), anche lei madre single. Poco dopo entrambe danno alla luce una bambina e tutte e due le piccole debbono trascorrere un breve periodo in osservazione. Ana va a casa dalla madre, Teresa (Sanchez-Gijon), attrice troppo presa dalla carriera per occuparsi di lei, tanto più che ha ottenuto il suo primo ruolo da protagonista in Donna Rosita nubile di Garcia Lorca, mentre Janis, tornata a casa, chiede a Elena (De Palma) – proprietaria dell’agenzia fotografica con la quale lavora e sua amica d’infanzia (che è da sempre anche un po’ innamorata di lei) – di farle riprendere subito il lavoro perché ha bisogno di guadagnare. Un giorno Arturo le chiede di vedere la bambina; va da lei e si stupisce di vedere nella piccola dei marcati tratti sudamericani, lei gli dice che ha preso dal nonno materno colombiano; lui però è sicuro che non sia sua figlia e le chiede di fare l’esame di paternità; lei si indigna e va via. A casa, però, fa – via internet – il test di maternità e scopre che la piccola non è sua figlia. Poco dopo cambia il proprio numero di telefono e un giorno, recatasi in una bar durante un intervallo di lavoro, viene servita da Ana. La invita a cena e la ragazza le racconta che la sua bambina è morta (colpita dalla “morte in culla”, un fermo cerebrale che interrompe il respiro dei neonati) e che lei è andata via di casa di fronte all’insensibilità della madre che, il quel tragico frangente, era partita per una nuova tournee. Janis le offre di lavorare per lei e la ragazza accetta e si trasferisce in casa sua. La mattina successiva Janis, con una scusa, applica a lei e alla bimba il tampone per un nuovo test e ha la conferma che Ana è la vera madre della bambina. Loro diventano amiche ed amanti ed Ana confessa di essere rimasta incinta dopo essere stata violata da tre ragazzi (dalla foto che conserva Janis vede che uno dei tre è sudamericano). Una sera suona il citofono: è Arturo che chiede a Janis di scendere perché deve darle una bella notizia.  Vanno a bere insieme e lui le comunica che l’associazione ha accettato la sua domanda, così dopo qualche mese lui stesso dirigerà gli scavi. Quando lei torna a casa, Ana è rosa dalla gelosia e la tempesta di domande; alla fina lei le confessa la verità sulla bambina. La situazione sembra precipitare ma il ritrovamento dei corpi delle vittime del franchismo vede di nuovo ricomporsi anche le fratture affettive dei personaggi.

Madres parallelas ha aperto quest’anno la Biennale di Venezia. E’ stato ovviamente ben accolto dalla critica ma, nel fondo, con una certa rispettosa freddezza: scontato il doveroso omaggio al Maestro, il tono dei commenti lo liquidava spesso come un’opera di Almodovar meno riuscita, riscattata, semmai, dalla potenza del discorso politico sulla necessità di mantenere la memoria di quel tragico periodo. Naturalmente a quella parte di nostri critici pigramente abituata a giudicare l’aderenza alla linea anziché il valore intrinseco dei film, questo giudizio calzava come un guanto. Così però non si colgono i segnali di un Almodovar maturo e profondo, coerente con l’ispirazione che gli ha dettato l’intenso Dolor y gloria, che – alla luce di questo ultimo film – diventa anche una dichiarazione artistica: attraverso la lacerante esposizione della sua memoria e delle sue paure ci comunica, per così dire, una nuova estetica. Sono ormai nello sfondo gli allegri caleidoscopi di Pepe, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, sino allo sfacciato quasi-musical Amanti passeggeri, mentre i fotoromanzeschi Tacchi a spillo, Il fiore del mio segreto e La pelle che abito acquistano una nuova luce. Come in Parla con lei, Almodovar ha bisogno di un clima da romanzo rosa per raccontare sentimenti e dolori profondissimi e soprattutto per accostarsi al grande mistero dell’amore. Un po’ come per i protagonisti del geniale Una relazione privata di Frédéric Fonteyne, per lui il tabù più difficile da superare non è certo quello del sesso comunque coniugato ma l’accettazione della profondità degli affetti. In questa chiave Madres parallelas è un prezioso cardine della sua filmografia e la denuncia degli orrori della guerra civile, appare quasi (non suoni irrispettoso verso quelle tragedie) uno schermo per esporsi ai sentimenti con più libertà.

