Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone
Negli ultimi mesi le cronache giornalistiche hanno investito di un’attenzione rinnovata le periferie delle nostre città, trattandole perlopiù come quinte sceniche davanti le quali fenomeni come la gestione dei flussi migratori, i disservizi nei trasporti o nel trattamento dei rifiuti, le infiltrazioni mafiose e molti altri sono stati mescolati e confusi nella grande narrazione del ‘degrado’ contro il ‘decoro’. Da Tor Sapienza a Quinto di Treviso, sono molti i quartieri sbattuti in prima pagina – in netto contrasto con l’oblio nel quale sono solitamente relegati – a causa di una questione come quella dell’accoglienza dei richiedenti asilo, che nel nostro Pese si è tramutata, più o meno artificialmente, in un’emergenza.
Stando alle descrizioni fornite dai media mainstream che ormai si sono impossessate del senso comune, le periferie sembrano essere proprio il terreno dell’emergenza, mentre chi per primo le vive sa bene che, una volta spente le telecamere e chiusi i taccuini, rimane una realtà forse molto più difficile da analizzare e raccontare, ma anche ben più problematica.
Quello di giornali e tv si rivela semplicemente un modo di raccontare le nostre città che certo può risultare efficace per catturare click o aumentare lo share di qualche punto, ma che ha un’utilità quasi nulla nel capire quali siano gli effettivi problemi che affliggono le periferie e quali possono essere le strade per risolverli.
Una storia di periferia
Periferia, dal greco περὶ φέρεια, significa letteralmente “linea curva che tornando sopra se stessa racchiude uno spazio, forma una figura”, un concetto sostanzialmente autonomo – e abbastanza generico – che tuttavia non corrisponde con il significato che ha via via acquisito il termine in italiano. Solitamente tendiamo a definire la periferia per contrasto rispetto al centro: periferia è ciò che sta fuori, che è marginale, lontano, rispetto ad esso. Il centro viceversa non si definisce tanto in opposizione alla periferia quanto per le sue qualità intrinseche: un insediamento storico, la presenza di edifici pubblici e privati importanti e delle funzioni che essi contengono, l’accessibilità rispetto ai mezzi di trasporto e così via.
Quella della periferia come opposto del centro è evidentemente una definizione efficace e immediata, che allo stesso tempo rivela un dato molto importante: definendo la periferia in ragione del centro tendiamo a guardare tutto dalla prospettiva di quest’ultimo. Almeno secondo questa definizione – stando cioè nei perimetri di questo frame cognitivo – la periferia in sé non esiste, ma soprattutto sembra non poter esistere come oggetto di ricerca autonomo, dotato di una sua dignità al di là della subordinazione al centro in termini di localizzazione, accessibilità, presenza di servizi, qualità del costruito e via dicendo.
Limitandoci geograficamente all’Italia e temporalmente a partire dal secondo Dopoguerra possiamo individuare – con un buon grado di approssimazione – due fasi diverse dello sviluppo delle periferie, legate all’estensione e alla ritrazione (e riarticolazione) dello sviluppo urbano del Paese (per una rassegna più completa, segnaliamo questo link).
La prima fase è quella del boom economico e demografico che si protrae con accenti diversi fino a tutti gli anni ’70 e che è caratterizzata da una grande estensione fisica delle città. Interi quartieri vengono costruiti – spesso pressoché da zero – per soddisfare le esigenze di una popolazione e di un’economia in crescita: al centro di questo processo ci sono da un lato il tentativo di calmierare gli squilibri del libero mercato garantendo un’abitazione alle classi sociali più basse, spesso in stretta connessione, anche fisica, con gli insediamenti industriali nei quali gli stessi abitanti dei quartieri periferici erano impiegati; dall’altro gli interessi sempre più forti dei grandi costruttori. È proprio in questa fase che l’espansione urbana fornisce un contributo determinante alla crescita ipertrofica del settore edile, che con il tempo diventerà strategico per il suo peso specifico all’interno dell’economia del Paese.
