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Street art come trompe l’oeil dello stato sociale.
I murales stanno riempiendo le periferie delle città italiane. Soprattutto Roma negli ultimi anni ha visto decine di grosse opere d’arte murarie disseminate per quartieri popolari, spesso difficili, come San Basilio, Torpignattara, e Tormarancia, e altri nel tempo diventati più residenziali come Garbatella, Quadraro e Ostiense. Oltre agli aspetti indubbiamente positivi, esistono rischi della “muralizzazione” delle periferie, su cui è bene tentare una riflessione.
A differenza dei graffiti che a partire dagli anni Ottanta, per un buon ventennio, hanno colorato i muri delle metropoli italiane, la nuova ondata di murales non ha nessun legame (se non rintracciabile in alcune delle biografie degli artisti) con il movimento hip hop, e non rappresentano l’autoaffermazione estetica di una precisa comunità underground. Di fattura artistica più intellegibile, hanno raggiunto a livello internazionale un gusto di massa precluso, tranne rare eccezioni, ai vecchi graffiti.
Un esempio su tutti è quello di Banksy, il misterioso artista britannico ormai diventato il più potente simbolo della Londra moderna. Tornando all’Italia, che siano partiti dal basso, in maniera spontanea, o sempre più spesso programmati da associazioni o istituzioni territoriali, i murales nelle periferie hanno una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale.
Agiscono, cioè, in quartiere sviluppatisi nei decenni in maniera spontanea e non pianificata, in certi casi tramite edifici frutto di autocostruzione, spesso sgradevoli esteticamente. Sono quartieri che alla natura di dormitorio e di borgata con le sue leggi e i suoi valori estranei e di difficile comprensione all’esterno, hanno nel tempo fatto spazio a successive ondate migratorie che ne hanno reso sempre meno intellegibile il codice di interazione comune, che hanno sfaldato il tessuto sociale antico, senza sostituirlo con uno nuovo.
Quartieri come Torpignattara, che in pochi decenni si è trasformato da borgata pasoliniana, a quartiere della mala, a periferia multi-etnica per eccellenza, con tutte le problematiche del caso, come le tensioni e i conflitti più o meno scoperti tra comunità diverse. In questo contesto di smarrimento della visione che una borgata non più borgata ha di sé, in cui i palazzoni hanno sostituito e si sono affiancati alle baracche nel giro di qualche decennio, i murales vengono utilizzati come elemento ricombinante delle differenze socioculturali del quartiere.
Il linguaggio del murale, ibrido, informale, non legato a una lingua in particolare, e soprattutto, destinato alla strada, dunque al passaggio casuale, diventa il migliore strumento per veicolare la rinascita di un quartiere.
In luogo delle grigie facciate dei palazzoni di San Basilio, quartiere conosciuto nel resto della città per lo spaccio di droga, sorgono enormi murales firmati da artisti apprezzati a livello nazionale e internazionale, stessa cosa avviene a Tormarancia e a Torpignattara. Sten&Lex, Blu, Alice, Diavù, Jef Aérosol, solo alcuni dei nomi impegnati in questa riscrittura dei muri delle periferie romane.
Qual è il risultato principale, oltre a dare un po’ di colore dove colore non c’è, di queste opere, spesso finanziate dai municipi, come il progetto Mu.Ro al Quadraro, da associazioni locali tramite bandi, o persino da gallerie d’arte, come nel caso di Wunderkammer a Torpignattara? È il contributo in termini di auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé.
Dunque, non più, o per lo meno non solo, il quartiere sporco, “invaso dagli stranieri”, area di spaccio, ma il centro di sviluppo di arti urbane, di fermento culturale. Ormai nelle periferie muralizzate di Roma si organizzano tour guidati. A fine aprile il Comune di Roma lancia un video promozionale turistico dei murales della città e Artribune e Toyota lanciano la prima app di geolocalizzazione della street art nella Capitale. Tutto questo dà certamente la possibilità all’abitante del luogo, soprattutto a bambini e adolescenti, di intravedere per lo meno questo sviluppo alternativo per il quartiere che gli appartiene.
Il regalo che questa politica di ridisegno delle periferie fa tramite i murales è quindi quello dell’orgoglio dell’unicità, non tramite il meccanismo di stigmi antichi ma attraverso quello di risorse nuove e positive.
Questo corto circuito tra murales e periferie, però, porta con sé dei rischi altissimi, sia per i primi che per le seconde.
Per i primi, o meglio per la street art in generale, il rischio principale è quello di perdere la sua stessa anima. L’arte di strada nasce come differenza rispetto ai prodotti destinati ai musei e agli interni. Questi ultimi nel corso dei decenni sono stati talmente addomesticati dal gusto medio, da essere diventati inerti e inoffensivi.
L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare.
Il successo di Banksy deriva proprio dalla capacità (associata all’abilità di presentare le sue idee con estrema gradevolezza formale) di “stornare” tramite piccoli dettagli nel significante il significato maggioritario in messaggio di rivolta (fosse anche solo esistenziale).