Antonio Ferraro

 

 




L’Arminuta

di Giuseppe Bonito. Con Sofia FioreCarlotta De LeonardisVanessa ScaleraFabrizio FerracaneElena Lietti. Italia 2021

Siamo negli anni ’60. Una ragazzina – non ne sapremo mai il nome: lei è l’Arminuta (Fiore), la ritornata in abruzzese – viene trascinata dal rabbioso padre (Giacomo Vallozza) in una povera casa di campagna. La accolgono una donna incupita (Scalera) e una vivace bambina, Adriana (De Leonardis). Scoprirà presto che la donna è la sua vera madre, che, per povertà, l’aveva affidata ad una lontana cugina benestante, Adalgisa (Lietti), che non poteva avere figli. La sera l’Arminuta conosce il resto della sua vera famiglia: il duro e silenzioso padre (Ferracane), i selvatici fratelli minori, Sergio (Stefano Petruzziello) e Riccardo (Giovanni Francesco Palombara Fiorita) e il fratello diciottenne Vincenzo (Andrea Fuorto). Lei non riesce a capire per quale ragione quella che riteneva la madre l’abbia abbandonata e non si faccia più né vedere né sentire; l’unica attenzione che le riserva è quella di inviare ogni tanto una busta con dei soldi ma questo la sconcerta ulteriormente ed una volta che li strappa davanti alla madre, questa la picchia con rabbia. Le sole persone che le mostrano affetto sono Adriana e Vincenzo. Quest’ultimo una sera le porta sui calcinculo del suo amico giostraio rom (Giulio Bernak), regalando all’Arminuta pochi istanti di serenità. Vincenzo – che già da adolescente era scappato dagli zingari – le accompagna e poi va da loro. Torna il giorno dopo, accolto dagli schiaffi e le cinghiate del padre.  Un giorno la ragazza li porta al mare; lei, dopo aver fatto il bagno con Vincenzo (Adriana rimane a riva, bloccata dalla paura di quell’elemento che non aveva mai visto), va nella casa di vacanza della sua precedente famiglia ma non trova nessuno; nel villino adiacente la sua amica Pat (Aurora Barulle) e la madre la invitano a fare merenda ma non sembrano sapere nulla di Adalgisa. Vincenzo – che le ha mostrato il piccolo tesoro in gioielli frutto delle sue scappate con gli zingari – la notte le si avvicina voglioso e la accarezza intimamente. Poco dopo, in motocicletta con il giostraio, muore nello scontro con un pullman. Il padre mostra la propria disperazione tirando sassi al cielo e sfidando Dio e la madre cade in un’angoscia catatonica per giorni. Intanto, l’Arminuta si dimostra una bravissima scolara e, sollecitata dalla maestra a partecipare ad un concorso letterario, vince il primo premio che – unito ai bellissimi voti – le consente di godere una borsa di studio per le superiori. Il padre e la madre sono fieri di lei ma, quando quest’ultima le dice che ha telefonato Adalgisa per assicurare il suo aiuto perché possa studiare, lei – nuovamente delusa dal silenzio nei suoi confronti – fugge disperata e, nella furia, spinge via Adriana che – risentita le rivela la verità: Adalgisa non era sterile, ha avuto una figlia dall’amante con il quale è andata a vivere ma questi ha posto la condizione che l’Arminuta tornasse dai suoi. L’incontro con Adalgisa e un pranzo (che avrebbe dovuto essere pacificatore) segnano definitivamente il destino dell’Arminuta.

Il romanzo da cui il film è tratto ha avuto un ottima accoglienza ed ha vinto il premio Campiello nel 2017. L’autrice, Donatella Di Pietrantonio, è una dentista e confessa di aver vissuto per anni la scrittura con un senso di colpa e di solitudine – simile in questo alla francese Annie Ernaux, scrittrice di grande successo che ha spesso raccontato del suo disagio di intellettuale borghese nei confronti della madre bottegaia, proletaria e dura lavoratrice – e, da questo punto di vista, L’Arminuta è certamente un racconto autobiografico; la ragazza che non trova luogo affettivo è anche la scrittrice da ragazzina, sensibile e in cerca di calore, che si scontra con il muro di un mondo inasprito dalla necessità e dalla fatica. Bonito è al terzo film e conferma la sua scelta di affidarsi a testi letterari per le proprie opere: il primo, Pulce non c’è, nasce dal bel romanzo di Gaya Raineri e il secondo, Figli, da un monologo (I figli invecchiano) che Mattia Torre gli aveva affidato prima di morire. L’arminuta è indubbiamente la sua realizzazione più matura, lui – aiutato da due solidi professionisti della produzione come Maurizio Tedesco e Roberto Sbarigia – conferma una bella mano registica e una buona capacità di racconto, in parte inficiata da una rabbiosità di fondo che non sempre aiuta il ritmo della narrazione. Rispetto ai due precedenti (che annullavano l’ironia e la levità presenti nei due testi di partenza, appesantendone il percorso narrativo), in questo la cupa rabbia ha maggior senso ma alcune tenerezze del romanzo si perdono un po’. Ridondanti (è, però, una scelta registica) ma efficaci le musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, ottimo il cast: bravissime le due ragazzine, adeguati gli altri ma quando è in scena la Scalera lo schermo si illumina di una luce speciale.