Questa crescita esponenziale delle città, e delle periferie, è spesso descritta come uno degli ingredienti principali del cosiddetto ‘Miracolo italiano’: dietro la patina positiva si nascondono tuttavia fenomeni molto diversi tra loro, dall’iniziativa pubblica a quella speculativa privata, fino ai molti casi di abusivismo edilizio su larga scala. L’apice di questa fase di espansione è simbolizzato dalla costruzione in molte città italiane, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, di grossi agglomerati di edilizia razionalfunzionalista: dallo Zen di Palermo al quartiere Corviale a Roma (ma quasi ogni città della Penisola può citare il proprio esempio), che costituiscono anche l’emblema del fallimento delle politiche abitative di quegli anni.
La seconda fase, con differenti tendenze dagli anni ’80 in poi, è caratterizzata da una stabilizzazione demografica e da una serie di crisi economiche, che si possono collocare nel più ampio ambito della transizione dal modello fordista a quello postfordista. Dentro questo processo lo sviluppo urbano assume due tendenze che si susseguono e in parte si intrecciano tra loro: la prima è quella della dispersione urbana, ovvero il trasferimento di residenze, attività produttive, funzioni e servizi fuori dai perimetri consolidati delle città, in un territorio più vasto segnato linearmente dalle direttrici infrastrutturali; la seconda è quella della rifunzionalizzazione di grandi aree della città consolidata, i cosiddetti processi di ‘rigenerazione urbana’ che, definendo in molti casi nuove centralità, ovvero nuove aree sulle quali l’interesse pubblico e – in maniera sempre più pervasiva – quello privato hanno rivolto la loro attenzione, hanno di converso definito altrettante nuove marginalità.
L’esempio più emblematico di dispersione urbana in Italia è quello del Veneto centrale, dove tra i capoluoghi di Vicenza, Padova, Venezia e Treviso i processi di urbanizzazione si sono notevolmente intensificati a partire dagli anni ’80, accompagnando un massiccio trasferimento di popolazione e di attività produttive dai capoluoghi alle campagne. Per quanto riguarda i processi di rifunzionalizzazione, dagli anni ’90 in poi molti di essi sono stati ‘pilotati’ dal programma europeo Urban: un esempio noto è quello del piano Urban di Bari con il recupero del centro storico di Bari Vecchia. Altri processi di rifunzionalizzazione sono stati determinati da grandi lavori di adeguamento infrastrutturale, ad esempio la ristrutturazione della Stazione Tiburtina a Roma.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Fabbrica e Periferia
La lente migliore per leggere le diverse fasi dell’evoluzione delle periferie in Italia è probabilmente quella dell’evoluzione del modello produttivo: con l’industrializzazione fordista del secondo Dopoguerra la città si espande ‘a immagine e somiglianza’ della grande fabbrica, con grandi agglomerazioni e uno sfruttamento intensivo del suolo; con il declino del modello fordista, assieme alla grande fabbrica ‘esplode’ anche la città, con fenomeni di dispersione e di sfruttamento estensivo del suolo e grandi riarticolazioni delle funzioni dentro la città consolidata. Non è stato esclusivamente il legame con la sfera della produzione a mutare le nostre città e lo sviluppo urbano, ma il binomio fabbrica-città è efficace nel descrivere tali trasformazioni e in particolare l’evoluzione delle periferie. La periferia infatti ha rappresentato, in particolare nel corso dell’affermazione del modello fordista, la naturale prosecuzione spaziale della collocazione sociale della classe operaia, e le lotte per l’estensione del welfare state che hanno trovato nel corso degli anni una lenta e faticosa concretizzazione proprio nei contesti periferici sono, di converso, il segno dello sviluppo di un sistema di controllo sociale delle masse operaie sempre più articolato.
