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Il contributo delle politiche sociali alla creazione di nuova occupazione in Europa e in Italia
Scheda di sintesi del documento introduttivo alla ricerca promossa dalla Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia
Gruppo di lavoro:
Andrea Ciarini Sapienza Università di Roma (coordinatore), Roberto Fantozzi Istat
e
Sapienza Università di Roma,
Silvia Lucciarini Sapienza Università di Roma, Anna Maria Simonazzi
Sapienza
Università di Roma,
Emmanuele Pavolini Università politecnica della Marche, Sara Picchi
Sapienza
Università di Roma,
Michele Raitano
Sapienza Università di Roma
Il taglio della spesa pubblica che continua ad insistere sulle istituzioni del welfare deriva dalla convinzione
che i servizi e le prestazioni sociali rappresentino un costo improduttivo se non uno spreco che alimenta la
spirale del debito pubblico.
Al contrario investire oculatamente nel welfare non significa solo migliorare la qualità di vita delle persone
e delle loro famiglie (evidenti i problemi dell’invecchiamento della popolazione, della non autosufficienza,
della conciliazione vita-lavoro, della cura e assistenza all’infanzia), ma anche favorire celermente ed
efficacemente l’occupazione.
La forte domanda di questi servizi è testimoniata da un dato: tra il 2008 e il 2012 (nel pieno della crisi) a
fronte di una perdita di occupazione nei comparti manifatturieri di 3 milioni e 123 mila unità (Eu 15)
l’incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza è stato pari a 1 milione e 623 mila unità (+7,8%).
I Paesi europei hanno reagito in modo diverso a questa evidente crescita della domanda. Alcuni hanno
puntato decisamente sull’occupazione formalizzata, pubblica o privata. Altri hanno preferito lasciare questa
domanda nell’informalità e cioè “delegando” alle famiglie la ricerca di risposte. Gli esiti sia per la qualità di
vita dei cittadini che per la qualità e quantità di occupazione sono stati conseguentemente diversi.
La Francia, ad esempio, ha puntato su una strategia di integrazione tra politiche di welfare e politiche per la
creazione di occupazione regolare nella cura e assistenza alle persone attraverso strumenti volti a rendere
solvibile la domanda, cioè a mettere le famiglie in grado di pagare i servizi con sgravi contributivi, voucher,
titoli d’acquisto. Queste scelte, hanno concorso a fare emergere dal mercato informale molte delle
prestazioni sociali a domicilio, contribuendo a sviluppare l’occupazione regolare nei servizi alle persone.
Il settore dei servizi alle persone si è andato rapidamente sviluppando. Nel 2011 sono state 3,4 milioni (il
13% del totale) le famiglie che hanno usufruito di servizi di cura e assistenza personale, con un incremento
rispetto al 2005 dell’8%. E il numero dei lavoratori salariati è giunto a 1,8 milioni.
In parte diverse le politiche della Germania. Nell’ambito delle misure adottate per stimolare l’occupazione
dei segmenti più marginali del mercato del lavoro e per l’emersione del sommerso, il sistema dei cosiddetti
minijobs
(impieghi remunerati per un massimo di 450 euro/mese privi di versamenti fiscali e contributivi)
ha accompagnato l’introduzione di procedure semplificate per l’assunzione di personale al domicilio da
parte delle famiglie, le quali possono beneficiare di sgravi contributivi e fiscali. Nel 2012 i
minijobs
sono
arrivati a più di 243 mila unità andando tuttavia ad ingrossare un segmento di forza lavoro strutturalmente
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confinata in occupazioni a bassi salari e bassi livelli di protezione sociale.
L’altro lato della medaglia è che lo sviluppo dell’occupazione nei servizi sociali – che potrebbe essere ben
maggiore in particolare in Italia – ha premiato soprattutto la crescita numerica degli impieghi, senza un pari
sviluppo sul versante della qualificazione dell’occupazione creata, spesso a più bassi salari o sprovvista di
adeguate tutele. L’effetto certamente positivo dell’emersione del lavoro sommerso non è sufficiente: gli
investimenti sulla crescita dell’occupazione nei servizi di cura devono puntare anche alla qualificazione e
alla tutela sociale dei lavoratori.
