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Ho accettato volentieri l’invito degli imprenditori Riccardo e Raoul Ranieri e del mio amico oleologo Luigi Caricato, ad una iniziativa dal titolo significativo: “La ricchezza intangibile dell’olivo”. Abbiamo così potuto parlare di cultura, crescita, innovazione, futuro in un confronto molto appassionato e non scontato tra giornalisti, scrittori e operatori economici.
È difficile parlare di questi tempi agli imprenditori italiani. Soprattutto di argomenti apparentemente astratti, non legati a qualche provvedimento fiscale o a qualche aiuto comunitario. Coloro che fanno impresa in Italia sembrano smarriti e sfiduciati. Al di là degli annunci del governo e di qualche scampolo di riforma che si è riusciti a realizzare, i risultati sono magri e non si avvertono segnali significativi di ripresa. Negli Stati Uniti si è avviato un nuovo ciclo di sviluppo industriale fondato su internet e sulla robotica e, naturalmente, su una trasformazione totale del lavoro sia dipendente che imprenditoriale e su forme totalmente nuove dell’abitare. Il governo cinese ha varato un programma di costruzione di nuove città dove si trasferiranno entro il 2020 cento milioni di contadini che lasceranno le campagne. I nuovi centri urbani che stanno per nascere non saranno le metropoli fordiste che si sono sviluppate in occidente tra l’ottocento e il novecento. Ma le città-territorio che assorbono gli antichi conflitti tra città e campagna in nuovi equilibri sociali, economici e territoriali, in nuove modalità dell’abitare, mettendo insieme tecnologie digitali, robotica, biotecnologie. Dove la crisi viene affrontata seriamente, s’investe in sviluppo e innovazione, puntando su ricerca, sperimentazione e istruzione. Si sogna e s’inventa coi piedi per terra. Non si piange e non ci si dispera. Si aguzza il cervello per trovare strade nuove, mai percorse.
In Italia stiamo sulla difensiva
In Italia pensiamo invece di affrontare le difficoltà, stando sulla difensiva. Ci riteniamo l’ombelico del mondo. Interpretiamo il made in Italy come un’arma con cui perseguire improbabili disegni neonazionalisti e, nello stesso tempo, autarchici. Molti sciamani ogni giorno riempiono le prime pagine dei giornali per dispensare a piene mani l’illusione che l’economia italiana possa riprendersi facendo leva esclusivamente sui nostri beni storico-culturali e ambientali e sulle nostre tipicità. Basterebbe – secondo questi venditori di fumo – mettere insieme un po’ di agricoltura e turismo. Niente industria e niente città. Come se l’industria fosse finita con la conclusione del ciclo fordista e la città fosse esaurita con la fine della metropoli. Tra queste lugubri voci che si levano nella foresta preannunciando imminenti catastrofi e improbabili ritorni all’eden, la maggior parte dell’imprenditoria italiana non sa come reagire ed è allo sbando.
È in tale contesto che ho accettato volentieri l’invito di Riccardo e Raoul Ranieri – gestori dell’oleificio fondato nel 1930 a Città di Castello da Domenico Ranieri – ad una iniziativa organizzata a Palazzo Vitelli nella cittadina umbra, in collaborazione con il mio amico oleologo Luigi Caricato, dal titolo significativo: La ricchezza intangibile dell’olivo. Abbiamo così potuto parlare di cultura, crescita, innovazione, futuro in un confronto molto appassionato e non scontato tra giornalisti, scrittori e operatori economici. C’erano con me, oltre naturalmente Luigi Caricato, Giorgio Boatti, Maria Latella e Brunello Cucinelli.
