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Nel linguaggio banale degli anchormen televisivi ( e a volte anche di importanti quotidiani) si usano queste parole: “bacchettate da Bruxelles”, “guerra tra Italia e Germania”, “grande gelo tra Roma e Bruxelles”, ecc. In questi giorni le abbiamo udite spesso. Nei prossimi, continueremo a sentirle.
Cosa sta accadendo tra Italia e Unione europea?
Dando a Cesare quello che gli appartiene, Diario europeo cede la parola ad un importante columnist: “Ciò che divide Roma da Bruxelles non è una questione di galateo, ma un episodio di lotta politica. E’ come tale va giudicato. Juncker non è uno sprovveduto, è un alto papavero europeo da un quarto di secolo, non può nascondersi dietro una questione di lesa maestà quando un Governo attacca la Commissione” (Antonio Polito, Corriere della sera 16 gennaio 2016). Ben detto.
La lotta politica è il normale modo di esercitare la democrazia nelle e tra le Istituzioni e nelle società europee dell’Unione, che – dopo anni di consolidata pratica democratica – non dovrebbe aver bisogno di approcci felpati tipici delle diplomazie internazionali. L’Unione è il “cortile di casa” del dibattito (scontro, incontro, mediazioni, intese, accordi) tra pari. Dinanzi e difronte ai popoli d’Europa. Se queste pratiche non sono ben percepite e comprese è perché il modello istituzionale di questa Europa unita presenta molti elementi di opacità e di contorti procedimenti. Si aggiunge, nei rispettivi Paesi membri (Italia compresa), la lotta politica ai Governi in carica: tra noncuranza dei precisi termini delle questioni, ignoranza grave delle regole, delle funzioni – e persino del nome- delle Istituzioni dell’Unione e la miseria delle strumentalizzazioni di corto respiro.
“Lo stesso Juncker, aggiunge Polito, è un politico legittimato da un voto, essendo stato candidato come presidente della Commissione dai popolari europei, vincitori alle urne”.
Non proprio. Le cose non stanno esattamente così. E forse lo stile da “premier” (come eletto a quella responsabilità direttamente dagli elettori europei) che Juncker dà alla sua presidenza deriva proprio da questo equivoco.
Raccontiamo i fatti: prima di procedere alle ultime elezioni politiche del Parlamento europeo, i capi dei più importanti Gruppi politici del PE, concordarono di “presentare” agli elettori alcuni esponenti dei partiti politici in competizione elettorale per il Parlamento “come futuri presidenti della Commissione europea”. A tal fine ciascun partito procedette ad una sorta di congresso interno per designare il rispettivo candidato futuro a presidente della Commissione. Il partito popolare scelse il primo ministro lussemburghese Jean Claude Juncker, il partito socialista europeo scelse il tedesco Martin Schulz, già presidente del Parlamento Europeo uscente. E così via, gli altri partiti. In realtà alcuni di questi e altri politici erano – di fatto- candidati al Parlamento europeo. E furono eletti parlamentari. Il primo partito del PE risultò il partito popolare, il secondo risultò il partito socialista europeo. “I membri del Parlamento europeo – dice il Trattato – sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto”. Gli elettori hanno eletto direttamente soltanto i candidati al Parlamento europeo e non i futuri aspiranti alla presidenza della Commissione (sia che fossero candidati anche al parlamento sia che non lo fossero).
Il Trattato sull’Unione europea stabilisce quanto segue: “Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo, e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono” (art.17, comma 7).
Il presidente della Commissione, quindi, viene prima scelto, con una votazione ad hoc all’interno del Consiglio europeo, dai capi di stato o di governo dei Paesi membri dell’Unione ; dal Consiglio viene, poi, proposto al Parlamento che lo elegge (noi diremmo: gli dà la fiducia) presidente della Commissione. Ai termini del Trattato il Consiglio (cioè i capi di Stato dei Paesi membri) avrebbe potuto trovare una intesa su un nome diverso dai candidati annunciati come futuri presidenti della Commissione; sempre tenendo conto degli equilibri politici prodotti dai risultati elettorali, e proporre al Parlamento europeo qualsiasi altro politico di un Paese membro. Subito dopo le elezioni, infatti, e prima della decisione del Consiglio europeo, molti esponenti politici (ad es. Angela Merkel, membro del Consiglio europeo, per la Germania) si espressero contro questo automatismo. Il marchingegno, inventato per la prima volta dai Partiti europei, ha prodotto – a mio modo di analizzare la attuale configurazione del modello istituzionale e di governance dell’Unione – una serie di equivoci e anche errori strategici: far credere agli elettori che stavano eleggendo il presidente della Commissione, rafforzare questa figura e indirettamente la Commissione tutta di fronte al Parlamento stesso (di cui non è un vero e proprio “Esecutivo”, ma quasi un “alter ego”), indebolire ulteriormente il Parlamento stesso (che come è noto non ha nel Trattato la prerogativa di “fare le leggi”), dare al presidente e a tutta la Commissione una forza politica (non istituzionale) maggiore di prima, rispetto ai singoli (o almeno ad una parte) capi dei Governi. Con quali risultati?