Ma qual è la situazione nel nostro Paese? L’Italia si trova in ritardo su molti fronti, sul piano dello sviluppo
dei servizi di cura, ma soprattutto rispetto alla individuazione di una vera strategia nazionale di sviluppo del
welfare che abbia in animo la promozione dell’occupazione, oltre che la prioritaria tutela di nuovi e vecchi
bisogni sociali. E ci sono degli elementi distintivi che contraddistinguono questo ritardo.
La “delega” alle famiglie e l’attribuzione ad esse del lavoro di cura è forse l’elemento di maggiore impatto.
In Italia sono più di 15 milioni (il 38,4% della popolazione tra i 15 e i 64 anni) le persone impegnate
regolarmente nel lavoro di cura nei confronti di figli coabitanti di meno di 15 anni, altri bambini della stessa
fascia di età e/o di adulti anziani, malati, non autosufficienti, con disabilità.
Questa attività di cura familiare interessa soprattutto le donne, sia in valore assoluto (8,4 milioni di donne
contro 6,8 milioni di uomini), sia in termini percentuali (il 42,3% a fronte del 34,5%). Secondo stime
dell’Istat sono ben 240 mila le donne occupate che scelgono il part-time invece dell’orario a tempo pieno
per mancanza di servizi all’infanzia adeguati. 489 mila sono invece le donne non occupate ostacolate
all’ingresso nel mercato del lavoro per mancanza di alternative di conciliazione.
Ma oltre a questo impegno diretto, le famiglie ricorrono spesso a “badanti” o assistenti. Alcune stime
indicano che la spesa delle famiglie per il lavoro di cura privato, nel 2009, è stata pari a 9,8 miliardi di euro
contro i 7,1 miliardi di euro dell’intera spesa sociale dei Comuni registrata nello stesso anno. L’insufficienza
di questi servizi e la bassa capacità di pagamento delle famiglie hanno fatto esplodere il fenomeno delle
“badanti”, il vero pilastro del welfare all’italiana.
Ma si tratta spesso di lavoro sommerso. Detrazioni e deduzioni fiscali per chi assume regolarmente una colf
o una badante sono molto limitate. Al contempo voucher e buoni lavoro non sono stati ideati per il settore
specifico della cura e dell’assistenza alle persone, ma piuttosto per altre prestazioni occasionali e
accessorie, dai servizi personali al lavoro in agricoltura.
Anche in questo è evidente l’assenza di una strategia di sviluppo dell’occupazione dei servizi di welfare che
lascia intatti molti dei meccanismi che alimentano appunto il ricorso al mercato sommerso e al “welfare faida-
te”.
L’invecchiamento della popolazione e l’innalzamento dell’età media generano nuovi bisogni spesso
correlati alla non autosufficienza. L’Italia è uno dei pochi Paesi a non avere ancora elaborato una politica
ad
hoc
per la non autosufficienza: si pensi che nel pur ridondante corpus normativo italiano non esiste
nemmeno una definizione giuridica univoca di “persona non autosufficiente”. Nel 2007 era stato istituito
uno specifico Fondo nazionale per la non autosufficienza, la cui copertura è giunta all’azzeramento nel
2010, per poi essere rifinanziata nel 2013. Fra il 2008 e il 2012 la destinazione di risorse ai Fondi sociali è
crollata del 90%. Solo nel 2013 il Fondo nazionale politiche sociali è stato rifinanziato per un totale di 300
milioni, a cui vanno ad aggiungersi 275 milioni di euro per il Fondo non autosufficienza. E per il 2014, al
momento, il Fondo nazionale politiche sociali e il Fondo per la non autosufficienza risultano azzerati.
In questo scenario il costante taglio dei fondi ha lasciato incompiuta la prospettiva di crescita delle
prestazioni sociali e della conseguente occupazione, innescando una spirale al ribasso anche per le
organizzazioni del terzo settore, di fatto messe alla stretta dalla drastica diminuzione della spesa sociale.