La vocazione originaria dell’agricoltura
Ho raccontato come diecimila anni fa nacque l’agricoltura. Si tratta di ieri se rapportiamo questo tempo ai milioni di anni che ci separano dalla comparsa dei primati sulla terra. Da sempre i gruppi umani si spostavano da un punto all’altro del globo alla ricerca di piante spontanee o di animali da predare per ricavarne del cibo. Allora alcune donne, stanche di quella vita nomade che mal si adattava alle funzioni riproduttive, incominciarono ad osservare come avveniva la crescita e la fioritura di una pianta. Carpendo i segreti della natura, intuirono un fatto straordinario: dal momento della semina di una cultivar di frumento, selezionata tra tante in natura, e il tempo del raccolto, sarebbe trascorso un anno. E rimuginarono che quello era il tempo sufficiente per portare avanti una gravidanza. Gioirono al pensiero di quella intuizione. Finalmente potevano dare un senso e una giustificazione al loro bisogno di fermarsi e di mettere radici in un determinato territorio. I maschi continueranno ancora per alcuni millenni ad andare a caccia di animali e a raccogliere frutti spontanei. Per loro il mondo non aveva un luogo ma ovunque ci fosse cibo era una meta da raggiungere e poi abbandonare. Le prime comunità stanziali saranno, dunque, formate prevalentemente da donne, bambini e anziani.
Come si può constatare da questo racconto, l’agricoltura non nasce per produrre cibo, come oggi siamo portati a credere per effetto di una comunicazione superficiale e non fondata sulla cultura e sulla scienza. Il cibo già c’era ed era in abbondanza. L’agricoltura nasce per dar vita alle prime comunità umane stanziali. Nasce come forma di vita collettiva, come opportunità per acquisire un primo e rudimentale approccio scientifico nelle attività umane, come ambito di regolazione condivisa per utilizzare le risorse ambientali comuni e così organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra sorge come attività di servizio per poter abitare un determinato territorio. Il significato più profondo di coltivare è servire la natura e la comunità al fine di abitare dignitosamente in un luogo. La lingua tedesca chiama con una medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; il nome dell’agricoltura (Ackerbau) non suona coltivazione, ma costruzione; il colono è un edificatore (Bauer). Nel Mediterraneo non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentarle. I contadini mediterranei hanno sempre voluto vivere nelle città – i luoghi degli scambi – dove poter svolgere attività molteplici e avere rapporti continuativi e fecondi con altre città, nonché con la cultura e la scienza. Se si legge attentamente il poema di Esiodo Le Opere e i Giorni, scritto tremila anni fa, si può notare che l’attività agricola è considerata come un servizio, un rito religioso. I lavori e gli scambi sono organizzati sulla base del principio di reciprocità. Essi consistono soprattutto nell’aiuto tra i vicini. La terra è ritenuta una divinità da servire. Essa impartisce i propri comandi mediante il rigore delle stagioni e i cicli regolari della vita vegetale. Noi oggi conosciamo bene le modalità e gli effetti dell’asservimento dell’uomo alla macchina. Ma nell’attività agricola c’è un asservimento ancor più avvolgente alle regole di buon vicinato, ai tempi dettati dalla natura, dal clima, alla resistenza del terreno, alle regole per preservare la fertilità del suolo, alle regole per utilizzare l’acqua in modo parsimonioso. Coltivare non è solo manipolare la natura: è prima di tutto servire la comunità e la natura. Il raccolto del prodotto della coltivazione era funzionale ad una pluralità di impieghi che permettevano l’insediamento stanziale. Solo una parte di quel prodotto serviva ad integrare i frutti spontanei e le proteine animali di terra e di mare. Sin dalle origini l’olio da olive è stato impiegato in una molteplicità di usi. La sfera alimentare si mantiene sempre secondaria. Gli impieghi prevalenti sono nell’illuminazione e nell’industria laniera per poter abitare più agiatamente le città e vestirsi in modo più adeguato. La nascita dell’agricoltura ha costituito un potente correttivo di civiltà.
Il cibo come scambio tra culture diverse
Sin dall’invenzione dell’agricoltura, il cibo e l’atto del mangiare hanno costituito un veicolo di pratiche e dispositivi culturali, capaci di fornire una rappresentazione dei mondi altri. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione.
Educare invece a un’alimentazione autarchica e chiusa agli scambi con altre culture, significa negare in radice l’assunto di fondo della nostra cultura del cibo. È davvero penoso e ignobile che s’insinui nei nostri ragazzi – così come sta accadendo mediante programmi di comunicazione e promozione impropriamente finanziati dal pubblico – un odioso pregiudizio: l’idea che l’olio e le olive degli altri paesi che s’affacciano sul Mediterraneo siano di per sé scadenti. E che lo stigma sia inculcato magari in presenza di ragazzi i cui genitori sono originari proprio di quei paesi. Un’umiliazione inflitta a questi nostri nuovi concittadini senza una qualche plausibile giustificazione, specie ora che l’Italia diventa sempre più multietnica.
