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La crisi e le idee, vortici di sabbia sulla cultura

vendesi

Se pensiamo che «politica culturale» sia una frase un po’ stanca, non possiamo lamentarci se i consumi crollano, le librerie chiudono, i teatri arrancano

Una tempesta di sabbia ha investito la cultura romana. Siamo in una nube di confusione e nello spaesamento non ci preoccupiamo delle cause e facciamo finta di non vedere il deserto che avanza. La vicenda dell’assessorato alla Cultura «vacante» ne è forse l’espressione più chiara. Dal 25 maggio Flavia Barca ha rimesso il proprio incarico e Ignazio Marino fa sapere che sì, sarà sostituita, ma dopo la votazione sul bilancio. Cioè dopo la fine di luglio, in pratica ad agosto, in sostanza a settembre.

 

 

Signor sindaco, vorremmo rassicurarla, l’assessorato alla Cultura non è il Senato romano, non ha duemila e passa anni di storia, è cosa recente. Ne abbiamo fatto a meno per secoli, possiamo continuare a ignorarlo. Certo, fa un po’ effetto proprio a Roma, che non è stata la prima città italiana ad adottarlo, ma sicuramente ha avuto in Renato Nicolini – tra il 1976 e il 1985 – l’uomo che ha riempito di senso questa definizione. Pensi, il primo «assessore alle istituzioni culturali» in Italia fu nominato nel 1959 e fu il primo incarico in giunta a Bologna di un trentaquattrenne Renato Zangheri. Ma è negli anni Settanta che, nelle amministrazioni comunali italiane, questa definizione accompagna la riconquista di città cupe, sconvolte dalla stagione del terrorismo. E una rinascita straordinaria delle proposte culturali e di spettacolo. Non c’erano tanti soldi, sa, neanche allora. Le idee invece non mancavano.

Ma se continuiamo a considerare inutile una funzione così delicata di programmazione e coordinamento, se pensiamo che «politica culturale» sia una frase un po’ stanca, non possiamo lamentarci se i consumi crollano, le librerie chiudono, i teatri arrancano e quel «mostrificio» giustamente denunciato su queste pagine da Vittorio Emiliani, lascia così a desiderare. Non sono i numeri o i biglietti venduti a dare sostanza a una proposta culturale, con buona pace di chi pensa che la soluzione sia il marketing: sono i semi che spesso germogliano ben oltre la fine di un mandato amministrativo (Nicolini ha passato una vita da ex assessore a difendersi dalle stupidaggini sull’«effimero»). È il senso di appartenenza civile di una comunità, capace di riconoscersi nelle meraviglie dei Musei Capitolini senza bisogno di affannarsi a disperderle ai quattro angoli del mondo. «Cultura» è soprattutto un’idea di città, la vera e più importante politica urbana. Se questa idea manca, il resto crolla da solo senza bisogno di grandi aiuti. D’altronde l’Italia ha dovuto aspettare il 1974 per avere un Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (l’articolo 9 della Costituzione tracciava questo percorso molti anni prima) e mezzora dopo la sua nascita qualcuno proponeva già di abolirlo.

Quindi, signor sindaco, non si crucci e non si lamenti, le cose possono solo peggiorare. Ma lei potrebbe accorpare la delega della Cultura a qualcun’altro tra i suoi assessori. Nel 1967 in Campidoglio c’era un assessorato «alla Nettezza urbana, sport, giovani e spettacolo». Suona come una premonizione in mezzo ai vortici di questa tempesta di sabbia. Dove nessuno si occupa di un’aridità che impiegheremo molti anni a combattere e la visibilità è ridotta a pochi passi, quelli dell’ultima emergenza di giornata.

Paolo Fallai

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