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Il ristorante nel carcere di Bollate.
I detenuti cucinano e servono ai tavoli. Giuseppe, 23 anni: «Sono emozionato».
Nel menu non ci sono gli spaghetti alle vongole fujute (scappate) o le pennette al 41 bis, come sarebbe piaciuto all’ispettore Vincenzo Ormella, responsabile del settore esterno. I piatti vanno dalle pappardelle di castagne con ragout di cervo con grappa e ribes alla faraona farcita con belga e nocciole. Dodici euro piatto unico del pranzo, trenta-quaranta euro una cena completa, con la carta dei vini che non fa torto a nessuna regione.
Un nuovo ristorante a Milano. Anzi a Bollate. Anzi, dentro il carcere di Bollate. Il primo in Italia. Si entra dalla guardiola, ma non si lascia il documento, basta aver prenotato: una stagista dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi accoglie gli ospiti e li accompagna «InGalera», tavolo d’angolo con vista cortile, le sbarre alle finestre, tovaglie di stoffa immacolate la sera e tovagliette di carta a mezzogiorno con le foto delle prigioni d’Italia e del mondo: Regina Coeli, Dorchester, San Vittore.
La brigata di sala e cucina
Massimo Sestito, 46 anni, è il maître, food & beverage manager: praticamente in sala comanda lui. È un uomo libero, come lo chef, Ivan Manzo, una roccia di 140 chili per 185 centimetri. I due camerieri, i due aiuto cuoco e il lavapiatti che li assistono no, loro sono detenuti. Uomini che hanno sbagliato, e molto, ma che in prigione si stanno conquistando una seconda possibilità.
Hanno scontato un terzo della pena quindi hanno diritto all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, cioè a uscire dal carcere per lavorare.
Le loro condanne sono lunghe, proporzionate al reato commesso: fine pena nel 2027, 2023, 2025, dipende. Racconta Giuseppe, 23 anni, in prigione da sette. «Se sono contento? Cavolo, sì! È il mio terzo giorno, sono emozionato. Questa è una soddisfazione anche per la mia famiglia, finalmente. Non mi sento giudicato e i clienti mi trattano da persona sociale».
I requisiti dei detenuti-lavoratori
Silvia Polleri è la responsabile della cooperativa Abc che ha assunto il personale, sette in tutto, al quale si aggiungono le hostess e quattro tirocinanti-detenuti del Frisi. «Era necessario che avessero tutti ancora molti anni da scontare, per garantire continuità al loro lavoro e un senso al nostro investimento. Al bando, all’inizio, avevano risposto in 90 per due posti. Un ufficio specifico della polizia penitenziaria ha fatto la prima scrematura: i candidati non dovevano avere dipendenze da alcol o da droga e non dovevano assumere psicofarmaci. Il salario di ingresso è pari al 65 per cento dello stipendio base. A seconda dei ruoli parliamo di 600-700-1.200 euro al mese».
Il vero senso della pena
Un ristorante così non si improvvisa. È l’evoluzione di un progetto formativo avviato quando la cooperativa Abc ha cominciato a far lavorare i detenuti per servizi di catering, nel 2004. Si è rafforzato con l’arrivo della succursale dell’alberghiero, nel 2012. E, infine, ha potuto contare sul supporto indispensabile di PwC (network di servizi di revisione e consulenza legale e fiscale), di Fondazione Cariplo e Fondazione Peppino Vismara. Ognuno ha fatto la sua parte, compreso il direttore Massimo Parisi, che ha concesso in comodato d’uso i locali della sala convegni della polizia penitenziaria. Dice: «Dobbiamo riflettere sul senso comune della pena e chiederci che cosa ci aspettiamo davvero da un carcere. Io mi aspetto che i detenuti, una volta usciti, non commettano altri reati». Missione, per adesso, compiuta: il tasso di recidiva, a Bollate, è del 17 per cento.
«InGalera» sarà inaugurato oggi, anche se ha aperto in sordina un paio di settimane fa (e ha già ricevuto la visita della polizia annonaria: tutto ok). Passate parola.