L’idea che una specie alimentare del mio giardino sia più buona di un ortaggio che arrivi da terre lontane non appartiene alla nostra storia alimentare. Non era mai accaduto che il cibo costituisse un elemento identitario così forte da essere utilizzato per definire un confine invalicabile tra sé e i “barbari” che ci minacciano. Se guardiamo alle nostre tradizioni culinarie si trova sempre un atteggiamento di grande apertura e curiosità nei confronti di qualsiasi specie esotica. La nostra alimentazione presenta stratificazioni e sedimentazioni originatesi in epoche storiche e in spazi geografici lontani; è riflesso e testimonianza di arrivi, passaggi, incontri, commistioni, fluttuazioni, intensi dialoghi con il mondo mediterraneo, l’Oriente, l’Europa continentale e le Americhe. Insomma, le radici della nostra identità alimentare si diramano molto lontano da noi.
Con l’avvento della globalizzazione ci è sembrato che il cibo potesse subire un processo di appiattimento. E saggiamente abbiamo reagito a questo fenomeno valorizzando le diversità. La normativa europea sulle denominazioni d’origine ci ha voluto rammentare che le identità possono essere molteplici. Il cittadino di Matera (che si riconosce nel cibo della sua città e delle sue campagne) non è solo un membro del villaggio globale ma è anche cittadino di Basilicata, d’Italia, d’Europa. E ciascuna di queste identità – tutte mutevoli e in costruzione – vuole i suoi simboli alimentari.
Ma queste multiformi identità hanno tutte pari dignità. Nessuna possiede, sul piano simbolico, uno spessore culturale che sovrasta l’altra. Anzi convivono pacificamente e vanno sempre più a integrarsi e completarsi a vicenda. Solo da noi la cultura della tipicità, da strumento di affermazione del pluralismo delle identità, viene esasperata fino al punto di trasformarla in arma con cui tentare di difendersi nella competizione globale. Da strumento per far convivere identità diverse, la tipicità è diventata elemento scatenante di conflitti tra chi ritiene di affermare l’identità e chi viene accusato di volerla annientare, tra chi presume di tutelare la vera ed unica identità e chi viene tacciato come il paladino della non-identità. Una concezione che esclude ogni collaborazione con le agricolture di altri Stati, considerate come nemiche da combattere. Il tutto condito di una diffusa avversione alla scienza, dettata spesso da timori egoistici e paure millenaristiche; avversione che impedisce l’innovazione.
La nuova ruralità è un’innovazione sociale
L’innovazione, infatti, non si fonda sullo scambio di prodotti autarchicamente pronti e finiti, ma sullo scambio di idee. È per questo che oggi si tende a definirla come innovazione sociale. Solo mettendo insieme le idee, collaborando tra agricolture di paesi diversi, partecipando culturalmente a un processo e integrando apporti scientifici multidisciplinari, riusciamo a realizzare un’innovazione.
Come diecimila anni fa, una nuova agricoltura sta silenziosamente introducendo un correttivo di civiltà. In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, dagli anni settanta in poi va riemergendo un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti socio-lavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali.
Ancora una volta sono le donne a guidare questo processo di innovazione: non a caso la loro presenza è significativa proprio nelle attività agricole di servizi. Questa nuova agricoltura non mette in alternativa la dimensione territoriale e quella dell’internazionalizzazione. Non si chiude a riccio contro le multinazionali, l’industria, il commercio, i servizi, la ricerca, la scienza. È consapevole che la rivoluzione tecnologica in atto offre enormi opportunità per individuare percorsi di sviluppo, costruire reti che si diramano nei territori e nel mondo. L’importante è restare fedeli a se stessi, alla propria vocazione: quella dell’agricoltura è produrre beni relazionali e legami comunitari e poi viene tutto il resto.