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Bisogna completare alcuni cambiamenti già avviati, scongiurando ripensamenti e arretramenti che ci farebbero tornare indietro. Tuttavia, il cambiamento non è soltanto governabilità e facce nuove. È anche fatto di politiche nuove che permettano ai cittadini di migliorare le proprie condizioni di vita. E dunque si parta dalla sussidiarietà nei rapporti tra cittadino e istituzioni e tra i diversi livelli istituzionali, principio quest’ultimo introdotto nella riforma costituzionale del 2001 e non ancora attuato. E si riformino subito i partiti e le organizzazioni di rappresentanza degli interessi, che oggi costituiscono un blocco all’innovazione
Se 771 mila romani su un milione e 147 mila elettori, che consegnano una scheda votata validamente, decidono di affidare l’amministrazione del Campidoglio ad una esponente del M5S, significa che qualcosa di molto profondo pervade la società. E non riguarda solo Roma ma l’intero Paese. È vero, a Roma c’è stato lo scandalo di Mafia Capitale e il fallimento della giunta Marino. Ma da soli, questi elementi non bastano a spiegare quanto è avvenuto. Già nel 2013 si erano manifestate le avvisaglie del ciclone. Non era mai accaduto che una forza politica alla prima esperienza elettorale raggiungesse il 25,5 per cento dei voti. Un consenso uniforme su tutto il territorio nazionale e proveniente da elettori di destra e di sinistra, da comuni ricchi e da quelli poveri, dalle grandi città e dai centri più piccoli e rurali. Un consenso proveniente dai giovani in misura maggiore rispetto al Pd e al Pdl che non a caso persero meno dove c’erano più vecchi. Al successo del M5S corrispose la scomparsa dei partiti identitari della Prima Repubblica e il serio ridimensionamento dei principali partiti sorti nella Seconda.
Poi è arrivato Matteo Renzi con le riforme istituzionali più alcune misure innovative sul terreno socioeconomico, messe a punto dal suo governo. E si è ravvivata la speranza. Già alle europee del 2014 sembrava che il PD avesse ripreso il suo percorso di cambiamento. Ma era un abbaglio. Era il canto del cigno. Qualcosa di molto simile a quanto capitato al PCI in occasione delle elezioni europee del 1984 sull’onda emotiva della morte improvvisa di Enrico Berlinguer. Non c’è da meravigliarsi se fino a qualche decennio fa i partiti duravano settanta anni e oggi meno di dieci.
Cosa non ha funzionato?
Il cambiamento ha bisogno di facce nuove e di politiche nuove che nascono da processi sociali che partono concretamente dalle comunità territori. Altrimenti l’elettorato s’accontenta delle facce nuove e non bada alle proposte. Non già perché sono di destra o di sinistra, ma perché non le avvertono come qualcosa che nasce nel dialogo che le comunità territori organizzano e orientano. Una politica è giusta non perché è astrattamente razionale ma perché nasce da esigenze reali. E tali esigenze devono essere lette con idonei strumenti. Una politica è giusta se viene sperimentata e monitorata socialmente, organizzando in modo scientifico l’analisi dei suoi impatti sociali con il coinvolgimento sistematico delle comunità territori.
Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la giustizia sociale non è frutto di una teoria ma di un metodo. E il metodo è l’organizzazione dell’analisi sociale con la partecipazione democratica delle comunità territori. È per questo che i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno più senso se restano come sono. E la gente li percepisce e sempre più li percepirà come un intralcio e una zavorra.
Queste strutture nascono con la società di massa quando erroneamente si pensava che la giustizia sociale fosse frutto di una teoria o di un’ideologia e che le soluzioni derivassero da una razionale applicazione di ricette astrattamente e collettivamente elaborate sulla base di un progetto organico di società. Ma oggi anche la politica e non solo la sfera religiosa è stata inondata da una inarrestabile secolarizzazione e laicizzazione. Restano evidentemente i valori di libertà e di eguaglianza ad orientare l’approccio ai problemi. Ma questi sono appunto semplicemente dei valori che ci caricano e motivano sul piano etico ma non ci offrono in sé alcuna soluzione ai problemi. Da ricercare, invece, laicamente, con il dialogo paziente e l’ascolto reciproco.
Cosa cambiare allora?