Antonio Ferraro

 




Mitreo 22 luglio 2021 estratto del confronto Melani/Angeli – video con sottotitoli


Dibattito al centro culturale Mitreo di Roma del 22 luglio 2021. In questa occasione si è discusso con le autorità di Roma Capitale e con la cittadinanza di Corviale, quartiere in cui si trova il Mitreo, del termine della concessione per la gestione del centro a favore dell’impresa Iside dell’artista Monica Melani.

Melani, attualmente curatrice del centro, ha ricordato che per poterlo tenere aperto i tecnici del Municipio XI ritengono necessarie alcune modifiche riguardanti la sicurezza; aggiustamenti che però sono assolutamente apportabili con poche difficoltà secondo l’artista.
Da parte sua Federica Angeli, delegata della Sindaca alle periferie e alla legalità, insiste invece a ricordare che secondo il Municipio XI i locali del Mitreo non avrebbero l’agibilità necessaria per poter svolgere la funzione di centro culturale, e dovrebbero piuttosto essere destinati a quella di magazzino.




Corviale ad Atene (Αθήνα) “Change the Change”

Si è svolto dal 6 al 10 Luglio ad Atene il secondo incontro formativo del progetto “Change the Change”, iniziativa co-finanziata dal programma Erasmus+ per la condivisione di buone pratiche sulla sensibilizzazione ambientale. In questa occasione, tra le altre sono state presentate le esperienze dell’associazione “Organisation Earth” e del centro di formazione ambientale Greco, sia con sessioni frontali che workshop di gruppo. Corviale Domani ha partecipato con tre rappresentanti, introducendo il lavoro svolto con il MasterPlan di Corviale e le molteplici linee di intervento presenti in tema di sviluppo agricolo, economia di prossimità e tutela ambientale. Il prossimo appuntamento si svolgerà a Corviale il 30-31 Luglio, prima della sessione conclusiva del progetto a Berlino.

di Aisling Pallotta e Riccardo Susigan

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Il cinema non è un romanzo

Carlo Emilio Gadda

Ho per le mani il libricino edito qualche mese fa da Adelphi La casa dei ricchi di Carlo Emilio Gadda, trattamento per il cinema del suo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Nel 1948 le “miserrime configurazioni argentine” (così lui chiama le sue difficoltà economiche) lo spingono ad accettare la proposta della Lux Film di ricavare una sceneggiatura dal suo romanzo che la rivista Letteratura stava pubblicando a puntate (ne erano, al momento, uscite solo cinque).

Nasce così il Palazzo degli ori: questo il titolo che Gadda diede al primo trattamento, che ebbe – come era nella natura e nella creatività dello scrittore – un complesso e travagliato cammino di scrittura.

La società cinematografica – sia pur guidata da un raffinato intellettuale, il musicologo Guido Maggiorino Gatti – non era affatto soddisfatta dello scritto che (in varie puntate e con vari ripensamenti) arrivava ai suoi lettori: la struttura del romanzo e, di conseguenza, del trattamento cinematografico, era troppo complessa, con troppi personaggi e sottotrame e, soprattutto, non era così linearmente inserita nel plot la scoperta dell’assassina.

Ritratto di Guido Maggiorino Gatti

D’altronde, il povero Gadda non era certo un giallista (anche se notoriamente amava il genere) e non a caso nel romanzo (uscito nel 1957) il whodunit – come si chiama la scoperta del colpevole in gergo – è appena accennato (lo scrittore aveva promesso all’editore Livio Garzanti un sequel chiarificatore che non vide mai la luce).