Infine, nell’ambito delle prestazioni sociali si evidenzia un profondo squilibrio da Nord e Sud con distanze
che tendono ad allargarsi in un quadro di regionalismo a scarso coordinamento dal centro. Emblematica è
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la condizione dei servizi di cura per la prima infanzia. I tassi di copertura degli asili nido sono nettamente al
di sotto delle reali dimensioni della domanda. L’indice di presa in carico 0-2 anni (anno 2010) è dell’11,8% a
livello nazionale, ma con forti variazioni regionali, dal 25,4% dell’Emilia-Romagna e 22,3% dell’Umbria, al
2,3% della Calabria e 1,9% della Campania. A fronte di regioni (nel Centro-Nord) vicine agli obiettivi fissati
dal Consiglio europeo di Barcellona del 2002 (il 33% di copertura dei servizi in tutti i Paesi europei entro il
2010), ve ne sono altre, tutte nel Mezzogiorno, in pesante ritardo.
La stessa percezione dei Cittadini rispetto alla loro salute si modifica al mutare della quantità e qualità dei
servizi sociali. Incrociando i dati dell’indagine ISTAT sugli interventi e servizi sociali dei comuni con la
percezione delle condizioni di salute emerge chiaramente una correlazione negativa tra la spesa nei servizi
sociali e il grado di disuguaglianza nella salute percepita dai Cittadini. Laddove la spesa sociale è più alta, più
basso è il grado di disuguaglianza nella salute percepita dai Cittadini. In altri termini l’aumento della spesa
sociale (o meglio nelle regioni che spendono di più in cura e servizi sociali) diminuisce la disuguaglianza
nella percezione delle condizioni di salute.
Come è stato di recente sottolineato da alcuni studi, l’uso della spesa pubblica per creare lavoro (in
particolare nei settori ad alta intensità di lavoro e tra questi certamente il welfare dei servizi) ha effetti
sull’occupazione molto più alti e in tempi più rapidi rispetto ad altri tipi di misure: fino a 10 volte superiori
rispetto al taglio delle tasse, da 2 a 4 rispetto all’aumento di spesa negli ammortizzatori sociali o alla
riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese.
Sarebbe una “ricetta”, quindi, diversa (o forse solo complementare) rispetto alla prevalente, concentrata
quasi esclusivamente sulle agevolazioni fiscali e gli incentivi all’assunzione. In sintesi: per rilanciare
l’occupazione si stanno preferendo politiche che agiscono sull’offerta, mentre – e nell’ambito del welfare
ne abbiamo l’esempio – sarebbe vincente puntare anche sulla “domanda”, laddove ce ne siano i
presupposti. Se bene congegnato l’investimento nei servizi di welfare è un fattore che non solo migliora il
grado di salute per quote tendenzialmente ampie e omogenee di popolazione, ma aiuta anche a bilanciare i
processi di de-ospedalizzazione e gli interventi di “razionalizzazione” sulla rete ospedaliera, destinatari, in
seguito all’ultima
spending review,
di forti tagli.
Gli interventi per favorire l’occupazione non sembrano andare in questa direzione. C’è una forte enfasi
sull’investimento in educazione e formazione e sulle politiche attive del lavoro come leva strategica per la
ripresa occupazionale. Il settore dei servizi sociali viene visto come uno degli ambiti nei quali innovare
l’intervento dei programmi dell’Unione, con particolare riferimento – tra l’altro – alla promozione di buona
occupazione. Si continua però a puntare sostanzialmente sul miglioramento delle condizioni di occupabilità
e adattabilità dei lavoratori. Insomma siamo ancora dentro un paradigma di politiche solo offertiste. Di
contro niente è rimesso alla creazione diretta di occupazione attraverso un innalzamento degli investimenti
finanziari nelle politiche sociali, come leva strategica per la creazione di nuovo lavoro.
Positivo anche il recente vertice europeo di fine Giugno 2013: sono previste misure innovative per il
contrasto della disoccupazione, soprattutto quella giovanile con 6 miliardi per l’istituzione della
Youth
european guarantee
nei Paesi (tra cui l’Italia) con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%.
Tuttavia il problema appare lontano dall’essere risolto se affrontato con soli strumenti che intervengono
sull’offerta di lavoro (più flessibilità, più occupabilità), senza politiche in grado di incidere anche sulla
domanda.
In questa prospettiva sarebbe invece opportuno raccogliere l’opportunità offerta dalla decisione della
Commissione UE che ha concesso, proprio in queste ore, all’Italia una maggiore flessibilità di bilancio nel
2014 per investimenti produttivi e per rilanciare la crescita.
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