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Il pane e (poche) rose
Il Decamerone è l’opera letteraria italiana che ha avuto il maggior numero di trasposizioni cinematografiche sin dai tempi del muto con il cortometraggio Andreuccio da Perugia del 1910 di Enrico Guazzoni ; tra i tanti c’è anche un Boccaccio del 1920 – basato sull’operetta di Suppè- girato in Austria da Michael Curtiz né va dimenticato, dopo il successo del Decameron di Pasolini, il fiorire dei cosiddetti decamerotoci (filmetti scollacciati, più o meno basati sulle novelle del Boccaccio). Ora arrivano i Taviani e, mettendo al centro del racconto i dieci giovani novellieri e la pestilenza dalla quale fuggono, innestano nel testo la loro visione metastorica, scarna ed essenziale; non a caso la messa in opera delle pagnotte è uno dei momenti più significativi e poetici del film.
di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Con Lello Arena, Paola Cortellesi, Carolina Crescentini, Flavio Parenti, Vittoria Puccini Italia 2015
Nel 1348 la peste sta devastando Firenze, vediamo, in apertura, un giovane appestato (Marco Iermanò) che si lancia nel vuoto dal campanile di Giotto; sette giovani , tre ragazzi (Moisè Curia, Nicolò Diana e Fabrizio Falco) e sette ragazze (Melissa Bartolini, Eugenia Costantini, Miriam Dalmazio, Camilla Diana, Ilaria Giachi, Barbara Giordano e Rosabell Laurenti Sellers) decidono di rifugiarsi un campagna, dandosi alcune semplici regole: vivranno la vita semplice dei contadini, quelli di loro accoppiati si asterranno da gesti amorosi per non immalinconire gli altri ed ogni sera ciascuno di loro racconterà agli altri una novella per dimenticare l’angoscia di quei giorni. La prima storia è quella di Catalina (Puccini) che si ammala di peste e la madre (Enrica Rosso) del debole marito Nicoluccio (Parenti) la fa portare via; il cocchiere la lascia per morta in una chiesetta e Gentile (Scamarcio), innamorato da sempre di lei, la porta in casa propria e la cura. Una volta risanata organizza un banchetto, nel corso del quale sarà proprio Nicoluccio (tratto in un inganno) a decretare che la sposa spetta a chi la ha salvata. Ecco poi il racconto di come allo sciocco Calandrino (Kim Rossi Stuart) gli amici Bruno (Simone Ciampi) e Buffalmacco (Lino Guanciale), d’accordo con tutta la contrada, fanno credere di aver trovato una pietra che rende invisibili, quando però la moglie Tessa (Silvia Frasson) lo saluta e dischiara di vederlo, la picchia chiamandola “strega!”. Ecco i casi del duca Tancredi (Arena), che ama smodatamente la figlia Ghismunda (Kasia Smutniak), che, tornata a casa vedova dell’anziano marito che il padre aveva scelto per lei, si innamora del cesellatore Guiscardo (Michele Riondino), protegè del duca; quando il padre, folle di gelosia, fa trucidare il giovane, lei si uccide con il veleno. Vediamo la severissima madre badessa Usimbalda (Cortellesi) infuriarsi con la novizia Isabetta (Crescentini), sorpresa in cella con l’amante ma, quando la giovane le fa notare che al posto della cuffietta ha in testa un paio di mutande da uomo, la pia donna getta la maschera ed invita le consorelle a darsi alle gioie della carne. Da ultimo si raccontano le disgrazie del nobile e ricco Federigo degli Alberighi, tanto innamorato di Giovanna (Jasmine Trinca) da ridursi in miseria per lei; a seguito di ciò, lui vive in un casolare con la sola compagnia di un amatissimo falcone che lo aiuta, con la caccia, a sostentarsi e tutti i giorni spia da lontano l’amata che, rimasta vedova, accudisce il figlioletto Rinuccio (Niccolò Calvagna), malfermo di salute. Federigo insegna al bambino l’arte del falconiere e quando il piccolo ha una ricaduta e chiede di poter avere il falcone, la madre va dal vicino per chiederglielo ma non trova subito il coraggio e, sulle prime, gli dice che si fermerà a pranzo; lui, disperato perché la dispensa è vuota, le cucina proprio il falco.
Il Decamerone è probabilmente l’opera letteraria più rappresentata al cinema: già nel 1910 Enrico Guazzoni dirige un corto dalla novella Andreuccio da Perugia, ricordiamo poi un Boccaccio austriaco del 1920, girato da Mihally Kertesz ( il futuro Michael Curtiz), un Boccaccio del ’40 e, nel ’53, Le notti del Decamerone sino allo splendido Decameron di Pasolini del 1971, da cui prenderanno le mosse una nutrita serie di commediole ammiccanti, più o meno basate sulle novelle del Boccaccio, che, nei primi anni ’70, furono classificati come decamerotici . I Taviani hanno spesso usato la grande letteratura come base delle loro opere (da Goethe a Pirandello, a Dumas, a Tolstoy, a Shakespeare, per citarne alcuni) ma ne hanno sempre tratto dei film personalissimi, ancorché fedeli alla lettera della narrazione; anche in questo caso non fanno eccezione: là dove, ad esempio, il film di Pasolini era un capolavoro di carnalità ferina, anche nei momenti più lirici, loro – lontani come sono da ogni coinvolgimento sensuale- spostano l’epicentro del racconto sulla peste e sui giovani narratori e le novelle stesse divengono pretesti per dare vita alla grande pittoricità che, insieme al rigore politico (i loro film in costume rimandano sempre metastoricamente all’oggi), è una delle chiavi della loro poetica (non a caso, qui diviene centrale la lavorazione del pane, attraverso la quale i dieci giovani si conciliano con se stessi e con la natura che li ospita). Da questo punto di vista non si possono non citare, oltre ai soliti perfetti costumi di Lina Nerli Taviani, le scene di Emita Frigato e la fotografia di Simone Zampagni. Il cast è notevole e, come sempre con i Taviani, quelli bravi (la Cortellessi ed Arena su tutti) sono al loro meglio, gli altri si adeguano come possono.