La seconda parte dell’evoluzione delle periferie ci consegna degli elementi d’analisi più complessi e in parte contraddittori: viene di fatto definitivamente sconfessata la marginalità, intesa dal punto di vista meramente spaziale, come metro di classificazione della periferia. La periferia non è semplicemente “lontana dal centro”, e a volte non lo è affatto. L’esplosione della città fordista e l’ascesa della dispersione urbana hanno di fatto dimostrato che ‘tutto è periferia’, che la ridefinizione di centralità molto deboli attorno ad alcune direttrici di trasporto hanno sostanzialmente fatto scomparire il centro così come è stato sempre inteso nel corso della storia delle città italiane (ed europee). La scomparsa e la disarticolazione del centro cittadino come spazio pubblico predominante ha inoltre cambiato profondamente i connotati del conflitto sociale, facendolo riemergere in forme più carsiche ma più dirompenti anzitutto perché più inedite. La riarticolazione delle funzioni dentro la città consolidata, spinta sempre più anche da un insieme di interessi privati, ha dimostrato che la nascita di nuove centralità o il deciso rafforzamento di quelle vecchie determina il sorgere di nuove marginalità, a volte per nulla distanti dalle centralità stesse: pensiamo all’uso dello spazio pubblico, in particolare da parte dei migranti, nei pressi immediati delle stazioni, o le speculazioni sui prezzi degli affitti, spesso in nero, in molte zone universitarie.
Insomma, pare che le evoluzioni più recenti dello sviluppo urbano in Italia abbiano tolto di mezzo anche quelle poche certezze che potevamo desumere fin qui. Eppure, sgomberare il campo può essere utile ad allontanarsi definitivamente dall’idea che la marginalità spaziale sia un criterio sufficiente per definire le periferie, e per abbracciare come strumento di ricerca la marginalità sociale nelle sue varie declinazioni.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Mercato e Stato, un duplice fallimento
Quando sentiamo la parola periferia solitamente tendiamo a collegarla ad accezioni negative, dal degrado all’assenza di servizi, dai problemi di integrazione alla mancanza di sicurezza. Si tratta di un collegamento molto spesso legittimo, che rappresenta il fallimento di questo modello di sviluppo della città. Ma, più esattamente, stiamo parlando del fallimento da parte di chi? Si tratta di un fallimento duplice, che riguarda in diverse accezioni tanto il libero mercato quanto lo Stato. Alla base del primo fallimento c’è una semplice assunzione: il libero mercato non è strutturalmente in grado di garantire un alloggio dignitoso e una qualità urbana accettabile a tutti, e peraltro non è nemmeno interessato a farlo. Non si tratta di un problema di scarsità in senso stretto: pensiamo soltanto al fatto che in Europa vi sono 11 milioni di case vuote a fronte di 4,1 milioni di senzatetto. Questo dato, che esemplifica in maniera drammatica il fallimento del mercato, rappresenta esclusivamente la punta dell’iceberg di una generale incapacità di garantire uno sviluppo urbano equilibrato, sostenibile e soprattutto socialmente equo.
A fronte di questo fallimento ne subentra un secondo: quello dello Stato come calmieratore degli squilibri del mercato, come regolatore di ultima istanza del modello capitalista, come garante di quel compromesso capitale/lavoro che ha generato le proprie conseguenze anche sullo sviluppo urbano e del quale oggi assistiamo a una profondissima ristrutturazione. Se negli anni che sono stati espansivi anche dal punto di vista della conflittualità sociale si sono prodotti diversi avanzamenti nel campo del welfare, del diritto all’abitare e via dicendo, questi sono stati in larghissima parte spazzati via dal processo di ristrutturazione che, apertosi dagli anni ’80, continua ancora oggi nell’ambito delle misure di austerità e in particolare della riduzione drastica della capacità di spesa degli Enti Locali.