La prima copertina del romanzo

Questa apparente anomalia non era certo estranea nella produzione di Gadda, così splendidamente intenso nell’accompagnare il lettore nei meandri della proprie ansie narrative ed emotive da, quasi, non tollerare che le vicende narrate si facessero cronaca spicciola. Di fatto anche nel suo capolavoro (comunque il suo testo più personale e sofferto), La cognizione del dolore non sapremo mai davvero se abbiamo letto di un matricidio o solo di una fantasia, nata dall’amore totalmente pervasivo e denso di oscure angosce del protagonista per la madre. E, in fondo, non importa: c’è lì tutto il Gadda ironico, dolente e fantastico nel ricreare immagini, suoni e neologismi, che rendono cupamente immaginifico  anche il linguaggio più crudamente quotidiano.

La Lux gli chiese di ridurre ad un quarto il corposo trattamento e di semplificarne il plot. Nacque così La casa dei ricchi che in 40 scene scarnifica e riassume la trame del romanzo, con il commissario Ingravallo che (a differenza del romanzo) raggiunge in Sardegna l’assassina (la cameriera Virginia che ha ucciso la padrona Liliana per sostituirsi a lei) mentre sta per strangolare la vecchia nonna.

Non se ne fece niente e nel ’59 il produttore Peppino Amato – pressoché analfabeta ma di sicuro istinto – acquisì i diritti del libro e convinse Pietro Germi a dirigere il film, che nel ’59 uscì con il titolo Un maledetto imbroglio, il più bel poliziesco della storia del cinema italiano e, praticamente, un film perfetto (ai tempi fu accolto con sussiegosa benevolenza dalla critica – allora quasi tutta comunista – che non concedeva granché al “saragattiano” Germi).

La storia del romanzo vede il commissario Ingravallo indagare su di un furto nella casa al centro di Roma di una stramba signora, che frequentava ambigui giovinastri e, dopo una settimana, sull’omicidio a scopo di rapina della religiosissima signora Liliana nello stesso stabile. Le due indagini parallele, nel romanzo, avranno pochi elementi di contatto ma il racconto sviluppa tutto il sarcastico disprezzo che Gadda provava per la corrotta e sorniona borghesia e, in fondo, per le donne di quel ceto, conniventi, nella sua visione (vedi Eros e Priapo), con le peggiori storture della società.

Germi.- insieme ai co-sceneggiatori Alfredo Giannetti e Ennio De Concini – ne asciuga trama e personaggi (ad es. la prima rapina vede come vittima il vicino gay che nel romanzo era un testimone reticente) e cambia completamente il finale: l’assassino è uno dei gigolò che circolavano nel palazzo e che, pentito, ha sposato l’ultima cameriera di Liliana, sua complice nel furto finito male (ma il commissario lascerà andare la ragazza – una indimenticabile Claudia Cardinale – impietosito della sua gravidanza).

La babelica – quasi atonale – confusione di persone, situazioni e lessico, che fa di Gadda uno dei maggiori letterati italiani del secolo scorso, nel film si sistema in bozzetti, nel tono tra l’ironico, l’indignato e il teneramente sarcastico che sarà alla base del suo splendido Signore & signori del 1966.

Il libricino ci consente così una riflessione sui rapporti tra il cinema e la letteratura. Si è sempre sostenuto che gli scrittori sono i peggiori sceneggiatori delle proprie opere e se ne capisce anche il perché: da un lato la scrittura letteraria e la sceneggiatura sono molto diverse tra loro, dall’altro, l’autore non potrà non difendere la propria creatura dalle semplificazioni e dagli stravolgimenti della riduzione cinematografica.

Esistono sempre delle eccezioni: una è senz’altro la serie televisiva Montalbano ma Camilleri nasce scrittore televisivo e i suoi romanzi – tutti successivi a quell’esperienza – sono già, nei fatti, delle sceneggiature.

Da Un maledetto imbroglio ci viene invece una conferma: Germi (che del romanzo aveva letto solo metà, annoiato dai suoi funambolismi linguistici) rifuggiva come la peste le – per sua fortuna rare – incursioni di Gadda sul set ma lo scrittore, quando vide il film, lo apprezzò moltissimo, considerandolo – come era – un bellissimo poliziesco più che la riduzione della sua opera.

Tutto nel film farà epoca: l’essere stato il primo – mai raggiunto – esempio di vero polar italiano, il cast perfetto, la cruda ed avvolgente fotografia di Leonida Barboni e, non ultima, la bellissima canzone Sinnò me moro che Carlo Rustichelli affida alla figlia sedicenne Alida Chelli e che segnerà un svolta epocale nella tradizione della canzone romana.