Cose succede però a questo punto? Succede che Banksy è così bravo che piace a tutti, anche a quelli a cui non vorrebbe probabilmente piacere. Succede che i mercatini e i negozi di souvenir di Londra cominciano a vendere più t-shirt e cartoline con la riproduzione pirata (che formidabile contrappasso) dei murales di Bansky, che con l’effige del Big Ben.
Vai a Londra e torni con un ricordo di Banksy. Non è proprio addomesticamento dell’immaginario, ma quasi ci siamo. Addirittura nel 2015 alcune amministrazioni britanniche comunicano l’intenzione di apporre delle lastre di vetro a protezione delle opere più significative della misteriosa primula rossa star della street art, per salvarle dagli atti di vandalismo.
Come una Monnalisa, come una pietà di Michelangelo. Chi non voleva entrare nel museo si è trovato circondato dal museo. Nel caso di Banksy si sono verificati atti di vandalismo e azioni di detournement sulle sue opere da parti di ammiratori e aspiranti writers desiderosi di farsi conoscere.
Meccanismi che testimoniano come ci si trovi di fronte a un’industria culturale in fase di maturità. In zona ostiense, sempre a Roma, esiste un’opera, Wall of fame, dipinta da JB Rock, che rappresenta la personale galleria dei miti dell’artista. Mescola Sergio Leone a Frida Kahlo, a Dante, fino a suo fratello. Riferimenti molto underground, ma finanziamento ricevuto da Mccann Erickson, una delle agenzie pubblicitarie più grandi del mondo, presente in centoventi Paesi.
Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte, ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica.
Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere. Sembra essersene accorto solo Blu, artista tra i più quotati a livello mondiale, tra l’altro uno dei pochi a quei livelli che lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera.
Nel dicembre 2014, un enorme graffito fatto da lui su due muri di Cuvrystraße, nel quartiere di Kreuzberg, a Berlino, vengono cancellati durante la notte. Sui social si grida alla censura, allo sfregio, ma il giorno dopo è lo stesso artista a comunicare di aver eseguito personalmente il gesto.
Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì. A memoria, è la prima volta che un artista di murales di quel livello compie un gesto politicamente così forte rispetto alla funzione della propria arte nel contesto urbano in evoluzione. Purtroppo la consapevolezza di Blu, in un contesto ormai dominato dalla stretta esigenza di autoaffermazione, è rara, quasi un’eccezione in un processo che sembra irreversibile.
Procediamo affrontando l’altro rischio, quello che corre la periferia nell’abbraccio asfissiante dei murales organizzati da enti e organizzazioni. È quello della sostituzione dei bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate.
Laddove per un assessore alla cultura, un presidente di municipio, un sindaco, e in parte anche per un’associazione di territorio, è più semplice e meno dispendioso finanziare la stesura di un murale, facendo leva sull’orgoglio degli autoctoni, che trovare soluzioni efficaci a problemi complessi e di lungo radicamento.
Il murale se lasciato da solo a fronteggiare la deriva delle periferie diventa un vero e proprio trompe l’oeil dello stato sociale. Il restyling della borgata è cosa relativamente semplice e potente nell’immediato, perché contiene in sé tutti i punti di forza di un simbolo.
Evoca un cambiamento, che non è detto si sostanzi del tutto. L’Italia è un Paese profondamente innamorato dei simboli. Ma proprio per la sovraesposizione a forme di comunicazione di questo tipo, la velocità di logoramento e di sostituzione è sempre più rapida. Il simbolo, se non è sostenuto da segni destinati a durare, strutturali, si affloscia e lascia lacune ancora più brucianti.
Roma in particolare ha visto già l’esempio dell’amministrazione Veltroni, un sindaco che ha puntato tutto sul valore simbolico della ricostituzione di un senso di comunità, anche nelle periferie, attraverso incursioni spettacolari del tutto slegate dal tessuto sociale e urbano di destinazione.
Dalla notte bianca ai teatri di frontiera semi-abbandonati a se stessi. Il risultato è che con difficoltà solo pochi anni dopo si trova un romano disposto a dare un giudizio positivo di quell’esperienza, mentre viene ricordata con benevolenza l’amministrazione precedente, di Francesco Rutelli, per le infrastrutture stradali che hanno migliorato la mobilità.
Alla fine dei conti le buche nelle strade contano più dei mega-eventi al Circo Massimo, l’assenza di asili nido infinitamente di più di un bellissimo murale di Blu.
Quello che ci permette di scartare da questa apparente trappola è la consapevolezza che nel caso delle periferie in transizione, smarrite e incerte nell’identità, il lavoro sull’autopercezione delle potenzialità territoriali, cui contribuisce la street art, può favorire l’insorgere di una coscienza diffusa della necessità di reclamare condizioni di vita migliori. Prima individualmente, poi collettivamente, poi in maniera organizzata. Sta già succedendo, anche grazie e nonostante, la street art.