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La prima porta sociale del Giubileo per i Romani si apre sulla libertà. Qualcuno di noi l’aveva persa, aveva allontanato da sé la fonte della propria individualità. Oggi la porta giusta si è aperta ed è tornato in campo, è ancora pronto a rischiare, a esserci, a partecipare.
Abbiamo deciso di raccontare la storia di Francesco, abbiamo deciso che questa storia è anche la nostra e che il suo non è un percorso solitario, è comune. Abbiamo deciso che le forze e gli sbagli di uno di noi sono di tutti. Raccontiamo come si rinasce alla responsabilità, come nel freddo della mattina si possa ritrovare se stessi, la propria curiosità e le tante incertezze e come questo possa diventare un percorso comune: insieme per esserci.
Eugenio De Crescenzo
Ore sei di una fredda e nebbiosa mattina: la porta del carcere di Rebibbia si apre al mondo libero e Francesco varca la soglia per vivere la sua giornata di volontariato presso il mercato San Teodoro, nel centro di Roma. È il rito di passaggio dalla condizione di detenzione “fine pena mai” a quella di libertà consapevole a rappresentare l’apertura della prima delle 24 Porte sociali previste dal programma del Giubileo per i romani. Iniziativa che vede l’unione di realtà molto diverse del Terzo Settore ma con l’intento comune di lasciare un segno permanente nella comunità, di creare una rete che diventi elemento strutturale della società romana, ben oltre la durata dell’Anno Santo della Misericordia. Presidi e Porte sociali nella città che vogliono accendere fari sulle tante fragilità ma soprattutto attivare la cittadinanza e far luce sulle risposte che quotidianamente il sociale dà a nuovi e vecchi bisogni. Non più rassegnazione e chiusura ma ricostruzione, dopo anni di abbandono, di infiltrazione della corruzione e del malaffare, del tessuto socio-economico della capitale d’Italia.
La storia di Francesco, emblema di questo cammino di ricostruzione della reputazione, che passa attraverso una profonda revisione critica del passato e la riattivazione delle proprie risorse e potenzialità. Dalla reclusione al regime previsto dall’articolo 21 che stabilisce i criteri per il lavoro all’esterno del carcere: un rigoroso percorso che vede Francesco impegnare molto di sé, assumendosi la responsabilità delle azioni commesse e dei comportamenti tenuti in passato per giungere ad una profonda revisione e volontà di inserirsi in percorsi di risocializzazione.
Ogni domenica alle otto Francesco arriva al mercato San Teodoro e volontariamente si presta alla vendita di prodotti da forno realizzati da rifugiati politici coadiuvati da detenuti, presso il banco della Cooperativa sociale Pid Onlus* (Pronto intervento disagio) che ha seguito e continua a seguire il suo percorso di inclusione dentro e fuori dal carcere. Una domenica particolare quella del 20 dicembre 2015: Francesco è accolto da una rappresentanza del coordinamento del Giubileo per i romani, da Emanuele Goddi, Daniela Arronenzi e da Franco Messina (operatori del Pid*), in uno scenario prenatalizio, molto festoso e colorato, con la musica degli zampognari a fare da sottofondo. Un’atmosfera di festa che accoglie Francesco visibilmente contento di questa attenzione e sostegno, anche da parte di Renato Terribili, direttore del mercato Coldiretti, con cui ha stretto un rapporto di collaborazione e fiducia. Francesco ha un’espressione serena sul volto e rivela: «Oggi confrontandomi con altre realtà difficili intorno a me, mi sento “libero”, sono un uomo sereno».
Solo quando il suo pensiero corre al passato, compresi gli anni trascorsi in altri istituti penitenziari, il suo volto si contrae, gli occhi si intristiscono: è cosciente di un passato che non può cancellare, ma che ha saputo rielaborare e trasformare. «Il mio cambiamento è stato possibile grazie alla direzione del carcere di Rebibbia – Casa di reclusione (che ha fortemente sostenuto progetti di inclusione sociale all’interno delle mura, ndr) per cui ho potuto svolgere diverse attività, come frequentare i corsi di archeobotanica di Zetema (che organizza anche visite museali di gruppo), lavorando spesso a contatto con i giovani. Ma l’esperienza per me più bella è stata il teatro: ho scritto numerosi copioni, messi in scena in varie città d’Italia, che hanno riscosso molto successo e che mi hanno dato grande soddisfazione. Ricordo in particolare lo spettacolo Il Carcere è stato inventato per i poveri, realizzato lavorando con un gruppo di 12-13 ragazzi affetti da grave disagio psichico, che hanno visto dimezzare le pesanti terapie farmacologiche a cui erano in precedenza sottoposti e questo per me è stato il più importante risultato».
