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L’Arminuta

Il romanzo da cui il film è tratto ha avuto un ottima accoglienza ed ha vinto il premio Campiello nel 2017

di Giuseppe Bonito. Con Sofia FioreCarlotta De LeonardisVanessa ScaleraFabrizio FerracaneElena Lietti. Italia 2021

Siamo negli anni ’60. Una ragazzina – non ne sapremo mai il nome: lei è l’Arminuta (Fiore), la ritornata in abruzzese – viene trascinata dal rabbioso padre (Giacomo Vallozza) in una povera casa di campagna. La accolgono una donna incupita (Scalera) e una vivace bambina, Adriana (De Leonardis). Scoprirà presto che la donna è la sua vera madre, che, per povertà, l’aveva affidata ad una lontana cugina benestante, Adalgisa (Lietti), che non poteva avere figli. La sera l’Arminuta conosce il resto della sua vera famiglia: il duro e silenzioso padre (Ferracane), i selvatici fratelli minori, Sergio (Stefano Petruzziello) e Riccardo (Giovanni Francesco Palombara Fiorita) e il fratello diciottenne Vincenzo (Andrea Fuorto). Lei non riesce a capire per quale ragione quella che riteneva la madre l’abbia abbandonata e non si faccia più né vedere né sentire; l’unica attenzione che le riserva è quella di inviare ogni tanto una busta con dei soldi ma questo la sconcerta ulteriormente ed una volta che li strappa davanti alla madre, questa la picchia con rabbia. Le sole persone che le mostrano affetto sono Adriana e Vincenzo. Quest’ultimo una sera le porta sui calcinculo del suo amico giostraio rom (Giulio Bernak), regalando all’Arminuta pochi istanti di serenità. Vincenzo – che già da adolescente era scappato dagli zingari – le accompagna e poi va da loro. Torna il giorno dopo, accolto dagli schiaffi e le cinghiate del padre.  Un giorno la ragazza li porta al mare; lei, dopo aver fatto il bagno con Vincenzo (Adriana rimane a riva, bloccata dalla paura di quell’elemento che non aveva mai visto), va nella casa di vacanza della sua precedente famiglia ma non trova nessuno; nel villino adiacente la sua amica Pat (Aurora Barulle) e la madre la invitano a fare merenda ma non sembrano sapere nulla di Adalgisa. Vincenzo – che le ha mostrato il piccolo tesoro in gioielli frutto delle sue scappate con gli zingari – la notte le si avvicina voglioso e la accarezza intimamente. Poco dopo, in motocicletta con il giostraio, muore nello scontro con un pullman. Il padre mostra la propria disperazione tirando sassi al cielo e sfidando Dio e la madre cade in un’angoscia catatonica per giorni. Intanto, l’Arminuta si dimostra una bravissima scolara e, sollecitata dalla maestra a partecipare ad un concorso letterario, vince il primo premio che – unito ai bellissimi voti – le consente di godere una borsa di studio per le superiori. Il padre e la madre sono fieri di lei ma, quando quest’ultima le dice che ha telefonato Adalgisa per assicurare il suo aiuto perché possa studiare, lei – nuovamente delusa dal silenzio nei suoi confronti – fugge disperata e, nella furia, spinge via Adriana che – risentita le rivela la verità: Adalgisa non era sterile, ha avuto una figlia dall’amante con il quale è andata a vivere ma questi ha posto la condizione che l’Arminuta tornasse dai suoi. L’incontro con Adalgisa e un pranzo (che avrebbe dovuto essere pacificatore) segnano definitivamente il destino dell’Arminuta.

Il romanzo da cui il film è tratto ha avuto un ottima accoglienza ed ha vinto il premio Campiello nel 2017. L’autrice, Donatella Di Pietrantonio, è una dentista e confessa di aver vissuto per anni la scrittura con un senso di colpa e di solitudine – simile in questo alla francese Annie Ernaux, scrittrice di grande successo che ha spesso raccontato del suo disagio di intellettuale borghese nei confronti della madre bottegaia, proletaria e dura lavoratrice – e, da questo punto di vista, L’Arminuta è certamente un racconto autobiografico; la ragazza che non trova luogo affettivo è anche la scrittrice da ragazzina, sensibile e in cerca di calore, che si scontra con il muro di un mondo inasprito dalla necessità e dalla fatica. Bonito è al terzo film e conferma la sua scelta di affidarsi a testi letterari per le proprie opere: il primo, Pulce non c’è, nasce dal bel romanzo di Gaya Raineri e il secondo, Figli, da un monologo (I figli invecchiano) che Mattia Torre gli aveva affidato prima di morire. L’arminuta è indubbiamente la sua realizzazione più matura, lui – aiutato da due solidi professionisti della produzione come Maurizio Tedesco e Roberto Sbarigia – conferma una bella mano registica e una buona capacità di racconto, in parte inficiata da una rabbiosità di fondo che non sempre aiuta il ritmo della narrazione. Rispetto ai due precedenti (che annullavano l’ironia e la levità presenti nei due testi di partenza, appesantendone il percorso narrativo), in questo la cupa rabbia ha maggior senso ma alcune tenerezze del romanzo si perdono un po’. Ridondanti (è, però, una scelta registica) ma efficaci le musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, ottimo il cast: bravissime le due ragazzine, adeguati gli altri ma quando è in scena la Scalera lo schermo si illumina di una luce speciale.

Antonio Ferraro

 

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