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Vorrei fare gli auguri di una bella giornata alle donne ricordando una grande conquista ottenuta quarant’anni fa dopo quasi venti anni di lotte contadine nelle campagne italiane: la parità in famiglia.
Nella riforma del diritto di famiglia approvata nel 1975 fu introdotta per la prima volta una norma sull’impresa familiare per tutelare i componenti della famiglia che collaborano nell’impresa nei confronti dell’imprenditore. Con questa norma il familiare partecipante all’impresa ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa.
Prima del 1975 il lavoro prestato della moglie e dai figli era privo di qualsiasi riconoscimento. Non solo. Per avere diritto all’assegnazione di terreni degli enti di riforma la situazione era davvero paradossale. Tutta la famiglia era impegnata a lavorare per pagare le rate e riscattare le terre; ma poi, al momento del riscatto, la proprietà andava al solo capofamiglia. La stessa cosa avveniva con l’acquisto dei terreni con le agevolazioni per la proprietà coltivatrice. Per avere i mutui quarantennali ai fini dell’acquisto dei terreni, l’agricoltore doveva dimostrare di possedere un’azienda vitale, cioè che la sua famiglia era composta da un numero di persone che lavoravano e pagavano le rate. Ma poi, la terra rimaneva intestata solo al capofamiglia e la moglie ne veniva esclusa completamente. Anche l’acquisto degli animali, delle macchine e delle attrezzature era garantito dal lavoro di tutta la famiglia. Ma poi se ne avvantaggiava solo uno.
La stessa cosa avveniva da sempre anche nelle aziende artigiane e commerciali. Esclusivamente per l’agricoltura e solo in alcune aree dell’Italia centrale esisteva, però, l’antico consuetudinario istituto della comunione tacita familiare: le antiche famiglie si aggregavano per condurre un’impresa comune. In base a questi antichi usi, tutto quello che veniva acquisito, comprese le migliorie, era diviso fra tutti i componenti della comunione con il sistema, vigente allora, che il lavoro della donna valeva il 60 per cento di quello dell’uomo.
Nel 1975 per la prima volta una legge estende l’antica consuetudine a tutto il Paese e considera il lavoro della donna e quello dell’uomo equivalenti. Si supera così una grave discriminazione perché le donne contadine portavano il trattore, partecipavano alle colture specializzate, svolgevano ogni tipo di attività nelle aziende. Anzi s’accollavano ogni onere di direzione e di lavoro quando il marito andava a lavorare in fabbrica o all’emigrazione, più o meno temporanea. Ma ad avere tutti i diritti restava l’uomo per cui avvenivano cose curiose come, per esempio, questa: se c’era il premio d’integrazione per l’olio e il marito era in Germania, la donna non poteva fare la domanda, o non poteva incassare, a tutto danno della famiglia.
Fu dunque una grande conquista sociale e civile il nuovo diritto di famiglia. E fu soprattutto l’Alleanza dei Contadini, l’organizzazione che si batté con testardaggine per ottenere questa riforma. Già nel 1957 il suo Presidente, Emilio Sereni, aveva presentato una proposta di legge intitolata Per la difesa e lo sviluppo dell’impresa e la proprietà contadina che prevedeva le norme che saranno poi accolte nel 1975 dopo quasi venti anni di lotte nelle campagne.
Per saperne di più: http://www.ibs.it/code/9788889986271/pascale-alfonso/radici-gemme-societa.html