Solo nel ’96 avremo una riduzione fedele del Pasticciaccio: Ronconi firma la sua ultima regia teatrale con un operazione, che per molti versi, ci riporta al suo Orlando Furioso, restituendo il mosaico linguistico ed umano del romanzo con un cast pieno di grandi attori (compreso un giovanissimo Favino).

Una scena del Pasticciaccio di Ronconi

 Ma, appunto, era teatro.

Antonio Ferraro




Nomadland

di Chloé Zhao. Con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Charlene Swankie, USA 2020

Fern (McDormand), vedova e senza figli, è rimasta nel piccolo centro di Empire, pieno di ricordi della sua vita serena accanto al marito Bo, anche quando l’attività del cartongesso che dava lavoro alla comunità si è esaurita. Quando non rimane più nessuno se non l’anziano guardiano Gay (Gay DeForest), sale sul suo van che ha attrezzato come un piccolo camper e parte. La sua pensione è insufficiente anche per la sua vita di quasi vagabonda e lei deve integrarla con lavori saltuari, talora facendo l’operaia stagionale ad Amazon. Qui fa amicizia con Linda (May) che le parla di Nomadland, un’area dedicata a quelli come loro, fondata da Bob Wells (se stesso) dove i nomadi a quattro ruote possono parcheggiare senza rischio di essere scacciati dai guardiani e condividere il poco che hanno con gli altri. Nel campo conosce l’anziana e gentile Swankie (Swankie) e il bel Dave (Strathairn), con il quale forse potrebbe nascere un sentimento. Regala anche un accendino al giovane biker Derek (Derek Endres), nomade per scelta. Swankie le chiede di aiutarla ad alleggerire il proprio van perché sta per partire per l’Alaska: ha una malattia terminale e vuole tornare a vedere le rondini che nidificano in una parete di roccia su un fiume. Dave la fa arrabbiare perché, nel maldestro tentativo di aiutarla, le rompe i piatti che erano il suo solo ricordo di famiglia; quando però lui si ammala lei lo accudisce, preparandogli il brodo di pollo Campbell. Poco dopo lui trova lavoro in un grill e fa assumere anche lei. Non fanno nient’altro che lavorare e, la sera, andare a bere ed a ballare un po’ ma stanno bene insieme. Un giorno arriva al lavoro Cat (Cat Clifford), il figlio di Dave che gli comunica che sta per nascergli un figlio e vorrebbe che lui tornasse a casa. Lui – che si sente in colpa per essere stato sempre assente – accetta e invita Fern ad andare a trovarli. Dopo un po’, lei si decide e lo trova sereno con la famiglia ed il nipotino; tutti la accolgono affettuosamente e Dave, dopo qualche giorno, le chiede di rimanere. Lei è tentata ma il mattino dopo saluta e va via. Anche la benestante sorella (Emily Jade Foley) – dalla quale è andata per prendere in prestito i soldi che le servono per riparare il vetusto van – le chiede di restare ma lei non ce la fa. Swankie le manda un filmato che testimonia come, prima di morire, abbia potuto rivedere la nascita dei rondinini e Bob le confessa di aver scelto quella vita dopo la morte del figlio quattordicenne e di essere convinto che, nel cammino della vita, prima o poi, vivi e morti amati sono destinati ad incontrarsi. Fern torna nella sua vecchia casa di Empire e, come pacificata, gode di nuovo del bel panorama che si vede dal retro.

