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L’inchiesta “Mondo di mezzo” ha messo a nudo una realtà romana in cui emerge la crisi della rappresentanza non solo sul piano della politica e delle istituzioni ma anche su quello della società civile. Una crisi che viene da lontano e che dipende dal deteriorarsi delle forme tradizionali con cui avvenivano le relazioni tra sistema politico e società civile e dalla messa in discussione dei sistemi di welfare edificati nelle società del benessere, i quali avevano anche modellato le forme della rappresentanza.
Approfittando dell’indebolirsi delle capacità dei corpi intermedi di svolgere la propria funzione primaria, l’associazione mafiosa si è insediata negli interstizi lasciati vuoti tra cittadini, formazioni sociali e istituzioni, laddove appunto le rappresentanze degli interessi dovrebbero cogliere e selezionare i bisogni sociali e tramutarli in richieste leggibili per la politica e per i cittadini.
In sostanza, la mafia non ha fatto altro che colmare vuoti e lacune della rappresentanza. Ha potuto così alimentare la corruzione e il malaffare anche nell’ambito dei servizi sociali destinati ai più deboli, trovando terreno fertile per coinvolgere nell’intreccio mafioso perfino alcune cooperative sociali. La vera e propria attività lobbistica della mafia si esplica nella capacità di “creare” emergenze, pilotarne la percezione da parte dell’opinione pubblica e orientare le risorse pubbliche a vantaggio delle proprie attività.
Tale fenomeno dipende dall’intreccio di una serie di fattori: l’impoverimento di ampie fasce sociali dovuto alle debolezze strutturali del tessuto economico del Paese e all’acuirsi della crisi; l’assenza di una cultura del merito o, comunque, di regole efficaci per poterla affermare; l’ipertrofia normativa negli ambiti più diversi della pubblica amministrazione e dei rapporti tra questa e i soggetti economici e sociali; il frequente ricorso a procedure d’emergenza che eludono gli iter di garanzia e alimentano fatti degenerativi e relazioni perverse tra politica e istituzioni e tra società e istituzioni; l’assenza di una co-progettazione condivisa tra gli attori in gioco e i pubblici poteri in un quadro programmato e di ampio respiro; l’accumularsi di errori nell’azione pubblica di governo della città, specie in quella che avrebbe dovuto assicurare inclusione sociale ai suoi cittadini più vulnerabili (servizi essenziali di urbanizzazione, di sicurezza, abitativi, di cura degli anziani e dell’infanzia, etc.).
L’altro elemento che a Roma sostanzia e acuisce la crisi della rappresentanza a tutti i livelli è il mancato riassetto delle istituzioni locali, le cui inefficienze rischiano di aggravarsi ulteriormente a seguito della recente istituzione della città metropolitana di Roma. Di fatto, si è semplicemente sostituita con questo nuovo ente la Provincia omonima, lasciando tutto come prima.
Si sono così arrestati tre percorsi innovativi che si erano avviati da circa quindici anni e che sembravano dover convergere in un unico riassetto complessivo: l’evoluzione dei Municipi in veri e propri Comuni; l’individuazione di un’area vasta coincidente coi Municipi di Roma, da trasformare in Comuni, più i Comuni e le Comunità della cintura romana; la confluenza delle funzioni speciali di Roma capitale e di quelle di area vasta nella città metropolitana. L’aver frenato tali processi riformatori fa emergere in modo impietoso la fragilità delle istituzioni più prossime ai cittadini, quali sono i Municipi. Una fragilità che si ripercuote negativamente sulla capacità di selezionare i bisogni e sull’efficacia dei servizi alle persone e alle comunità. E il tutto contribuisce ad alimentare la sfiducia tra pubblica amministrazione e società.
C’è dunque un interesse comune delle istituzioni locali e delle organizzazioni di rappresentanza a supportare progetti territoriali da realizzare nei territori municipali al fine di promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione.
Si tratta di affidare all’innovazione sociale un ruolo importante per invertire le tendenze in atto, innanzitutto mappando le comunità, i suoi leader naturali, la cittadinanza attiva e l’associazionismo diffuso, e poi strutturando, in modo sano e trasparente, gli spazi di definizione dei bisogni sociali partendo “dal basso”.
Lo sviluppo locale dovrebbe essere l’asse di progressione su cui tentare di rinforzare le funzioni della rappresentanza sociale e di incanalare il decentramento istituzionale, attivando energie oggi magari inespresse, formalizzandole e funzionalmente distribuendole fra singole responsabilità. Il fine è quello di far crescere le persone, la qualità umana dei singoli mediante l’aumento della buona occupazione e della relazionalità.
Il Terzo Settore potrebbe svolgere un ruolo determinante nel favorire la collaborazione tra i vari corpi intermedi e tra i diversi settori e competenze. Promuovendo la capacità di lavorare insieme, il non profit potrebbe meglio ricostruire la reputazione del proprio brand anche mediante l’introduzione di percorsi capaci di connettere la governance delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato con gli operatori e con gli utenti e di sostenere la valutazione partecipata dei servizi offerti ai cittadini.
Nell’ambito dei servizi sociali non ha senso che i soggetti non profit competano al massimo ribasso, magari tagliando le buste paga dei lavoratori o lesinando nell’offerta. Non si tratta di eliminare i bandi, che sono il modo per chiamare a raccolta le disponibilità del territorio, ma di sostituire le gare d’appalto con la co-progettazione pubblico-privata, laddove la normativa lo consente, chiamando a partecipare i portatori di bisogni (le famiglie) e i produttori (le fondazioni, le cooperative sociali, gli organismi di volontariato, le associazioni, gli operatori). In tal modo la cultura del merito si potrà esprimere nella capacità di declinare l’efficienza mediante processi riorganizzativi, fusioni, specializzazioni per aree di bisogno. E la cultura della sussidiarietà potrà crescere promuovendo “punti comunità” in ogni quartiere, gestiti in forma auto-organizzata dai soggetti sociali presenti e disponibili, nonché ridisegnando le maglie dei servizi sociali sul territorio in modo totalmente sussidiario.
I territori municipali presentano spesso forti elementi storico-culturali-ambientali che permettono sia di costruire concretamente un’identità in cui gli abitanti possano riconoscersi, sia di comporre un quadro d’insieme e una “visione” di sviluppo, a medio-lungo termine, capace di coinvolgere le aree più significative dei territori medesimi e i relativi processi trainanti, di trasformare la convivenza di una pluralità di etnie in opportunità e di attrarre anche investimenti dall’esterno e dall’estero.
Diventa a tal fine necessario far interagire i diversi ambiti della programmazione pubblica, tra cui i processi di trasformazione urbanistica (a partire dalla Carta dei Valori redatti dai Municipi in vista della Conferenza urbanistica cittadina), i piani di zona dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, i piani di assetto delle aree protette, etc.
Di primaria importanza è l’utilizzo integrato territoriale dei Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020, realizzando anche programmi di cooperazione con territori di altre capitali europee al fine di introdurre percorsi innovativi di riqualificazione urbana, agricolture civili e sviluppo locale. Si tratta di chiamare a raccolta le forze istituzionali, imprenditoriali, culturali e sociali locali (e anche forze esterne), disponibili a mettersi in gioco per prendere parte attiva allo sviluppo dei territori municipali.
La prima risorsa che dovrebbe essere messa a valore è la condivisione delle informazioni. Tutti i soggetti economici e sociali dei territori dovrebbero avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano. E tutti i buoni progetti dovrebbero essere messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme si potranno realizzare progetti migliori.