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Wi-fi libero, l’Italia è ferma al Medioevo

wifi Un emendamento al Decreto del fare rende impossibile per baristi e negozianti offrire il servizio

Non c’è verso, dare ai clienti del proprio bar un servizio wi-fi gratuito in Italia è impossibile. Un emendamento al Decreto del Fare presentato ieri in Commissione trasporti e telecomunicazioni fa tornare l’Italia indietro al medioevo. Imponendo ai gestori di esercizi commerciali obblighi stringenti di tracciabilità degli utenti praticamente impossibili da affrontare come dice a Repubblica Stefano Quintarelli, parlamentare di Scelta Civica ed esperto di internet. Che implicano, ad esempio, server dedicati. Con tutte le spese del caso e con un expertise che di certo un barista, un ristoratore o un libraio non hanno.

A voler pensar male, i continui lacci e lacciuoli che impediscono lo sviluppo del wi-fi libero in Italia sembrano fatti apposta per difendere la pletora di società di installazione degli impianti, circa 1500 tutte sviluppatesi all’ombra della Telecom pubblica. Due anni fa ad esempio è scaduta la consultazione sulle misure predisposte dall’ex ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, sul regolamento attuativo del decreto legislativo 198 dello scorso ottobre, che riguarda l’installazione, allacciamento e collaudo di «apparati di rete».

Una definizione che comprende telefoni, reti internet, digitale terrestre, digitale satellitare e qualsiasi aggeggio un po’ più complesso della semplice presa elettrica. I quali dovranno essere, d’ora in avanti, installati soltanto da «imprese titolari di autorizzazione generale per l’installazione e la fornitura di reti pubbliche di comunicazione elettronica per l’espletamento del servizio telefonico accessibile al pubblico (…)», regolarmente iscritti al nuovo albo «per i servizi di comunicazione elettronica e di radiodiffusione». Occhio al fai da te, dunque: si rischia una multa che va dai 15 ai 150mila euro.

Questi professionisti dell’installazione, che arrivano in tre – un direttore dei lavori e due aiutanti – devono avere una comprovata esperienza nel settore (almeno tre anni in un’impresa abilitata, quattro anni in un’impresa del settore), oppure un «diploma di laurea in materia tecnica specifica», oppure ancora un diploma di specializzazione presso un istituto «legalmente riconosciuto» seguito da un periodo di inserimento di almeno due anni. Le imprese, invece, devono avere una dotazione tecnica minima che comprende un misuratore di tera, un misuratore dei parametri trasmissivi, un misuratore d’isolamento e un multimetro digitale.

Gli installatori ufficiali, a cui l’abilitazione viene concessa dall’ispettorato territoriale del ministero (che si riserva di compiere almeno un sopralluogo non annunciato nel corso del triennio di durata della licenza), una volta conclusi i lavori devono rilasciare un certificato di conformità dell’impianto appena montato, oltre a un rapporto di avvenuta “prova” che tutto l’impianto sia perfettamente funzionante. Un pezzo di carta da custodire gelosamente.

Eppure, la soluzione per risolvere il problema dell’identificazione dei cittadini che vogliono navigare via wi-fi e prevenire eventuali violazioni esiste già da quattro anni. Senza mettere in moto tecnici ed esperti di tre ministeri, infatti, basterebbe recuperare il parere fornito dal dicastero dell’Interno ad Assoprovider e Asstel il 27 novembre 2007. Un documento in cui si legge chiaramente che: «Per quanto concerne il punto realtivo all’identificazione dell’utente che si connette alle reti di comunicazione elettronica attraverso la tecnologia wireless, si reputa condizione sufficiente, per soddisfare i requisiti della normativa vigente, l’utilizzo del telefono mobile quale mezzo per attivare le procedure necessarie ad ottenere le credenziali di accesso alla rete stessa, in quanto consente l’identificazione, seppure indiretta, dell’utente stesso». In sostanza, basta registrarsi al servizio fornendo il proprio numero di cellulare, ricevere un sms con un codice per accedere al servizio e navigare in modo “tracciabile” dalla Polizia Postale, l’autorità che vigila sui crimini informatici.

linkiesta.it

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