Il vagabondo ha sempre avuto uno spazio speciale nell’immaginario artistico: possiamo  citare per la pittura Caravaggio, Goya e Bruegel ma rimanendo, al cinema ed alla narrativa (Nomadland è tratto dall’omonimo racconto/inchiesta di Jessica Bruder), gli esempi non mancano: da Chaplin a Stanlio e Ollio, a Jerry Lewis, a Fernadel, da Totò a Macario il trump (figlio del tenero clown Augusto della tradizione circense) è stato al centro di molte delle loro caratterizzazioni. Non è improbabile che dietro quest’idea del buffo, tenero, talora tragicamente triste vagabondo ci sia l’antico retaggio del Carro dei Comici, la sconquassata carovana che portava gli attori nelle piazze e nelle corti di tutto il mondo. La letteratura picaresca spagnola si basa su poveri cristi che girano in cerca di qualcosa da mangiare ed un tetto provvisorio e quasi un secolo fa G.B.Shaw scoprì e fece editare la deliziosa Autobiografia di un vagabondo di William H.Davies, che racconta le sue peripezie e i trucchi di un vero senzatetto-  tra la fine dell’800 e il primo ‘900 – per sopravvivere (dal rubare le torte che le massaie mettevano in finestra a raffreddare al farsi arrestare per piccoli reati per stare al caldo). Somerset Maugham ne La luna e sei soldi racconta la vita errabonda di Paul Gaugin, alcuni dei 49 racconti di Hemingway danno un senso di rito iniziatico al vagabondare del giovane alter-ego dello scrittore, mentre i protagonisti di Furore di Steinbeck (e del successivo film di John Ford) sono operai e contadini americani in marcia con le famiglie per la crisi occupazionale degli anni ’30.  In Italia son anche usciti alcuni gialli con protagonista un vagabondo, Tre Soldi di Giuseppe Ciabattini. Molte opera della beat generation hanno al centro il girovagare degli autori in cerca di qualcosa: se stessi (il Kerouac di Sulla strada, I vagabondi del Dharma, Big Sur) o una nuova droga (Le lettere dallo Yage di William Burroughs e Allen Ginsberg). Al cinema infine – oltre ai comici già citati – vanno ricordati l’astuto clochard di Michel Simon in Boudu salvato dalle acque (Jean Renoir, 1932), lo smemorato George Wilson de L’inverno ti farà tornare (Henry Colpi, 1961), il leonino Lee Marvin de L’imperatore del nord (Robert Aldrich, 1973) e la ribelle Sandrine Bonnaire di Senza tetto né legge (Agnes Varda, 1985). Per qualche verso la Fern di McDormand/Zhao ha punti di contatto con il film della Varda ma l’animo del racconto è molto più nuovo di quanto non appaia ad una prima lettura: i protagonisti di Nomadland sono mossi, tutti chi più chi meno, da un lutto – reale o introiettato – non elaborato. Nel vederlo mi sono venuti in mente i versi di Lavorare stanca di Pavese: “Val la pena esser solo/ per essere sempre più solo?”; ecco, il film risponde: il prezzo del non essere solo (l’abbandono, la perdita, la mancanza) è più alto dei sacrifici della marginalità della solitudine. In questo la criticata scena dell’attacco di diarrea espletato in secchio è tutt’altro che gratuita: è spesso dura e sgradevole la vita da nomadi ma i dolori che ci fa lasciare alle spalle sono più insopportabili. Il film, come è noto, ha vinto il Leone a Venezia e i tre Oscar più importanti (Film, regia, protagonista) e senza la McDormand, che ha preso i diritti del libro, lo ha prodotto ed interpretato, affidandone – con coraggioso intuito – la regia alla non celeberrima ma perfetta per questo soggetto Chloé Zhao, non avrebbe visto la luce. Va detto che lei è, come al solito, bravissima attrice ma viene talora messa in ombra dalla umanissima naturalità dei veri nomadi che sono la stragrande maggioranza del cast, altra bella intuizione di un film di grande profondità.

Antonio Ferraro




Lei mi parla ancora

di Pupi Avati. Con Stefania SandrelliIsabella RagoneseRenato PozzettoLino MusellaFabrizio Gifuni Italia 2021

