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Gli occhi e i piedi di Agnès
di JR, Agnès Varda Documentario Francia 2017
Agnès Varda conosce il fotografo, artista, regista JR e decide di fare un viaggio con lui nei paesini della Francia per ritrarre l’anima delle persone che incontreranno. Lei ha 88 anni e lui 33 ma a nessuno dei due pesa quella differenza e partono con il furgone-laboratorio fotografico (ha l’aspetto di una vecchia macchina fotografica e sviluppa, da un fianco, gigantografie). Arrivano in un villaggio semi-abbandonato; era un paese di minatori ma ora le miniere sono chiuse e le case sono quasi tutte vuote. C’è solo una signora anziana che non se la sente di abbondonare la casa lasciatale dal padre minatore, del quale conserva vecchie foto, insieme ai compagni di lavoro a testimonianza della loro durissima vita ma lei ricorda ancora il “pane di miniera”, l’avanzo di pagnotta che il padre portava a casa, finito il lavoro e che lei, bambina, accoglieva festosamente: era un po’ della miniera del papà che arrivava da lei. Loro la fotografano e con la foto le decorano la facciata della casa che, da anonima, diventa viva e personale. Arrivano poi in un piccolissimo centro abitato e JR nota la bella cameriera dell’unico bar-trattoria. La fotografano scalza, ne incollano l’immagine su di un muro e i suoi bambini giocano a fare il solletico agli enormi piedi della mamma. In una fabbrica fotografano, nei vari turni di riposo tutti i dipendenti, decorandone le mura esterne con le gigantografie messe in modo da farli apparire tutti protesi gli uni verso gli altri. Negli spostamenti Agnès e JR discutono di tutto, di arte, della loro vita e lei ogni tanto si arrabbia un po’ perché lui non si toglie mai gli occhiali da sole (li avverte come una barriera contro di lei) e ricorda come nel 1961, durante le riprese del suo corto Le fiancés du Pont MacDonald, nel quale Jean-Luc Godard rifaceva, scherzosamente, Buster Keaton e Anna Karina la sua partner Dorothy Sebastian, lo scorbutico regista, anche lui con gli occhi costantemente nascosti dagli occhiali scuri, se li era tolti per farle un piacere. Ora sono in un allevamento di capre e, di fronte alla loro sorpresa perché le bestie sono senza corna, un allevatore spiega che da quelle parti le bruciano quando le bestie sono piccole, per evitare che si azzuffino di continuo, rischiando di morire, con nocumento alla produzione del latte; un’allevatrice (che verrà immortalata con una delle sue capre) non la pensa così: lei ama le capre ed i gatti e lascia che gli animali seguano, liberi, la loro natura. Arrivano a Le Havre e incontrano i lavoratori del porto – mitici eroi di grandi lotte sindacali – ma Agnès vuole conoscere le loro mogli e, insieme a JR fotografa tre di loro e ne incolla gli ingrandimenti su una catasta di conteiner; togliendone tre all’altezza del cuore per farvi accomodare le tre donne. Tra gli incontri, non manca un vagabondo che vive con la pensione minima (lui ha bisogno di così poco che è convinto sia la “massima”) ed è felice perché con tappi di bottiglie e materiale di risulta si è costruito una baracca coloratissima e piena di collages. I viaggiatori si concedono anche delle deviazioni sentimentali: Agnès va a vedere la casa nella quale era morta la scrittrice Violette Leduc e le tombe di Henri Cartier- Bresson e della moglie Martine (anche lei grande fotografa); vanno infine a trovare la nonna centenaria di JR, che li accoglie festosa e fiera del nipote. In Normandia, dove Agnes, giovanissima, aveva cominciato ad appassionarsi di fotografia artistica, trovano, in riva al mare, un bunker tedesco piantato nella sabbia. JR prende un nudo maschile dalle foto giovanili di lei e vi incolla la gigantografia: l’effetto è splendido e poco male se subito l’alta marea la lava via. Arrivano in Svizzera a Rolle, il paese nel quale vive Godard e lei è emozionata: è molto tempo che non vede il caro amico e maestro ma lui le fa un brutto scherzo: all’ora dell’appuntamento non le apre e le fa trovare sulla porta una frase cara al suo scomparso marito Jacques Demy; lei ne soffre e JR, abbracciandola, la porta in riva al lago di Ginevra e lei si commuove al ricordo di una vacanza con il marito, Jean-Luc e Anna Karina. JR per consolarla, si leva gli occhiali. Alla fine del viaggio, dopo una visita di controllo agli occhi malati di lei, lui le fotografa gli occhi e i piedi e ne incolla l’ingrandimento su due cisterne attaccate ad una locomotiva: “Così – le dice – i tuoi occhi e i tuoi piedi andranno in luoghi dove tu non potrai andare”.
Questo film era uno dei cinque candidati all’Oscar di quest’anno quale miglior documentario; ha vinto l’americano Icarus ma la Varda ha avuto il Premio Speciale alla Carriera. In effetti è un piccolo capolavoro e lei vi fa trasparire tutta la sua forza e la sua poesia di autrice. E’ stata l’unica regista nel complesso e multiforme universo della Nouvelle Vague e non è un caso: meglio di tanti altri suoi colleghi, la sua filmografia esprime quell’èsprit de liberté che è proprio di quel movimento: dal suo primo successo Cleo dalle 5 alle 7, a Il verde prato dell’amore a Senza tetto né legge (tutti incentrati su figure di donne orgogliosamente e dolorosamente libere) è passata a raccontare, guidata solo dalle proprie emozioni, l’affetto per l’amica Jane Birkin in Jane B. par Agnès V. e l’amore per il marito scomparso in Garage Demy. I suoi documentari, poi, sono un raro esempio di capacità di cogliere lo splendore del vero, altro comandamento della Nouvelle Vague: gli struggenti Les Demoiselles ont eu 25 ans e L’univers de Jacques Demy, in ricordo dell’adorato marito e il recente Les plages d’Agnes son esempi di un racconto personalissimo, che del documentario hanno la forma ma dalla realtà sanno trarre – verrebbe da dire spudoratamente -mille suggestioni autobiografiche. Così questo Visages, villages parte da un idea – catturare i volti di piccoli villaggi – per poi tradirla, sulla base degli universi dei due autori. Lei si commuove, si appassiona, si addolora e la sua commozione, la sua passione, il suo dolore sono i materiali veri del racconto (un operaio della fabbrica dirà: “L’arte non deve sempre stupire?”, cogliendo il senso reale dell’operazione). I suoi occhi e i suoi piedi, al di là dell’effimera vita delle gigantografie, continueranno a vagare, liberi nella ricerca della meravigliosa relatà/irrealtà del piccolo, irripetibile quotidiano.