Questo fallimento tuttavia non si limita all’incapacità di conservare quel compromesso, rafforzarlo o estenderlo: anche negli anni più importanti dal punto di vista della conquista dei diritti nell’ambito della questione urbana e non, il ruolo dello Stato era già caratterizzato da limiti macroscopici, tanto rispetto al modello cognitivo e decisionale da applicare nella progettazione urbana, quanto rispetto al ruolo del pianificatore e in generale del progettista dentro quel modello.
Possiamo in sostanza affermare che dentro il compromesso capitale/lavoro non si è sviluppato soltanto un preciso ambito di competenza dello Stato – l’edilizia pubblica popolare, la fornitura dei servizi etc. – ma anche un peculiare modello di approccio cognitivo ai problemi (di fatto quello razionalista e procedurale) e un modello dall’alto verso il basso di definizione ed esecuzione dei progetti, modelli nei quali il ruolo dell’urbanista è quello del tecnico preposto a dare esecuzione a scelte politiche prese nell’ambito della democrazia rappresentativa liberale.
L’estrema attenzione al disegno, dunque all’esito progettuale per giunta limitato ai suoi aspetti formali, ha prodotto in diverse occasioni delle situazioni paradossali: ad esempio, in molti dei casi citati sopra come esempi dell’architettura razionalfunzionalista applicata all’edilizia popolare, l’attivazione dei servizi, l’attrezzatura degli spazi pubblici, l’insediamento delle funzioni diverse da quelle residenziali sono arrivati dopo anni, se non addirittura decenni, dall’arrivo dei primi residenti.
Il fallimento dello Stato è dunque ben più ampio dell’incapacità di dare seguito al compromesso capitale/lavoro, ma riguarda proprio la definizione di quel compromesso come dispositivo – secondo la definizione foucaultiana del termine – che ha orientato un’intera strategia di sviluppo urbano.
Per tornare al problema della ridefinizione del concetto di periferia, potremmo affermare che periferia è lì dove i fallimenti del mercato e quelli dello Stato si incontrano: ritorna il paradigma della lontananza, applicato però alla distanza dalla risoluzione effettiva dei problemi, una distanza massima nel caso delle periferie. Le periferie continuano ancora oggi ad essere l’emblema del fallimento di quel ‘sogno urbano’ che anche nel nostro Paese aveva spinto milioni di persone a emigrare in cerca di una vita migliore. Se, come si suol dire, l’aria della città rende liberi, ciò che noi possiamo intendere come periferia si colloca al di fuori di questo perimetro, a prescindere dall’effettiva collocazione spaziale. Le periferie sono oggi anzitutto i luoghi dei senza potere, per cui la prima preoccupazione di chi vuole provare a cambiare questa condizione dovrebbe essere quella di come restituire la capacità di decidere del proprio territorio e della propria condizione a chi oggi non la ha più.
Periferie e resilienza
Privilegiare la dimensione sociale rispetto alla dimensione fisica nella definizione di cos’è periferia oggi non significa semplicemente recepire una tendenza storica, quella della fine dell’espansione della città occidentale per come l’abbiamo conosciuta nel corso del XX secolo. Si tratta più che altro di riconoscere come strategica la categoria multidisciplinare della resilienza. Resilienza è un termine che proviene dall’ambito ingegneristico e che rappresenta la capacità di un corpo di tornare ad uno stato di equilibrio a seguito di un evento stressante, ad esempio la capacità di assorbire una deformazione elastica. Il termine in seguito si è esteso al campo della psicologia, e poi ad altre discipline. In latino, il verbo resalio indicava il gesto del risalire sulla chiglia di un’imbarcazione dopo che essa era stata rovesciata dalla forza del mare.
Costruire società resilienti significa fare i conti con un termine polisemico, anche se molto spesso in ambito urbanistico è collegato esclusivamente alla dimensione ambientale: in questo campo, la resilienza di un insediamento è legata alla capacità di reagire e riorganizzarsi a seguito di turbamenti climatici o ambientali di ampia portata, ad esempio frane o inondazioni, quindi attiene all’aumento dalla superficie permeabile o al rispetto delle caratteristiche idrologiche del territorio.