La vera coraggiosa innovazione politica, istituzionale, democratica che i Gruppi politici del Parlamento uscente avrebbero potuto e dovuto produrre, sarebbe stata quella di presentarsi agli elettori dicendo: “state eleggendo un Parlamento che la prima cosa che farà sarà quella di cambiare il Trattato e riprendersi il potere di fare le leggi e incaricare (dare la fiducia o toglierla) un governo-esecutivo (la ex Commissione) di governare e di rispondere al Parlamento stesso.
Diario europeo ha chiamato questa, la “rivoluzione democratica”.
Il “consenso popolare europeo” non è la somma algebrica (+/-) dei consensi elettorali dei singoli governi dei Paesi membri. Quel consenso europeo sta (è depositato) nel Parlamento europeo. Quando il presidente della Commissione si incontra, discute, confligge con un capo di governo di un Paese membro non sta “regolando” una lotta politica alla pari. Il primo deve rispondere ai suoi due “padroni”: il Consiglio europeo e il Parlamento europeo. Il secondo deve rispondere al suo popolo! E, inoltre, può ricordare ( come membro del Consiglio europeo ) al presidente della Commissione di essere stato eletto anche da lui (in nome dell’Italia), sulla base di un programma, e che ora ha l’obbligo di attuare. Nessuna lesa maestà, dunque. Soltanto confronto – anche aspro, ma sempre democratico (nessun “vilipendio”) – politico e su questioni politiche.
“Questa” Europa unita – non essendo compiutamente federale e neppure confederale – vive una sorta di “tragedia della democrazia rappresentativa”. Nessuno può “bacchettare” nessuno! Tutti sono dentro un equilibrio instabile, di fronte al giudizio instabile di diversi centri/fonti del potere istituzionale: diversi popoli, diversi stati, diverse maggioranze parlamentari. E’ in questa situazione che nascono e prosperano i “populismi”. Se lo ricordino i vari “bacchettatori” improvvisati.
E, intanto, il “Trattato sull’Unione europea”(art. 17, comma 8) sta lì a ricordare al Sig. Jean Claude Jiuncker che: “ La Commissione è responsabile collettivamente dinanzi al Parlamento europeo. Il Parlamento europeo può votare una mozione di censura della Commissione secondo le modalità di cui all’art. 234 del “Trattato di funzionamento dell’Unione europea”. Questo articolo 234 del TFUE, dice: “ Se la mozione di censura è approvata a maggioranza di due terzi dei voti, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni”. Non è ancora accaduto. Potrebbe accadere!
Il Gruppo dell’Alleanza progressista dei Socialisti e dei democratici al Parlamento europeo (S&D) – seconda forza al parlamento con 191 deputati – nella sua riunione del 13 gennaio scorso – capogruppo l’italiano Gianni Pittella e presidente il bulgaro Sergei Stanishev – ha annunciato al presidente della Commissione un pacchetto di problemi irrisolti su cui intende riconsiderare la “fiducia” accordatagli all’inizio del suo mandato: il piano Juncker di investimenti (tanto strombazzato e non ancora reale), l’approfondimento della flessibilità nella politica economica e finanziaria, una urgente agenda sociale europea in grado di far ripartire l’occupazione (soprattutto nei Paesi membri dove sono avvenute riforme storiche del mercato del lavoro), la applicazione vera dell’agenda europea delle migrazioni, con: il ricollocamento dei migranti nei diversi paesi membri come deciso dal Consiglio e mai attuato e la proposta di riforma del diritto di asilo (Dublino); infine, una nuova politica degli aiuti di stato, il rilancio della industria europea e la sua difesa dalla concorrenza cinese.
Ed ecco, infine, alcune date da non dimenticare: il 29 gennaio, il presidente del Consiglio Matteo Renzi incontrerà a Berlino la Cancelliera Angela Merkel (anche qui: nessuna lesa maestà, ma la messa fuoco di una corretta e coerente politica energetica dell’Unione). A febbraio, a Roma –ospiti del ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni – si incontreranno i ministri degli esteri dei 6 paesi fondatori della Unione, per il rilancio della integrazione europea. Fine febbraio, a Roma, incontro del presidente della Commissione J.C. Juncker con il presidente Matteo Renzi.