Nino Sgarbi (Pozzetto) è a letto con la moglie Rina (Sandrelli) e, preoccupato, per il ricovero in ospedale al quale lei di dovrà sottoporre, le ricorda la lettera che gli aveva dato prima di entrare in chiesa per il loro matrimonio, nella quale scriveva: “se mi giuri sull’altare che ci ameremo sempre come adesso, saremo immortali”. Lei non tornerà più dall’ospedale e i figli, Vittorio (Matteo Carlomagno) ed Elisabetta (Chiara Caselli), per non dargli un ulteriore dolore – ma la notizia lui l’aveva avuta dal cognato Bruno (Alessandro Haber) che, morto, gli era apparso in sogno – vanno da soli al funerale, lasciando il padre in compagnia del fedele Giulio (Nicola Nocella). Nino continua, nei mesi successivi, a parlare per ore con l’adorata moglie, trascinandosi cupamente per la casa. Elisabetta decide che gli sarebbe di grande aiuto scrivere un libro nel quale raccontare quell’amore così grande ed assoluto ed incarica un’agente letterario (Gioele Dix) di cercare uno scrittore adatto al compito di mettere insieme quei ricordi. La scelta cade su Amicangelo (Gifuni), ghostwriter per necessità (scrive finte autobiografie di calciatori, cantanti e attori), con un romanzo nel cassetto e una vita sentimentale e professionale complicata: è separato, costante moroso nel mantenimento di moglie e figlia e convivente con una ragazza giovanissima. L’accordo prevede che la Sgarbi, oltre a pagarlo per il suo lavoro, si impegni a leggere – ed eventualmente a pubblicare –  il romanzo (dal pretenzioso titolo Di cosa parliamo quando parliamo di Carver) che fino a quel momento tutti gli editori gli avevano rifiutato. Amicangelo si reca a Ro Ferrarese e raggiunge la villa Sgarbi; qui Nino gli dice che può rifocillarsi, ammirare le opere della loro bella collezione ma niente di più: lui non ha intenzione di condividere i suoi ricordi con uno sconosciuto. Rabbioso, lo scrittore intima a Giulio di portarlo in stazione ma una tempesta di neve li ferma. Di lì a poco lo raggiunge, inaspettata, Elisabetta che scoppia a piangere e, abbracciandolo, lo prega di non desistere. Il padre, più che altro per far piacere alla figlia, comincia a raccontare e, pian piano, si lascia andare a memorie piene di tenerezza. Vediamo così i giovani Nino (Musella) e Rina (Ragonese) che si conoscono e si innamorano subito, i loro momenti sereni con Bruno (Filippo Velardi) e gli amici, il matrimonio (osteggiato dai parenti di lei per via delle umili origini dello sposo); segue il loro trasferimento nella casa in campagna di lui, dove un gineceo di aspre sorelle e zie – capitanate dalla madre Clementina (Serena Grandi) – le rende la vita impossibile, tanto da indurlo a chiederle di non rimanere in quel luogo ostile: lei sulle prime gli darà retta ma poi – ricordando a promessa della lettera – torna sui propri passi e, insieme, prenderanno le due farmacie la villa di Ro. L’ultima parte del racconto è dedicata all’avventurosa ricerca e acquisizione delle opere della loro collezione d’arte, sino ad un prezioso Guercino. Nino, mentre racconta di sé, convince Amicangelo a non dispendere gli amori della sua vita e lui comincia a frequentare con nuova consapevolezza paterna la figlia Gioia (Giulia Pricigalli). Quando il lavoro è finito lo Sgarbi saluta l’amico scrittore con una frase di Pavese: “L’uomo mortale non ha che questo di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Poco dopo Bruno chiama in sogno Nino perché raggiunga lui e Rina.

https://youtu.be/hkwDa3sTaso

Lei mi parla ancora, va detto subito, non è un film avatiano: è un film di Avati, ha momenti e personaggi nei quali lo stile del regista viene fuori appieno (la festa in riva al fiume, la balera improvvisata, il cognato fan dei Radio Boys, le pettegole parenti di Nino) ma non lo si coglie come un “suo” racconto. Certo, però, il tema dell’amore che sfida tutto, la poesia di un quotidiano scandito dai tortellini e la splendida capacità di concertare attori e arredi in modo che niente stoni in un insieme assonante sono tutte ascrivibili alla poetica (e alla tecnica) dell’autore. E’ vero, pur in un racconto così concentrato, manca un vero centro narrativo (anche dal punto vista visivo: luci e chiaroscuri si alternano con eleganza ma non sempre ci fanno partecipi di un racconto) e questo rende un po’ legata la recitazione di un attore di testa come Gifuni; mentre Pozzetto, contemporaneamente tenuto ad un testo preciso e lasciato libero di esporre la propria malinconia, ci dà un Nino Sgarbi che rimarrà nelle storie del cinema. Lui sostiene, in un intervista, di aver avuto solo un’altra occasione di vero impegno attoriale, in Gran bollito Bolognini; in realtà era stato già grande in Sono fotogenico di Dino Risi che aveva sfruttato perfettamente la sua recitazione “in levare”, dandoci un personaggio profondamente delceamaro. Ora, 40 anni dopo, Avati ci consegna un Pozzetto meravigliosamente fotogenico.