In una dimensione sociale e culturale, invece, la resilienza allude alla capacità delle comunità locali di definire reti di solidarietà e inclusione capaci di affrontare, riconfigurandosi in maniera creativa, le fasi di stress (crisi economica, mutazioni nella composizione della popolazione insediata, usi conflittuali dello spazio etc.). Riprendendo la definizione di territorio come uso che se ne fa – sulla quale torneremo successivamente – l’idea dovrebbe essere quella di restituire agli abitanti la capacità di ridefinire collettivamente e in maniera continua l’uso degli spazi, rafforzandone le capacità di autorganizzazione e di scambio di competenze, conoscenze, tempo a disposizione: gli esempi delle banche del tempo, dei gruppi di acquisto solidale, dell’associazionismo culturale e ricreativo, sono molto significativi da questo punto di vista.
Rispetto alla resilienza culturale, risulta interessante capire come tradizioni, usi e memorie locali possono essere un materiale utile per operare processi differenti da quelli delle chiusure localistiche tipiche del contrasto all’insediamento di nuove popolazioni, diverse per etnia e cultura, come quelle dei migranti. In questo caso lo scarto tra resistenza e resilienza è evidente: se l’ambito della resistenza allude a una dimensione puramente contrappositiva – e a un bagaglio retorico che è quello della ‘difesa dall’attacco esterno’, al quale attingono continuamente movimenti e partiti razzisti e xenofobi – l’ambito della resilienza indica invece la possibilità di uscire dal binomio annullamento/difesa dell’identità locale, per concepire la base culturale locale come punto di partenza per il confronto e la contaminazione tra differenze.
Scampia, foto per gentile concessione di Daniele Napolitano Scampia – ph Daniele Napolitano
Conoscere le periferie, per cambiarle
Abbiamo già appurato come non esista – forse in realtà non sia mai esistita – la Periferia con la p maiuscola, intesa come modello assoluto di configurazione spaziale e sociale, come modalità peculiare di insediamento delle classi subalterne nell’area urbana: si tratta di un miraggio che appartiene ad un’altra epoca e che è stato definitivamente sconfessato dalla fine del protagonismo del pubblico nell’edilizia popolare, dall’esplosione del fenomeno della dispersione, dai massicci fenomeni di riconfigurazione della città consolidata. Siamo così dentro un apparente paradosso: una domanda crescente di conoscenza e di maggiore consapevolezza dei differenti problemi che attraversano questi contesti urbani si scontra con l’incapacità di definire modelli di lettura validi in termini assoluti. Possiamo tuttavia provare a fare ordine e a indicare alcune direzioni di ricerca che possono essere utili per conoscere le periferie.
La prima suggestione è quella di provare a non leggere i fenomeni che attraversano le periferie osservandoli dal centro, da un punto di vista che presuppone in sé subordinazione e marginalità rispetto ad un altrove. Questo sforzo indica la necessità di raccontare la ‘storia’ delle periferie in modo diverso, ovvero di costruire nuove metafore generative, secondo la definizione di Schön. “Ogni storia costruisce la propria visione della realtà sociale attraverso un processo complementare di naming (denominazione) e framing (configurazione). Le questioni sono selezionate accuratamente e nominate in una modalità tale da corrispondere alla cornice costruita per l’occasione. Insieme, questi due processi costruiscono il problema a partire dalla realtà vaga e indeterminata che John Dewey chiama la ‘situazione problematica’”. In sostanza, Schön afferma che le situazioni problematiche non sono realtà date, ma dipendono, in particolare nella capacità successiva di individuare soluzioni ai problemi stessi, dalla modalità con la quale sono conosciuti e descritti. “Non chiedere: ‘Qual è il problema?’. Chiedi ‘Qual è la storia?’. Solo così scoprirai qual è davvero il problema”, sottolinea John Forester.