Francesco racconta poi di aver potuto svolgere all’esterno (in art.21) alcuni lavori con una “piccola” retribuzione e oggi lavora dal lunedì al venerdì presso il Ministero di Giustizia come archivista, a suggello di un percorso lungo e impegnativo ma che dimostra la sua concreta fattibilità ed efficacia. «Oggi dopo 18 anni sono riuscito a ricostruire la mia reputazione e il mio ruolo nella società e per questo, all’interno del carcere, oltre al Direttore, ringrazio l’assistente capo della polizia penitenziaria, gli educatori che sono pochi ma si impegnano molto, il Pid (soprattutto i volontari Franco e Silvia) che ti sostiene dentro e non ti lascia quando esci fuori. Anche mia moglie e i miei due figli mi sono stati sempre vicini: ci scriviamo spesso, mia figlia Silvia anche 3-4 lettere a settimana. Attraverso le foto che mi manda, ho potuto veder crescere mia nipote».
Un uomo sereno dunque, che si sente riscattato, appagato come individuo e come membro di una collettività che l’ha accolto, gli ha dato fiducia e gli sta offrendo delle opportunità. «Ogni giorno mi impegno molto per restituire qualcosa a questa comunità col lavoro e attraverso il volontariato». Francesco si reputa fortunato, perché negli istituti penitenziari dove è stato recluso prima di Rebibbia, sarebbe rimasto lo stesso di sempre. In realtà più che dalla fortuna dipende dall’integrazione tra istituzioni, direzione del carcere, società civile e volontà individuale. Solo questa collaborazione può effettivamente concretizzare la finalità costituzionale tendenzialmente rieducativa delle pene detentive.
Emanuele Goddi del Pid sottolinea il ruolo fondamentale dell’integrazione: «Roma ha ancora molto da offrire anche se negli anni i tagli trasversali al welfare hanno minato molte realtà associative che oggi non possono più intervenire all’interno del carcere. E la crisi economica ha ridotto in modo significativo le opportunità di lavoro per i detenuti (così come per tutti) che invece danno stabilità ai percorsi di inclusione sociale.
In altre città italiane, ho potuto constatare che manca la volontà del territorio locale di entrare nel carcere. Prigione che diviene così solo un cestino per corpi e anime. Il muro non è quello del carcere, ma soprattutto quello dell’indifferenza che può essere abbattuto solo se, noi società civile lo vogliamo. In particolare i progetti di giustizia riparativa, una nuova forma di giustizia senza sbarre, come quello che vede protagonista Francesco, costituiscono un modo per scontare la pena in modo utile. Così come lo è la messa in prova per reati minori (da 0 a 4 anni di reclusione), che permettono l’avvio di attività, in grado di creare valore durante la pena, per l’individuo stesso e per la comunità. Oggi il tempo dell’espiazione penale deve essere un momento di incontro tra l’autore di reato e la società civile. La persona condannata inizia un percorso di riflessione sui propri comportamenti fino a comprendere che occorre restituire qualcosa alla collettività defraudata a causa delle proprie azioni. Per questo il detenuto viene messo in contatto con realtà e tematiche più ampie e complesse, come quella dei rifugiati, nel caso di Francesco».
Rita Mazzeo
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*La Cooperativa sociale Pid si occupa dal 1998 – anno della sua costituzione – di inclusione socio-lavorativa di persone svantaggiate e di recupero alla legalità di soggetti a rischio devianza. Svolge attività di segretariato sociale e, grazie all’ampia rete costruita nel tempo con altre realtà associative e in collaborazione con le istituzioni, realizza progetti di giustizia riparativa, operando sia nel carcere di Regina Coeli che di Rebibbia, per sostenere i detenuti in percorsi di reinserimento nella società. È nata così la Casa famiglia Don Pino Puglisi (bene sottratto alla mafia) per accogliere chi esce dal carcere o è in misura alternativa. Infine, gestisce una struttura di accoglienza “La casa di Otello” per migranti titolari di protezione internazionale.