Antonio Ferraro

https://youtu.be/dMVla1xqQpU



Natale in Casa Cupiello

di Edoardo De Angelis. Con Sergio Castellitto, Marina Confalone, Adriano Pantaleo, Toni Laudadio, Pina Turco. Italia 2020

La storia è nota: Luca Cupiello (Castellitto), tuttofare di una tipografia, come ogni Natale si accinge a fare il presepe, osteggiato dalla moglie Concetta (Confalone) – sulla quale grava l’onere di tutte le difficoltà familiari che il superficiale marito non percepisce nemmeno – e dal figlio Tommasino, detto Nennillo (Pantaleo), dispettoso e un po’ regressivo. I guai non mancano certo: Nennillo, profittando di un infreddatura dello zio Pasqualino (Laudadio), che vive con loro, gli ha rubato i pochi soldi che aveva con se e gli ha venduto cappotto e scarpe, mentre la figlia Ninuccia (Turco) – sposata con il ricco commerciante Nicola (Antonio Milo) per volere dei genitori – ha una relazione con Vittorio (Alessio Lapice) con il quale vorrebbe fuggire. Arrivano per il cenone Nicola e Ninuccia e quest’ultima fa vedere alla disperata madre la lettera di addio che ha scritto al marito; Concetta, in lacrime, la convince a gettarla via ma sarà l’ignaro Luca, leggendo l’intestazione sulla busta, a consegnarla al genero e sarà sempre lui ad invitare a cena Vittorio, scambiandolo per un amico del figlio e ignorando i dinieghi di Concetta, che crede dovuti a tirchieria. Esplode la tragedia e Nicola accusa i Cupiello di tener mano alla tresca. Luca, sconvolto, ha un ictus. Sul letto di morte, pianto dalla famiglia di nuovo unita (con Nennillo che rivela una dolente coscienza adulta), dopo aver involontariamente insultato il dottore (Andrea Renzi), Luca fa l’ultima gaffe: sotto gli occhi del marito, si fa promettere da Ninuccia e Vittorio (che, nel delirio della malattia, ha confuso con Nicola) di stare insieme per sempre.

È ovvio che un autore come Eduardo venga rappresentato e re-interpretato in mille modi (proprio Natale in casa Cupiello ha avuto da poco – per il Teatro di Roma – una funebre messa in scena con accenti brechtiani di Antonio Latella) e a questo film di De Angelis – e alla generosa produzione Picomedia – trasmesso il 23 si può certamente riconoscere il merito di aver portato un gran pezzo di teatro con un ottimo cast a trionfare nella prima serata di Rai1. De Angelis ha al suo attivo una bella filmografia, nella quale spiccano lo splendido Indivisibili e l’intenso Il vizio della speranza e, inevitabilmente, ha dato un forte tocco personale all’operazione: i suoi attori-feticcio (la moglie Pina Turco e il bravissimo Massimiliano Rossi, nel cameo fuori testo di un artigiano dei presepi) le scenografie, i costumi e le luci cupamente desolate ci portano nel suo mondo ma contribuiscono a travisare il testo originale (deve essere questa la ragione per la quale – pur in un assoluto rispetto dei dialoghi e del plot della sua commedia –  Eduardo De Filippo viene indicato solo come soggettista). Non va dimenticato che alla prima stesura, Natale in casa Cupiello (messo in scena per la prima volta dalla Compagnia del Teatro umoristico “I De Filippo” a Natale del ’31) era un atto unico, sostanzialmente coincidente con il secondo atto della commedia che conosciamo, non a caso il più comico dei tre. Qui sta il punto: Eduardo era figlio della grande tradizione degli Scarpetta (aveva recitato, da bambino, con il padre biologico Eduardo e, da giovane, con i fratellastro Vincenzo) e, anche nei testi più drammatici, sapeva inserire irresistibili spunti comici che arricchivano e umanizzavano i personaggi e le situazioni. Inoltre, con feroce autocritica, “era” i personaggi – dispotici, sognatori e caparbi – che interpretava: il burbero e vendicativo Ferdinando Quagliuolo di Non ti pago, il disilluso Gennaro Iovine di Napoli milionaria, lo spocchioso Domenico Soriano di Filomena Marturano, il fantasioso guitto di Uomo e galantuomo sono tutte facce del nostro più grande attore-autore del secolo scorso.

Non si può certo dire niente della prova degli interpreti del film tutti bravi (il mio preferito è Adriano Pantaleo: quanta strada dallo Spillo di Amico mio!) a partire da Castellitto (pretestuoso rilevare il suo non essere napoletano: sono stati ottimi interpreti di commedie eduardiane, tra i tantissimi: Laurence Olivier, Marcello Mastroianni, Renato Rascel non certo partenopei doc) ma alla fine della visione delle cupe vicende di una famiglia disfunzionale (come l’ha definita Castellitto) senza i vitali guizzi di ironia che rendevano quelle miserie “speciali”, il film fa tornare in mente la poesia di Eduardo:
‘O rrau
‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.
Come dire: mme piaceva ‘o presebbio, chesto l’aggio guardato ppe’ m’ ‘o guardà.
Antonio Ferraro