Rispetto al nostro caso, dunque, non trattare le periferie ‘come periferie’ non significa, ovviamente applicare le stesse letture e le stesse soluzioni che si individuano per i centri storici, come ci insegnano molti fenomeni di gentrification – aumento dei valori immobiliari ed espulsione progressiva delle popolazioni storicamente insediate in determinate aree per fare spazio ad abitanti più facoltosi e alle loro attività e servizi – legati alla riqualificazione fisica ed economica di alcune aree urbane, in particolare nei Paesi anglosassoni. Significa invece che, lungi dal dover essere negati o sminuiti, i problemi che incontriamo in periferia possono essere letti in maniera radicalmente diversa dalla semplice marginalità, lontananza o subordinazione rispetto al centro, il che significa innanzitutto fare un lavoro di indagine accurata all’ombra di grandi definizioni come quelle della ‘città delle reti’ o della ‘città postfordista’ – come proposto di recente anche dalla sociologa Saskia Sassen-, letture che spesso si concentrano sulle dinamiche che si sviluppano nei centri delle grandi città finanziarie, relegando i fenomeni ‘di periferia’ in una dimensione quasi meccanica di crescente marginalità. Semplificando, le risorse per la risoluzione dei problemi che affliggono le periferie si trovano in qualche modo già dentro le periferie stesse, e il modo di raccontare questi problemi, che muta radicalmente se prodotto a partire da fuori o da dentro le stesse periferie, è la prima grande risorsa per risolverli.
La seconda suggestione, strettamente legata alla prima, è che per costruire queste nuove storie è necessario che il punto di osservazione sia il più possibile interno a luoghi e fenomeni che si vogliono indagare. Le letture dal centro sono inefficaci nella risoluzione dei problemi soprattutto perché sono operate da fuori, dall’esterno dell’oggetto dell’indagine. Per questo motivo la partecipazione della cittadinanza ai processi decisionali è innanzitutto un processo di apprendimento collettivo. Non è affatto una semplice tecnica procedurale, e proprio per questo motivo non può essere relegata esclusivamente a un uso preliminare o di ultima istanza, o semplicemente per la risoluzione dei conflitti più difficili e aspri, né essere sfoderata come abbellimento di progetti preconfezionati in contesti dove la conflittualità è più attenuata. Nessuno conosce meglio un quartiere di chi ci abita o lo vive nelle più diverse modalità (ci si sposta, ci lavora, ci studia, ci gioca etc.). La conoscenza diffusa e collettiva, i cosiddetti saperi locali, sono una risorsa non sostituibile, e non si acquisiscono da nessuna parte se non nell’interazione quotidiana sul territorio: il che non significa che sono un prodotto casuale dell’interazione, ma piuttosto che possono essere un prodotto eventuale dei processi di partecipazione. Spesso le istituzioni vedono le mobilitazioni locali come un’inutile deviazione, un ostacolo o addirittura un nemico da fronteggiare: si tratta viceversa di una risorsa, difficilmente estraibile ma altrettanto preziosa. La vera sfida è far emergere questi saperi nei contesti più difficili, quelli dove il capitale sociale o la disponibilità alla cooperazione appaiono più deboli, che sono poi quei contesti dove questa risorsa è estremamente determinante nella risoluzione dei problemi. Spesso siamo portati a pensare che questa scarsa disponibilità alla cooperazione derivi da una forma accentuata di familismo amorale: molto più spesso, come nota Marianella Sclavi in “Avventure Urbane, Progettare le città con gli abitanti (Eleuthera 2006)”, si tratta di “carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni”.