Intanto, bisogna completare alcuni cambiamenti già avviati, scongiurando ripensamenti e arretramenti che ci farebbero tornare indietro. La riforma costituzionale va, dunque, confermata al referendum perché è attesa da decenni. Essa chiude la fase dell’instabilità dei governi e apre quella di una democrazia decidente, che si può realizzare solo rendendo più efficaci le funzioni dell’esecutivo e quelle legislative e di controllo del Parlamento. È bene semplificare il percorso per fare le leggi, superando il bicameralismo paritario che è causa di lentezze ingiustificabili. E poi non se ne può più dell’eterno conflitto tra Stato e Regioni che ritarda ogni decisione importante per i cittadini. È giusto, dunque, eliminare le competenze concorrenti tra Stato e Regioni e dare dignità costituzionale alle autonomie con il nuovo Senato.
Inoltre, i risultati elettorali dimostrano che il sistema maggioritario permette effettivamente il cambiamento – almeno quello che si realizza con l’alternanza di facce nuove – e non è affatto un modello che perpetua le rendite di posizione e il potere di chi già ce l’ha. La riforma costituzionale e l’Italicum, dunque, non sono affatto l’anticamera del fascismo ma costituiscono opportunità concrete per ricambiare i gruppi dirigenti del Paese.
Tuttavia, il cambiamento non è soltanto governabilità e facce nuove. È anche fatto di politiche nuove che permettano ai cittadini di migliorare le proprie condizioni di vita. E dunque si parta dalla sussidiarietà nei rapporti tra cittadino e istituzioni e tra i diversi livelli istituzionali, principio quest’ultimo introdotto nella riforma costituzionale del 2001 e non ancora attuato. Si dia all’individuo la possibilità di levarsi la veste di suddito e indossare quella di cittadino e così edificare da protagonista, dal basso e con vero spirito federalista, insieme agli altri cittadini, un’articolazione variegata degli istituti della democrazia, dalla comunità autogovernata di strada e di quartiere in cui vive e dal diversificato tessuto della società civile in cui opera al municipio metropolitano che deve poter acquisire la dignità di Comune, dal Comune piccolo o grande che deve volontariamente associarsi con altri per gestire funzioni complesse, alla Regione che deve dismettere improprie funzioni di gestione ed esercitare solo quelle di programmazione, dallo Stato che deve acquisire efficienza, semplicità e capacità di orientamento agli Stati Uniti d’Europa la cui utopia rimane, per ciascun europeo, la prospettiva concreta e realistica affinché si realizzi finalmente lo “status” di cittadino del mondo.
Ma queste proposte resteranno bei proponimenti senza alcuna possibilità di realizzazione, se non si introducono nel dibattito pubblico due riforme da fare urgentemente: quella dei partiti e quella delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, che oggi costituiscono un blocco all’innovazione. I partiti devono diventare, con un’apposita legge, case di vetro capaci di accogliere tutti coloro che ne condividono programmi e regole. E le organizzazioni di rappresentanza degli interessi non devono temere che una legge dello Stato le regolamenti come lobby. Finendola una volta per tutte con la pretesa di rappresentare, contestualmente, interessi particolari di una categoria o di un gruppo e un interesse generale che inevitabilmente può entrare in conflitto con le esigenze di una cerchia ristretta di persone. C’è già il Terzo Settore che, con la riforma appena varata, dovrà mettere insieme e sviluppare esclusivamente le forme associative che sono tenute a svolgere – costituzionalmente – attività di interesse generale. I partiti, invece, sono per definizione delle parzialità che devono formare nuovi gruppi dirigenti da lanciare nelle consultazioni elettorali e devono saper intercettare i bisogni sociali delle comunità territori per elaborare politiche efficaci. Le lobby, a loro volta, devono dichiarare con precisione gli interessi che rappresentano e intendono tutelare, le risorse che utilizzano per farlo e sottoporsi a procedure trasparenti nel loro rapporto con le istituzioni. Nel frattempo, sia gli uni che le altre potrebbero autoriformarsi e contribuire spontaneamente al cambiamento. Altrimenti si prospetterà inevitabilmente per loro un destino di irrilevanza e marginalità. E la società civile, con le sue immense e vivide risorse, operanti spesso nel silenzio senza ricercare visibilità e contropartite, si abituerà a farne a meno e inventerà altre forme per supplirne le funzioni.