Terza suggestione: una rilettura radicale delle questioni di periferia non può che passare da una definizione decisamente utilitaristica del territorio, nell’accezione positiva del termine. Utilizzando infatti una definizione elaborata da Pier Luigi Crosta, “il territorio è l’uso che se ne fa”. Dunque il territorio non è un elemento statico e dato ma è il frutto dell’interazione di diversi attori, e in termini collettivi di diverse popolazioni, ovvero di gruppi più o meno omogenei che fanno usi diversi e quindi hanno visioni diverse dello stesso territorio. È collocandosi dal punto di vista di questi attori collettivi che si possono comprendere in maniera più chiara le dinamiche che attraversano un determinato territorio. Lì dove c’è uso dello spazio, e soprattutto lì dove gli usi dello spazio sono diversi tra loro, c’è interazione sociale: si tratta di un’ottima risposta a chi, con una visione dal centro, analizza le periferie come una tabula rasa dal punto di vista dell’interazione sociale, avendo in mente il modello canonico di relazioni sociali dei centri cittadini.
Questa suggestione diventa particolarmente potente se applicata a diversi casi concreti di convivenza tra popolazioni diverse: ‘autoctoni’ e migranti; vecchi e giovani; residenti e utenti di un centro commerciale; e così via. Pensiamo ad esempio all’uso radicalmente diverso dello spazio pubblico – delle panchine in una piazza, o degli spazi comuni in un condominio – effettuato da molte comunità straniere e dalla popolazione autoctona, usi che riflettono culture e modi di vita diversi e che, a volte, confliggono in un determinato spazio. La questione diventa particolarmente interessante quando questi usi diversi che si concentrano nello stesso spazio devono fare i conti con un’altra dinamica, spesso frutto di quel fallimento dello Stato esemplificato dai grandi progetti di edilizia popolare degli anni ’70: nelle nostre periferie convivono usi senza spazi e spazi senza usi. Una delle grandi sfide contemporanee della pianificazione consiste nel fare i conti con ciò che è già stato costruito e provare a renderlo compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle diverse popolazioni. Locali commerciali sfitti che possono essere messi a disposizione della popolazione per usi ricreativi o di aggregazione; spazi comuni che possono essere ripensati come luoghi di interazione tra culture e tradizioni differenti; aree verdi abbandonate che possono essere curate dagli stessi abitanti per realizzare orti urbani; e così via. Si tratta di processi trasformativi che coinvolgono in maniera più diretta le pratiche di uso del territorio piuttosto che la progettazione fisica in senso stretto.
La quarta e ultima suggestione parte proprio dal riconoscimento del territorio come produzione sociale e dal fatto che questa produzione sociale è spesso conflittuale. Questa considerazione è utile per inquadrare il ruolo dei tecnici che a vario titolo sono chiamati a intervenire su un determinato territorio, e in particolare il ruolo dei pianificatori territoriali, come un ruolo ‘di parte’, fuori da una dimensione meramente tecnica. La pianificazione può essere dunque considerata come un processo sociale, di relazione conflittuale tra interessi a volte contrapposti, nel quale il pianificatore assume un ruolo attivo, di riconoscimento delle differenze; sono necessari infatti strumenti di pianificazione forti per riconoscere e difendere il valore delle pratiche deliberative, spesso non istituzionali, diffuse nel tempo e nello spazio. In sostanza, la prospettiva può essere esemplificata nel restituire potere a chi non l’ha più, e nell’agevolare la (ri)costruzione della società, cioè di una rete in grado di trattenere localmente potere, nei contesti nei quali, in particolare negli ultimi anni, è stato negato ogni spazio – fisico e non – a questo processo di (ri)costruzione. Quando Margareth Thatcher affermava che “la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie”, stava in realtà rivelando un programma politico chiaro che in larga parte si è drammaticamente avverato. Lavorare in direzione opposta a questo programma politico a partire dalle periferie significa concepire la pianificazione dentro – non contro, né sopra – quello sviluppo continuo di relazioni di potere, in uno spazio per nulla asettico e indifferente. Si tratta, dunque, di riconoscere che proprio nel territorio, proprio in quell’intreccio di conflitti, tensioni, gerarchie, riconoscimenti, reti, aggregazioni e simboli, un intreccio apparentemente illeggibile e intrattabile, proprio lì si cela il potenziale necessario per trasformare l’esistente.